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Arte povera: il libero progettarsi dell’uomo

G. Anselmo, Torsione,

Direzione (1969) la forza naturale si manifesta all’interno della dura pietra, supporto per l’occasione

modellato a preistorica freccia, dove l’artista colloca una piccola bussola con l’ago magnetico che subisce l’influenza dei poli, orientandosi verso il Nord. La tematica della forza di gravità si trova spesso nelle opere poveriste, l’idea di gravità è interessante perché coinvolge il concetto di equilibrio, stabilità e convivenza tra elementi differenti, tutti termini traslabili in una discussione sulla realtà sociale dell’epoca. Attraverso le opere di Anselmo l’individuo diventa parte di una situazione di energia, l’artista descrive così l’intervento realizzato in Senza titolo (1968): “I use electricity because it is energy. Electrical energy as such can be dangerous and has to be kept under control. I made a work with electricity in which I separated the two poles, negative and positive, with the help of two pieces of stone. When standing in front of this work the viewer had the possibility of choosing between life and death.”168 L’artista invita lo spettatore a compiere una scelta davanti alle sue opere, sottolineando che si tratta di realtà e non di rappresentazione, un mondo in cui l’uomo è libero di decidere in merito ale proprie azioni.

Il lavoro di Zorio è molto simile alle ricerche compiute da Anselmo, entrambi studiano i rapporti tra elementi costitutivi dell’opera e la loro trasformazione nel corso del tempo. Secondo gli storici americani questa visione del tempo è tipicamente europea: “Italian artists were the only ones who were able to come together and chorally assume a vision differentiated from and independent of the American ideology. Their vision is deeply anchored in their own historical reality, profounded linked to a European attitude that has always had a sense of time… these same artists, moreover, continue to pursue this relationship to time and to participate in the temporal flux as analysis of life and reality.”169

L’opera che Anselmo espone per la prima volta a Torino alla galleria Sperone, Trespolo (1969), rappresenta un salto indietro nel tempo; egli posiziona una mensola di pietra su una parete della sala espositiva a una certa altezza dal pavimento, solitamente poco superiore all’altezza dello sguardo dello spettatore, sopra vi pone acqua, pane e

168

G. ANSELMO, in Esperienze degli anni '60-'80: arte concettuale, arte povera, costruttivista, arte cinetica nella collezione della Banca commerciale italiana a Francoforte, Allemandi & co., Torino 1992, p. 56.

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C. MAYER-STOLL, Calzolari, in Che fare? Arte povera – The historic years, catalogo della mostra a cura di F. MALSCH, C. MATER-STOLL, V. PERO (Vaduz, Kunstmuseum Liechtenstein), Kunstmuseum Liechtenstein, Vaduz 2010, pp. 10-18.

zucchero, come se quell’oggetto fosse il luogo di ristoro di alcuni animali. L’artista immagina il luogo in cui è collocata la galleria milioni di anni prima e quindi identifica la sala espositiva con un bosco. In questo caso Anselmo ricostruisce un frammento di passato, dimostrando la fluidità con la quale le opere possono muoversi tra le epoche. Ma per l’arte povera non è importante l’attimo, ma la sequenza di attimi, ovvero il processo di evoluzione dell’opera. Anselmo spiega: “Io, il mondo, le cose, la vita, siamo delle situazioni di energia ed il punto è proprio di non cristallizzare tali situazioni, bensì di mantenerle aperte e vive in funzione del nostro vivere.”170 L’opera Respiro (1969) va colta proprio in questa dinamica di evoluzione temporale, altrimenti non si riuscirebbe a capire cosa intenda l’artista con il titolo, infatti l’opera è costruita in modo che una spugna collocata tra due blocchi di ferro si dilati e si restringa nel corso del tempo, in base alla temperatura dell’ambiente circostante che agisce sulla materia solida. Gilberto Zorio progetta delle strutture artistiche più complesse, dove gli elementi naturali o artificiali realizzano attraverso una metamorfosi. La prima personale dell’artista si svolge alla galleria Sperone nel 1967, tra le opere esposte compare Tenda (1967) composta da una struttura in metallo ricoperta da un telone blu. Come la maggior parte delle opere dei poveristi, Tenda va fruita nel corso del tempo: sulla sommità della tela viene posta dell’acqua salata che viene progressivamente assorbita dal telone, producendo un alone bianco che permane come marchio dell’evento. Come sostiene Trini: “Zorio vede la massa come energia”171, l’artista scopre la tensione tra gli elementi, ma riesce a contenerla, egli svela l’energia in potenza. Un’altra costante delle creazioni artistiche di Zorio è la presenza della parola, in ogni sua espressione: scritta, detta, immaginata. L’artista gioca con i termini, li trasforma, li fonde, gli dona nuovo significato e li distrugge. In Per purificare le parole (1969) Zorio crea un’installazione che produce una tripla azione e coinvolge lo spettatore, egli deve pronunciare delle parole all’interno di un tubo circolare che in seguito prende fuoco, in questo modo la parola, prima pensata, poi detta si trasforma. “Si tratta di una proposta aperta alla parola – dichiara l’artista - la parola del locutore, che si concentra nell’universo privato dell’opera, recipiente dell’alcool, diventa, dopo aver attraversato il filtro, confusa, offuscata. La parola è indistinta, ma fisicamente e chimicamente pura.”172 Zorio compie un’azione simile a quella di Anselmo, egli vuole trasformare qualcosa di invisibile in visibile, vuole lasciarne traccia. Il suo modus operandi è molto suggestivo, ha un forte impatto visivo grazie alla costruzione scenica e alla teatralità dell’azione svolta. Una teatralità che spesso sconfina nell’elemento alchemico “vi è un parallelismo evidente fra la dimensione esistenziale, come irripetibile e incomunicabile esperienza personale, e il magico processo conoscitivo dell’esoterismo alchemico.”173

170

G. ANSELMO, in G. CELANT, Coerenza in coerenza: dall’arte povera al 1984, Mondadori, Milano 1984, p. 8.

171

T. TRINI, Gilberto Zorio, in Gilberto Zorio 1967-1984, catalogo della mostra (Modena, Galleria Civica), Panini, Modena 1985, p. 179.

172

G. ZORIO, in Gilberto Zorio ... op. cit., p. 8.

173

D. ECCHER, La solenne necessità della tragedia, in Gilberto Zorio, Catalogo mostra (Trento, galleria civica) Hopefulmonster, Torino 1996, pp. 8-11.

Tra il 1968 e il 1971 utilizza le parole come se fossero immagini, egli realizza Odio, Confine e Fluidità

radicale. Nel 1968 l’artista abbraccia una scure e scolpisce con forza su una parete la parola Odio,

l’anno dopo compone la stessa parola con una fune, la poggia su un blocco di piombo e la batte con un martello in modo da lasciarne la traccia sulla dura materia.

Infine nel 1972 il potere mentale della parola diventa la forza di un concetto espresso sulla propria pelle, nel lato sinistro della fronte dell’artista compare un marchio, sulla pelle resta impressa la parola Odio. L’opera di Zorio parla di violenza e solitudine, esprime il dramma dell’individuo che si accorge di essere solo al mondo, ma la reazione non è auto compatimento o pura disperazione, l’espressione dell’artista ritratto nella foto non dimostra dolore fisico, ma un dolore più profondo, nello spirito. Secondo Danilo Eccher “ciò che risulta determinante è la riflessione teorica sul ruolo dell’opera d’arte, la sua collocazione nel processo di consapevolezza del pensiero.”174 L’odio è legato alla solitudine esibita in questo dramma silenzioso. L’opera mostra la sua dimensione tragica, in bilico tra l’abbandono all’oscurità e la consapevolezza dell’individualità eroica. Apprendere la propria solitudine non è certamente un compiacimento, ma l’artista invita a riflettere sulla situazione per mostrare la propria unicità. Il riscatto, suggerisce Zorio, è da ricercare nella dimensione poetica. Confine (1970-71) è stata realizzata scrivendo sulla parete questa parola con un pennarello bianco fosforescente, di modo che essa può essere vista solo a luce spenta, mentre non viene notata in una stanza illuminata. Il confine a cui l’artista fa riferimento è un concetto astratto come reale,

esso rappresenta le limitazioni sia fisiche che psichiche dell’individuo. Nelle opere di Zorio il “riconoscimento di se è essenzialmente una conquista etica e dunque una scelta politica.”175 Mario Merz è l’artista, all’interno del gruppo, che più si ricollega all’idea del legame tra arte e politica ipotizzato da Celant all’inizio 174 Ibidem. 175 Ibidem. G. Zorio, Odio, 1972

dell’esperienza poverista. Nelle opere della fine degli anni Sessanta l’artista riflette sulle tematiche sociali, vincolando il proprio discorso artistico a argomenti discussi all’epoca. Nel 1968 presenta Sitin, un chiaro riferimento alla pratica comune di lotta civile non violenta, il lavoro consiste nel far colare della cera in una struttura di metallo a maglie larghe, per poi posizionare sopra al materiale deformabile un tubo a neon, modellato per formare la scritta “Sitin”. L’opera viene esposta alla mostra “Prospect 68” alla kunsthalle di Dusseldorf nel 1968, in un momento di grandi tensioni sociali che percorrono l’Europa. L’artista sembra invitare a compiere un’azione su questo materiale molle, a produrre un’impronta, un segno del proprio passaggio e dell’essere al mondo. Inizia a sperimentare con il neon già a metà anni Sessanta, una delle prime opere in cui impiega questo materiale è Bottiglia e neon (1966-67), che viene esposta alla galleria Sperone nel 1968 durante la mostra personale dell’artista, insieme ad altri oggetti simili come Impermeabile e Ombrello (entrambi del 1967). Attraverso questo assemblaggio l’artista punta a distruggere la funzionalità dell’oggetto di partenza, stravolgendone il significato, per instillare all’interno di un oggetto quotidiano la forza energetica rappresentata dal neon. Il 1969 è l’anno in cui espone alla galleria L’Attico Che fare? Celebre opera formata da tubi metallici, vetro, rami e stucco. Di questa installazione esistono varie versioni: nella prima Merz immerge le parole in un pentolino colmo di cera che nel corso del tempo si scioglie, in seguito, sia ad Amsterdam che presso la galleria romana, utilizza terra, olio e stucco colorato per formulare il dilemma. Accanto alla scritta sul muro è presente una bocchetta d’acqua che perde il liquido in continuazione. Egli gioca con il doppio senso del rubinetto che perde e il titolo dell’opera, il quale fa riferimento a uno scritto di Lenin del 1902: “Che fare” appunto. Dal 1972 l’artista approfondisce la sua ricerca utilizzando la serie di numeri di Fibonacci, in 1,2,3,5,8,13,21,34,55 uomini hanno mangiato egli presenta 9 fotografie in bianco e nero scattate dall’amico Gianfranco Gorgoni all’interno di una mensa in una fabbrica napoletana. Le foto, esposte alla mostra di Amsterdam corredate da un sistema a neon, offrono una riflessione sul concetto di individuo singolo e di rapporto con la collettività.