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Messer Bartolomeo Cavalcanti presente exhibitor se ne ritorna in Italia con animo forse di voler abitare qualche mese in Ferrara. E essendo egli gentile e virtuosa persona massimamente avendola qui in Francia praticata, che in effetto m‟è riuscita tale, m‟è parso, avendo egli questo desiderio, di non lassarlo venire a Vostra Eccellenza senza la presente mia in raccomandazione sua, siccome lo raccomando, pregandola che si degni vederlo volentieri e in ogni sua occorrenza, sia in quella città come in ogn‟altro luogo, fargli piacere e usargli quelle dimostrazioni maggiori che ella stessa giudicherà convenirgli, e oltre che Vostra Eccellenza farà piacere a questo gentiluomo, che poi gli ne sarà molto servitor, io di ciò, usandole qualche vantaggio per amor mio, gli ne resterò con obbligo grande.1

Con queste belle parole l‟Arcivescovo di Milano, Ippolito II d‟Este, nell‟ottobre del 1537 presentò e raccomandò al fratello Ercole II, duca di Ferrara, un fiorentino che aveva conosciuto in Francia, Bartolomeo Cavalcanti. Quest‟ultimo, dopo la sconfitta del fuoriuscitismo, si recò dunque nella città emiliana con l‟intenzione di restarci per un breve periodo, in attesa di capire come si sarebbe evoluta la situazione fiorentina. Il soggiorno, tuttavia, durò più del previsto e l‟esule rimase a Ferrara per circa undici anni, entrando al servizio della famiglia d‟Este in qualità di consigliere e osservatore per i rapporti con gli altri Stati. Svanite le speranze di un mutamento politico in patria, nel periodo che va dalla fine del 1537 all‟estate del 1548 Cavalcanti sperimentò quindi, per la prima volta, la vita da cortigiano. Un‟esperienza che non lo appagò e della quale più volte si lamentò nelle lunghe lettere al caro amico Piero Vettori.

I doveri del Cavalcanti per conto degli Este non furono molto ardui, dal momento che egli venne impiegato raramente e solo in brevi, seppur importanti, missioni diplomatiche. Ciò, tuttavia, gli permise di impegnarsi nell‟attività letteraria e,

1T

IRABOSCHI, Storia della letteratura italiana, cit., VII, p. 1462, lettera di Ippolito d‟Este al duca Ercole II, San Solferino, 10 ottobre 1537.

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di certo, in nessun altro periodo ebbe tanto tempo per potersi dedicare agli studi. Questi anni furono così senza dubbio i più fecondi ed attivi della sua vita da un punto di vista intellettuale. Egli, infatti, scrisse e abbozzò tutte le sue opere (ad eccezione dei Trattati

sopra gli ottimi reggimenti delle Repubbliche antiche e moderne): le traduzioni di

Polibio, varie orazioni pronunciate nel corso della sua attività diplomatica e, soprattutto, la Retorica, il suo testo più celebre, di cui compose la gran parte tra il 1541 e il 1546. Inoltre a Ferrara Baccio ebbe modo di operare nell‟ambito dell‟Accademia degli Elevati, frequentando così alcuni dei più importanti intellettuali cinquecenteschi.

Anche se non fu impegnato in nuove battaglie antimedicee, durante il soggiorno a Ferrara Cavalcanti non dimenticò di certo la questione fiorentina. A ben vedere infatti tutta la sua attività letteraria fu strettamente connessa al suo impegno politico: sia le traduzioni da Polibio che la Retorica dovevano servire, per l‟esule, come monito e ammaestramento militare e diplomatico. Inoltre, in questi anni di attesa e speranze per il fuoriuscitismo, Cavalcanti fu tra i protagonisti del rinnovamento del movimento e contribuì a rendere Ferrara uno maggiori centri di raccolta dei repubblicani fiorentini.

1–LA VITA DA INTELLETTUALE A CORTE, TRA AMICIZIE E POLEMICHE

Cavalcanti giunse a Ferrara con l‟intenzione di restarvi solo qualche mese, ma la mancanza di alternative e, soprattutto, la facilità con la quale si inserì negli ambienti di corte e nel tessuto cittadino lo spinsero ben presto a prolungare il suo soggiorno in Emilia. Arrivato in città alla fine del 1537, egli fu accolto splendidamente dal duca Ercole II: “Baccio è molto ben visto e lietamente accolto da questo duca, col quale spesso mangia et con gran dimestichezza favella”.2

Pur definendo Ferrara un “pantano”3 e i suoi abitanti dei “ranocchi”,4

Baccio apprezzò da subito la vivacità intellettuale cittadina e partecipò con entusiasmo alle numerose attività culturali. Stabilitosi in una

2

LO RE, Politica e cultura, cit., p. 407, lettera di Gianbattista Busini a Piero Vettori, Ferrara, 15 dicembre 1537.

3 C

AVALCANTI, Lettere, cit., p. 129, lettera a Vettori da Ferrara del 12 febbraio 1543 o ‟44. 4 Ivi, p. 88, lettera a Vettori da Ferrara del 25 ottobre 1538.

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casa nel Borgo de Leone,5 egli entrò infatti a far parte dell‟Accademia degli Elevati, fondata nel 1540 da Alberto Lollio,6 dedicandosi agli studi letterari e scrivendo persino una poesia, come comunicò al Vettori: “io ho mandato una canzonetta mia a messer Cristofero, leggetela di grazia, non come bella, ma come mia”.7

Purtroppo il componimento in versi dell‟esule è ormai andato disperso,8

tuttavia già solo il fatto che egli si fosse cimentato in un genere mai frequentato prima e al quale neppure in seguito si sarebbe dedicato, offre una piccola ma significativa testimonianza di quanto siano stati intensi e creativi dal punto di vista intellettuale gli anni che egli trascorse nella città emiliana.

A Ferrara Cavalcanti ebbe modo di frequentare alcuni fra i più noti intellettuali del Cinquecento. Oltre al letterato fiorentino Alberto Lollio,9 Baccio ebbe infatti fra i suoi amici Bartolomeo Ricci, rinomato umanista,10 Vincenzo Maggi, filosofo bresciano noto soprattutto per il suo commento alla Poetica di Aristotele,11 Gianbattista Pigna, segretario prima di Ercole II, poi di Alfonso II,12 e Gianbattista Giraldi Cinzio, celebre drammaturgo e professore di retorica.13 Quest‟ultimo, in particolare, instaurò con

5 Della residenza di Cavalcanti a Ferrara siamo informati da una lettera di Francesco Borghini del luglio 1551 nella quale egli comunicava a Cosimo I che Gianbattista Busini si era rifugiato nella città emiliana a casa di Baccio “dal quale ha le spese”(BUSINI, Lettere, cit., p. VII).

6 All‟Accademia degli Elevati, fondata il 1 maggio 1540, aderirono alcuni dei più importanti letterati cinquecenteschi, che si riunivano in casa del fondatore di essa, Alberto Lollio. Il motto che l‟accompagnava, supera tellus sidera donat, esprimeva chiaramente l‟aspirazione a costituire un ceto intellettuale che affiancasse il potere politico e mettesse al servizio del bene pubblico il sapere acquisito. Tuttavia l‟Accademia ebbe una vita breve poiché si estinse già nell‟aprile 1541 in seguito, presumibilmente, a frizioni interne (cfr. M. MAYLENDER, Storia delle Accademie d'Italia, Bologna, Cappelli, 1926-30, II, p. 260). Il nome del Cavalcanti si trova nell‟elenco dei soci conservato alla Biblioteca Comunale Ariostea di Ferrara (Collezione Antonelli, 342).

7C

AVALCANTI, Lettere, cit., p. 87, lettera a Vettori da Ferrara del 4 luglio 1538.

8 La poesia del Cavalcanti risulta essere nell‟indice della Collezione Antonelli della Biblioteca Comunale Ariostea di Ferrara, ma in realtà nel codice non ve n‟è traccia.

9

Sul letterato fiorentino Alberto Lollio (1508-1568) cfr.V.GALLO, Alberto Lollio, in DBI, LXV (2005), pp. 454-456.

10 Su Bartolomeo Ricci (1490-1569) cfr. V.A.L

AZZARI, Un umanista romagnolo alla corte di

Ippolito II d’Este, Bartolomeo Ricci da Lugo, in “Atti e memorie della deputazione ferrarese di storia

patria”, XXI (1912), 3, pp. 5-240. Ricci dedicò al Cavalcanti un elogio, lodando in particolare la sua

Retorica (cfr. B.RICCI, Epistolarum familiarium, IV, Ferrara, presso Valente Panizza, 1562, p. 49). 11 Il filosofo Vincenzo Maggi (morto nel 1564) fu professore a Ferrara ed aiutò Cavalcanti con la Retorica. Alcune delle sue lettere sono state pubblicate da U.DA COMO, Umanisti del secolo XVI: Pier

Francesco Zini e i suoi amici congiunti, Bologna, Zanichelli, 1928, pp. 234-236. 12 Su Gianbattista Pigna (1530-1575), allievo di Giraldi, cfr.L.R

AFFAELE, I codici delle rime di

Gianbattista Pigna, in “Atti e memorie della deputazione ferrarese di storia patria”, XXI (1912), I, pp. 35-

159. In una lettera al Vettori del 20 maggio 1549 Pigna parlò con molto rispetto del Cavalcanti (cfr. CAVALCANTI, Lettere, cit., p. XXXVI, n. 120).

13 Giovanbattista Giraldi, letterato, drammaturgo, filosofo e medico, nacque a Ferrara nel 1504 e morì nel 1573. Ebbe l'appellativo di „Cinzio‟. Fu uno dei maggiori assertori dell'aristotelismo letterario, propugnò un teatro tragico costruito secondo le regole aristoteliche, ma con fini moraleggianti quali la

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Cavalcanti un‟amicizia molto salda e duratura, come ebbe a scrivere nel suo

Commentario delle cose di Ferrara: “costui per sua molta umanità e somiglianza di

studi m‟è divenuto tanto stretto amico, che la benevolenza di lui verso me e l‟amor mio verso di lui non è per disciorsi mai, né per distanza di luoghi, né per ingiuria di crudele fortuna, né per lunghissimo tempo”.14

Il Giraldi ebbe dunque una grande stima dell‟esule fiorentino e, giudicandolo “tra dotti giudiziosissimo e tra giudiziosi dottissimo”,15

non solo gli mostrò molte delle sue opere,16 ma gli dedicò pure una lettera posta come introduzione all‟Egle.17

Una tale ammirazione, ovviamente, fu sempre riforma cattolica esigeva. S'ispirò a Seneca piuttosto che ai greci e agli argomenti classici. Nelle sue tragedie portò sulla scena casi orribili e paurosi, nell'illusione che essi rendessero più persuasiva la moralità, fece a volte terminare l'azione lietamente e le chiamò allora tragicommedie. Ebbe larga influenza su tutte le tragedie posteriori, il che giustifica la stima di cui godette nella seconda metà del secolo. Sulla sua figura e le sue opere cfr. M.PIERI,Giovan Battista Giraldi Cinzio trattatista, Milano,

Marzorati, 1978;C. MOLINARI, La vicenda redazionale dell’Egle di Giovan Battista Giraldi Cinzio, Firenze, Accademia della Crusca, 1979;R.BRUSCAGLI, Gianbattista Giraldi: comico, satirico, tragico, in Id., Stagioni della civiltà estense, Pisa, Nistri-Lischi, 1983, pp. 161-186; C. LUCAS, De l’horreur au

“lieto fine”: le contrôle du discours tragique dans le théâtre de Giraldi Cinzio, Roma, Bonacci, 1984; Giovan Battista Giraldi Cinzio gentiluomo ferrarese, Atti del convegno tenuto a Ferrara, 1-2 dicembre

2005, a cura di P. Cherchi, M. Rinaldi e M. Tempera, Firenze, Olschki, 2008. 14G. B.G

IRALDI CINZIO, Commentario delle cose di Ferrara, trad. di L. Domenichi, Firenze, appresso Lorenzo Torrentino, 1556, p. 91.

15I

D., Egle, a cura di C. Molinari, Milano-Napoli, Riccardi, 1988, Lettera a messer Bartolomeo

Cavalcanti.

16 Cavalcanti ricevette dal Giraldi l‟Hercole e gli Hecatommithi e ne diede all‟amico un giudizio molto positivo: “Nel tempo di questo mio grave travaglio, non mi poteva venir cosa più grata avanti dell‟Ercole e de gli Ecatommiti vostri, che voi mi avete mandato […] E perché mi domandate del parere mio, vi dico quanto all‟Ercole, che essendo egli già fuori stampato, non ho altro che dirvi, se non che io ho veduto in questo vostro poema cose più da coturno (come disse colui) che da socchi; e ciò farà, che egli non sarà così cosa da ognuno per essere su materia antica e grave, come il Furioso vostro compatriota, il quale porta seco del comico e perciò molto diletta a giovani, a donne e a popolari: ma la vostra natura è tutta al tragico e in queste materie gravi voi riuscite meraviglioso […] Quanto agli Ecatommiti, io ne son rimasto soddisfattissimo e, considerati gli argomenti e la loro disposizione, mi è parso che abbiate messa innanzi agli huomini una gentil fomra di azioni civili” (CAVALCANTI, Lettere, cit., pp. 311-313, lettera di Cavalcanti a Giraldi da Padova del 3 maggio 1560).

17

La lettera è un breve testo programmatico in cui Giraldi si presenta come un coraggioso sperimentatore di una “nuova favola”. Naturalmente in essa non mancano lodi per l‟amico Cavalcanti: “tre cose tra le altre, magnifico messer Bartolomeo, sono sovente principale cagione che i nuovi componimenti che da sé sono degni di loda appresso qualche torto giudizio ricevano biasimo. L'una delle quali è l'ignoranza altrui, l'altra il troppo persuadersi di sapere, la terza l'altrui invidia. Perché coloro che non sanno non stimano buono se non quello ch‟è loro proprio, ciò è l'ignoranza. E quelli che si persuadono di sapere tutte le cose, veggendosi non essere iti con lo ingegno tanto oltre, quanto alle volte veggono andare altri, cercano col biasimare gli apportatori delle cose nuove serbarsi quella riputazione ch'essi s'hanno acquistato appresso tale che si ha creduto poter sapere, col mezzo loro, ogni lodevole cosa. E gli invidiosi, che sempre con dolente occhio mirano il bene altrui, quanto più vaghe veggono apparir le cose nuove e più atte ad accrescere pregio ai loro autori, tanto più cercano macchiarle col loro veleno, acciò che meno vaghe e meno leggiadre si scoprano a gli occhi di chi le dee mirare. Per questo dunque, veggendo io a che rischio io mi poneva e quanto gran campo io dava a simili genti di lacerarmi, s‟io dava fuori la Satira mia, cosa non pur nuova, ma (s‟io non me inganno), né anche conosciuta da molti a' tempi nostri, meco aveva deliberato tenerla ascosa e nel seno godermi d'essere stato io il primo che dopo mille anni e più avessi posto in questo campo il piede. Ma dipoi, sapendo che i dotti, che sono d‟animo sincero,

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ricambiata da Baccio, il quale, a sua volta, lodò oltremisura le novelle e le canzoni di Giraldi, al punto da stimarle superiori persino a quelle del Boccaccio: “si hanno di così gran lunga lasciate addietro quelle del Boccaccio, che mi è parso vederlo arrossire dalla vergogna, vedute le vostre”.18

Questa grande amicizia che legava Cavalcanti e Giraldi è stata però, presumibilmente, causa di un errore di paternità letteraria. Per secoli, infatti, si è ritenuto che l‟esule fiorentino avesse composto il celebre opuscolo anonimo Giudizio di

una tragedia di Canace e Macareo ed avesse quindi preso parte ad uno dei più

interessanti dibattiti letterari del Cinquecento, ovvero quello che sorse intorno alla

Canace, una tragedia che Sperone Speroni compose nel 1542 e che circolò manoscritta

fino al 1546, quando venne pubblicata all‟insaputa dell‟autore.

Il Giudizio, scritto alla metà degli anni ‟40 e dato alle stampe, anonimo, nel 1550 da Vincenzo Busdrago da Lucca, consiste in un polemico testo in forma di dialogo, o meglio di due discussioni fittizie, nel quale vengono criticati aspramente il soggetto, i personaggi e lo stile della Canace.19 Il malinteso circa la sua paternità risale al 1590, quando, a polemica ormai finita con la morte dello Speroni due anni prima, vide la luce un opuscolo, intitolato Discorso intorno al contrasto tra il Signor Sperone Speroni ed il

Giudizio stampato contra la sua tragedia di Canace e Macareo, il cui autore Faustino

Summo attribuiva il testo alla mano di Cavalcanti. L‟ipotesi si basava da un lato sul fatto che il „Fiorentino‟ protagonista del secondo dialogo del Giudizio sembrava corrispondere a Baccio e dall‟altro su una breve sentenza del Giraldi: “tale è il mio prendono piacere di quello che a quegli altri è di noia e bramano ch'ogni dì appaia cosa onde si destino i belli ingegni ad arricchire questa nostra volgare favella, ho voluto più tosto piacere a questi pochi tali (che dopo che la mi fero porre in scena, più e più volte chiesta la mi hanno), che per la moltitudine di quegli altri essere tenuto da questi poco cortese. Oltre che il persuadermi che questa mia nuova favola potrebbe essere duce ai gentili spiriti a farli giungere, in questa maniera di scrivere, là ove io forse non sono arrivato, mi ha non poco invitato a darla fuori. Avendo dunque meco proposto di lasciarla uscire, a voi tra' dotti giudiziosissimo e tra giudiziosi dottissimo ne faccio cortese dono, sicuro che se voi colla vostra dottrina e col vostro giudizio non potrete raffrenare l'altrui mal dire, potrete almeno colla ragione in mano, dalla quale a mio giudizio in questo componimento non mi sono scostato, far vedere a chi sarà capace del vero il poco sapere de gli ignoranti e la troppa persuasione e malvagità de gli altri; e che se questa Satira non ha in sé la reale maestà della Tragedia, né la civile piacevolezza della Commedia, porta però tanto seco del proprio a lei, che non è nella sua spezie imperfetta appresso di chi sa di che membra vogliono essere composte questa e quelle. Coglietela dunque et insieme con lei il vostro Giraldi, non meno affezionato alla vostra molta virtù, che meriti la benignità e la cortesia che sempre amorevolissimamente l‟avete mostro” (GIRALDI CINZIO, Egle, cit., Lettera a messer Bartolomeo

Cavalcanti). 18

CAVALCANTI, Lettere, cit., p. 313, lettera a Giraldi da Padova del 3 maggio 1560. 19 Cfr.R

OAF,Sperone Speroni, Canace e scritti in sua difesa. Gianbattista Giraldi Cinzio, scritti contro la Canace: Giudizio ed Epistola Latina, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1982, pp.

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gentilissimo e dotto Cavalcanti, come fede ne fa il giudizio che egli fa delle cose altrui”.20

Inoltre, due degli altri presunti autori del testo, Giovanni Della Casa e Bernardo Tomitano, erano da scartare sulla base di testimonianze contemporanee e lo stesso Giraldi, sul quale erano caduti più volte i sospetti dello Speroni, era di fatto escluso da una lettera di Pigna all‟autore della Canace.21 Summo aggiungeva infine a sostegno della sua tesi che l‟Epistola latina, che era stata composta in risposta alle

Lezioni con le quali nel 1558 lo Speroni si era difeso dinanzi all‟Accademia degli

Elevati, non poteva essere stata scritta “da altra mano che da quella del Cavalcanti” nei suoi ultimi anni di vita a Padova.22 Benché da subito si fosse capito che l‟Epistola latina non era in realtà opera dell‟esule, l‟ipotesi di Summo ebbe successo. Così, sebbene Gianbattista Liviera già alla fine del XVI secolo avesse respinto l‟attribuzione a Baccio,23 ad eccezione di qualche altra debole voce levatasi in favore della candidatura del Giraldi, l‟esule fiorentino è stato generalmente ritenuto l‟autore del Giudizio.

L‟errore sulla paternità dell‟opera si è protratto fino alla metà del XX secolo, quando Christina Roaf, esperta di Cavalcanti e della questione intorno alla Canace, ha finalmente svelato l‟inganno.24

Dall‟accurata analisi della studiosa sui testi della polemica è sembrato chiaro da subito che l‟opuscolo non era da attribuire all‟esule, ma al Giraldi. L‟amore di quest‟ultimo verso il teatro e la ricerca della novità, oltre ad una perfetta conoscenza dell‟opera aristotelica, lo rendevano infatti il candidato più autorevole e, non a caso, lo stesso Speroni aveva concentrato i suoi sospetti su di lui. A ben vedere, inoltre, gli scritti critici del letterato ferrarese somigliavano oltremodo al

Giudizio, sia nello stile che nei contenuti, e in molti punti le idee sulla teoria

drammatica rivelavano interpretazioni analoghe della Poetica di Aristotele. Infine, il fatto che la Canace potesse essere sembrata agli occhi di Giraldi un tentativo di rivaleggiare con l‟Orbecche potrebbe avergli fornito una buona scusa per delle critiche anonime.25 Al contrario, le argomentazioni del Summo a favore dell‟ipotesi Cavalcanti

20 S.S

PERONI, Opere, a cura di M. Forcellini, 5 vol., Venezia, appresso Domenico Occhi, 1740, IV, p. 235.

21

Cfr.ROAF, A sixteenth century anonimo, cit., pp. 53-54. 22S

PERONI, Opere, cit., IV, p. 235. 23 Cfr. G.B.L

IVIERA,Apologia contro l’eccellente signor Faustino Summo padovano intorno alle

tragedie di lieto fine, Padova, appresso Lorenzo Pasquati, 1590. Alle critiche di Liviera il Summo rispose

subito ribadendo le sue convinzioni, cfr. F.SUMMO, Risposta all’Apologia del signor Giovanni Battista

Liviera vicentino, Padova, appresso Paolo Meietti, 1590. 24 Cfr. R

OAF, A sixteenth century anonimo, cit., pp. 49-74. 25 Cfr. ivi, pp. 60-74.

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sono sembrate alla Roaf piuttosto deboli: la sentenza del Giraldi era ambigua e il fatto che il „Fiorentino‟ protagonista del secondo dialogo corrispondeva alla figura dell‟esule26

non sembrava essere una motivazione sufficiente per attribuire l‟opera. A ciò si deve aggiungere che Cavalcanti nei suoi scritti non aveva mai mostrato una particolare passione per il teatro e che alcuni giudizi all‟interno dell‟opuscolo erano assai distanti dalle opinioni del fiorentino: basti pensare alla condanna del Berni come poeta rozzo e volgare, che invece, come si è visto, era un grande amico di Baccio. Sembrava inoltre difficile che nelle sue lunghe lettere personali all‟amico Vettori, egli non avesse mai fatto cenno alla polemica nella quale sarebbe stato coinvolto.27 Pertanto, in conclusione, benché ancora oggi non si sappia con certezza chi sia stato l‟autore del

Giudizio (Giraldi resta lo scrittore più probabile), sembra potersi ormai scartare

definitivamente l‟ipotesi Cavalcanti.

Oltre al Giraldi e agli altri umanisti che ruotavano attorno all‟Accademia degli Elevati, in questi anni Baccio conobbe anche altri importanti letterati. Tra Ferrara e Venezia, dove si recò spesso per conto degli Este, egli ebbe infatti modo di incontrare noti intellettuali, come il già citato Sperone Speroni, autore della Canace,28 l‟erudito veneto Daniello Barbaro,29 il poeta mantovano Lelio Capilupi,30 lo stampatore Paolo Manuzio31 e l‟umanista padovano Lazzaro Bonamico.32 Assieme a quest‟ultimo, grande

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