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We can be (anti)heroes, just for one day

È necessario che l'uomo possa scegliere tra bene e male e che ci sia il caso in cui egli scelga il male. Privarlo di questa possibilità di scelta, significa renderlo qualcosa di inferiore all'umano - un'arancia meccanica appunto.

(Stanley Kubrick su Arancia Meccanica)

In C’era una volta a… Hollywood, l’ultimo film di Quentin Tarantino, uno dei due principali protagonisti, l’attore Rick Dalton (Leonardo Di Caprio), è ossessionato dall’idea di essere stato scelto per recitare la parte del cattivo in un film western. La sua preoccupazione viene confermata, in una scena estremamente significativa, dal produttore Marvin Schwarz (Al Pacino), che lo invita a risollevare una carriera che sta evidentemente andando alla deriva:

Marvin Schwarzs:

So, you’ve been doing guest shots on episodic TV shows the last couple of years. […] You, uh, you always play the bad guy on these shows?

Rick Dalton:

Yeah. Marvin Schwarzs:

And they have a fight scene at the end of them? Rick Dalton:

[…] yeah. Marvin Schwarzs:

Rick Dalton:

Yeah, of course. I’m the heavy Marvin Schwarzs:

Oh, that’s an old trick pulled by the networks. You take Bingo Martin, for example. […] So you got a new guy like Scott Brown. You want to build up his bona fide. So you hire a guy from a canceled show to play the heavy. Then at the end of the show when they fight, it’s hero besting heavy. But what the audience sees is Bingo Martin whipping Jake Cahill’s *ss. You see? Then next week, it’s Ron Ely. The next week it’s Bob Conrad, wearing his tight pants, kicking your *ss.160

Il film è ambientato nel 1969, anno chiave per la cinematografia americana. La tragica notte del 9 agosto di quell’anno, infatti, Sharon Tate (moglie di Roman Polanski) viene brutalmente uccisa nella sua villa a Cielo Drive da alcuni membri della Family di Charles Manson. La storia di Manson è a tutti gli effetti “una storia di Hollywood”161

per numerosi motivi (non ultimo il fatto che per molto tempo ebbe come dimora lo Spahn Ranch, un ex set cinematografico), ma il massacro di quella notte rappresenta per molti una ferita talmente insanabile da sancire la fine stessa di un’era. Non è un caso, quindi, se Tarantino sceglie proprio questa storia maledetta come sottofondo per gli eventi raccontati nel film che dichiara in modo più palese il suo amore per la settima arte. A ben riflettere, infatti, la pellicola mette in

160 Once Upon a Time in… Hollywood, regia di Q. Tarantino, Heyday Films 2019

161 Come ricorda Karina Longworth, critica cinematografica, che ha dedicato proprio alla Hollywood di

Charles Manson una stagione del suo podcast You Must Remember This. Le puntate specifiche si possono trovare qui: https://spoti.fi/2NiOqPf

evidenza in maniera sopraffina la crisi che il cinema stava affrontando già a partire dal secondo dopoguerra e che, in quegli anni, l’ha costretto a una significativa evoluzione interna. In parte per fare i conti con il crescente successo della televisione (che aveva allontanato in modo considerevole il pubblico dalle sale) e in parte per la necessità quasi fisiologica di inserirsi all’interno della “costellazione controculturale di massa, […] in grado di competere (e persino minacciare) l’egemonia dell’intrattenimento

mainstream”162, ha inizio la cosiddetta “Hollywood Renaissance”, che

proprio a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta163 si dimostrerà in grado di rinnovare il panorama cinematografico, proponendo modelli nuovi attraverso il ripensamento e la riscrittura dei generi classici e, soprattutto, attuando un vero e proprio rovesciamento morale rispetto alle narrazioni

mainstream. In particolare, il cambio di rotta si manifesta attraverso due

tendenze, ugualmente destinate a preparare il terreno per gli anni successivi. Alla pratica comune di garantire allo spettatore un finale in grado di addolcire, almeno nell’epilogo, le vicende proiettate sullo schermo si sostituisce una assoluta mancanza di happy ending. Le scene, inoltre, si

162

A.M. Banti, Wonderland – La cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd, Edizioni La Terza, Bari 2017, p. 441

163 Nello specifico è da segnalare l’uscita in sala, nel 1967, di due capolavori del cinema destinati a fare

da spartiacque all’interno del panorama cinematografico internazionale: The Graduate (Il Laureato, Mike Nichols) e Bonnie and Clyde (Gangster Story, Arthur Penn). Con la loro struttura narrativa insolita e i loro contenuti poco canonici, questi film danno inizio a una lunga serie di successi di box office e critica che si distaccano dalle proposte più specificatamente definibili come mainstream. (Cfr. A.M. Banti, op.

fanno più audaci e realistiche164, mentre i protagonisti diventano maggiormente complessi e ricchi di sfaccettature, facendosi portavoce delle inquietudini che smuovono la società165 e rivelandosi attraverso le proprie debolezze e ombre. Dell’antieroe, questa nuova figura che si affaccia sul panorama cinematografico, viene data una precisa definizione da Andrea Bernardelli:

L’antieroe sarebbe […] in generale il risultato del rovesciamento o negazione di ogni possibile caratteristica o qualità positiva dell’eroe. In questo modo antieroe è sia l’inetto che rifiuta l’azione eroica, quanto colui che non è in grado strutturalmente di compiere l’azione eroica e si copre quindi di ridicolo, ma anche la persona normale o comune che non possiede qualità eroiche, e che si trova spinto dalle circostanze ad agire come se fosse un eroe, e così via in una casistica estremamente ricca e complessa che potrebbe coprire l’intero arco della storia della letteratura, del teatro, e del cinema. Di fatto il concetto di antieroe è solo un genere, un’ampia etichetta o termine-ombrello, che deve essere di volta in volta caratterizzato e specificato in base al tipo di narrazione in cui viene collocato166.

Per rendere meglio questo concetto, lo studioso prosegue la sua dissertazione riprendendo il concetto di personaggio piatto/tondo introdotta

164

La maggiore libertà di espressione è garantita da una progressiva revisione del Codice di autocensura vigente all’epoca. (Cfr. A.M. Banti, op. cit., pp. 441-442)

165 Una società che, secondo Zygmunt Bauman, è sempre più “liquida”, cosa che comporta serie difficoltà

nel definire o ri-costruire una prospettiva etica unitaria. (Cfr. A. Bernardelli, Etica criminale? Le

trasformazioni della figura dell’antieroe nella serialità televisiva, Between, vol. VI, n.11 (Maggio 2016),

http://www.betweenjournal.it

166

per la prima volta da Edward Morgan Forster nel 1927167. Per essere considerato “piatto”, un personaggio deve essere facilmente riconoscibile e immutabile (presenta, quindi, le stesse caratteristiche di quello che Eco chiama “tipo”), mentre il personaggio tondo è sorprendente e poliedrico. Partendo da questo schema, Bernardelli inserisce, tra i due estremi classici costituiti dal protagonista/eroe e dall’antagonista/villain, il vasto spazio dell’antieroe, che rappresenta la perfetta sfumatura di grigio nella relazione manichea tra bianco e nero (tra luce e oscurità). Inoltre, essendo un “ibrido” che presenta caratteristiche eroiche così come lati oscuri168

, il suo ruolo all’interno della narrazione può variare di molto. Le caratteristiche peculiari di questa figura lo portano, nel corso del tempo, a migrare da una forma narrativa a un’altra, creando delle vere e proprie “anti-narrazioni”. Lo sono, in qualche modo, già i romanzi del primo Novecento (con il loro tentativo di far fronte alla complessità del presente attraverso nuove sfide letterarie), così come lo è il cinema della Nouvelle Vague e della New Hollywood (a cui si è già fatto cenno). Gli eroi tormentati vivono tra le pagine dei fumetti (a partire sempre dagli anni Sessanta, quando, nell’ambito della Marvel di Stan Lee e Jack Kirby, nascono i “super-eroi con super-problemi”) e approdano nell’animazione (attraverso la fortuna

167

A. Bernardelli, L’antieroe dai mille volti. La migrazione di un dispositivo narrativo dalla letteratura

alla serialità televisiva, Between, VI.12 (2016), http://www.betweenjournal.it, pp. 7-8

168 Bernardelli analizza le varie sfumature di antieroe nel dettaglio, stilando una vera e propria classifica.

del modello Pixar, che si distacca dalla struttura e dalle tematiche più classiche imposte precedentemente dalla Disney169) e nelle serie televisive. È interessante notare, in particolare, come, all’interno della serialità televisiva così come nel mondo dei comics, verso la metà degli anni Ottanta il modello antieroico inizia a imporsi in maniera sempre più consistente. Mentre all’interno del palinsesto televisivo si fanno strada trame più complesse, in grado di approfondire meglio le emozioni – anche quelle più negative – dei personaggi (in quella che viene chiamata Seconda

Golden Age della serialità televisiva), nella nona arte avviene una piccola

rivoluzione. In un mondo diviso in due blocchi e in cui le tensioni si fanno crescenti, un visionario autore inglese decide di anticipare di almeno un lustro la fine della guerra fredda in una serie a fumetti destinata a diventare uno dei massimi capolavori del genere.

In Watchmen, Alan Moore mette in discussione il concetto stesso di (super)eroe, mostrando un gruppo di vigilanti costretti a ritirarsi dalle scene a seguito di un decreto che li ha messi al bando. Si tratta di personaggi arrivati ormai a fine carriera, che si ritrovano a fare i conti con il proprio passato trascinandosi, come possono, nel presente. Queste figure mascherate finiscono, così, col rappresentare un modello che si distacca notevolmente da quello mitico e impeccabile imposto da Superman. Come

169 Per approfondire cfr. G. Cavazza, I cartoni animati e il lato negativo dell’eroe, in P. Braga, G.

osserva giustamente Aeon J. Skoble, infatti, “most of the costumed crime-

fighters in Watchmen seem to be psychologically unhealthy in one way or another”170. Ognuno dei vigilanti affronta i propri demoni (così come la comune minaccia di una catastrofe imminente) attraverso una peculiare visione del mondo, che rispecchia un preciso orientamento in campo morale. Una figura chiave per il discorso che si sta affrontando è quella di Ozymandias, un individuo che – ispirato dalla figura di Alessandro il Grande – ambisce a diventare la versione migliore di se stesso, sfruttando la propria intelligenza fuori dal comune e la sua tenacia. Queste caratteristiche lo portano a prevedere l’imminente apocalisse nucleare e a sviluppare un piano elaborato per fermarla. Il progetto viene attuato con successo e il mondo – apparentemente come avverrebbe in ogni storia di supereroi “classica” – viene salvato. Il prezzo da pagare, però, è salatissimo e implica l’eliminazione (su base casuale) di una ingente quantità di civili. Il focus dell’intera vicenda si sposta, a questo punto, sulle conseguenze di questa decisione (di cui Ozymandias rivendica ogni responsabilità) e sulle reazioni degli altri Watchmen rispetto ad essa. Il contrasto principale è quello che si viene a creare con Rorschach, che – al contrario del freddo e calcolatore Ozymandias, in grado di lasciarsi guidare dalla presunta utilità delle sue azioni per andare incontro al “bene superiore” – non è in grado di

170 A. J. Skoble, Superhero Revisionism in Watchmen and The Dark Knight Returns, in T. V. Morris, M.

Morris, W. Irwin, Superheroes and Philosophy: Truth, Justice, and the Socratic Way, Open Court Publishing, Chicago (Illinois) 2005, p. 36

discernere tra ciò che è “bianco” e ciò che è “nero” e si fa rappresentate di una morale integerrima171. Osserva J. Robert Loftis:

According to the standard comic book formula, Rorschach is the hero of the story and Ozymandias is the villain (though, of course, nothing is really that simple in Watchmen). Rorschach is the first person we see, and the plot is structured around his investigation of several murders. The audience uncovers the truth behind the murders as Rorschach does. Ozymandias, on the other hand, is behind the murders, and when he is found out, he reveals his elaborate plot involving the further death of millions. Ozymandias also has one of the key flaws that marks comic book villainy: he is a megalomaniac who wants to take over the world.172

Ozymandias, anche se in parte spinto all’azione dalla propria sete di gloria, è sinceramente convinto di aver compiuto la scelta più idonea e, anzi, di essersi comportato da eroe addossandosi l’imputabilità dell’evento perché, in sostanza, “qualcuno doveva pur farlo”. Nella sua inattaccabile convinzione di aver agito nel miglior modo possibile, sembrerebbe rievocare una delle caratteristiche di cui scrive Vogler quando presenta l’Ombra, ossia la forza che simboleggia il lato oscuro all’interno del “viaggio dell’eroe”:

171

Rorschach deve il suo nome alla scelta di coprirsi il volto con un tessuto che ricorda le famose macchie create dall’omonimo psichiatra svizzero, cosa che evidenzia ancora più il suo vivere per contrasto.

Cfr. A. Bramini, Alan Moore e il problema etico in Watchmen, Lo Spazio Bianco 20 Marzo 2013 (aggiornato il 28/04/2017) https://www.lospaziobianco.it/alan-moore-problema-etico-watchmen/

172 W. Irwin, M. D. White, Watchmen and Philosophy: A Rorschach Test, John Wiley & Sons, Hoboken

La maggior parte delle Ombre non pensa di essere un cattivo o un nemico. Dal suo punto di vista, un cattivo è l’Eroe del proprio mito e l’Eroe del pubblico il proprio avversario. Un tipo pericoloso di cattivo è il “giusto”, una persona talmente convinta che la sua causa sia buona che non si fermerà davanti a niente pur di realizzarla.173

Vogler, però, non si limita a descrivere questa figura archetipica come meramente “cattiva”, anzi, osserva lucidamente che:

Come gli altri archetipi, le Ombre possono esprimere aspetti positivi e negativi. Nella psiche di un individuo, l’Ombra può essere qualsiasi cosa soffocata o dimenticata. È un riparo per i sentimenti sani e spontanei che crediamo sia meglio non mostrare. Ma una sana rabbia o un sano dolore, se confinati nei territori dell’Ombra, possono trasformarsi in una forza dannosa che colpisce e indebolisce in modi imprevedibili. L’Ombra può anche essere una potenzialità mai esplorata, come affetto, creatività o talento, che resta inespressa. I treni che abbiamo perso, le opportunità della vita scartate al momento di fare una scelta, possono raccogliersi in questo archetipo e aspettare il momento opportuno per venire alla luce della coscienza.174

L’Ombra, quindi, è – a prescindere dal suo orientamento – una forza latente pronta a esplodere, rivelando possibilità nascoste nei personaggi e in chi li circonda. È un concetto che viene ampiamente sviluppato durante la Terza

Golden Age della serialità televisiva (quella che stiamo attualmente

vivendo), in cui l’antieroe diventa protagonista indiscusso e la storia, di conseguenza, viene raccontata dal suo punto di vista:

173 C. Vogler, Il viaggio dell’eroe – La struttura del mito ad uso di scrittori di narrativa e di cinema,

Dino Audino Editore, Roma 2010, p. 65

174

La mitologia contemporanea, più orientata a raccontare le realtà del presente invece che garantire facili rassicurazioni, sposta la propria attenzione su personaggi dalla psicologia complessa, che non dissimulano una certa difficoltà nel confrontarsi con la società che li circonda. In loro si nasconde una oscurità ancestrale che riemerge a causa di un evento che li ha coinvolti nel passato o che temono di dover affrontare. Sono eroi negativi che si guadagnano tale titolo per la loro volontaria (e inconscia) capacità di essere ciò che sono anche a rischio di andare contro la moralità condivisa.175

C’è una libertà profonda che si schiude nel momento in cui si abbraccia il proprio lato oscuro. Qualche volta per ritrovare se stessi è necessario prima perdersi, sprofondando nei meandri del proprio essere, assumendo un’ottica nuova e affrontando situazioni che mai si sarebbe immaginato di vivere. Certi personaggi che popolano la serialità contemporanea offrono un aiuto fondamentale in questo senso, consentendo al pubblico di aprire le porte lasciate chiuse nell’anticamera della propria mente.

Due delle serie più̀ seguite e amate degli ultimi anni (l’una nata nel 2008 e l’altra nel 2013), in particolare, sembrano mettere in evidenza la capacità delle narrazioni antieroiche di comunicare con gli spettatori ad un livello più profondo, mostrando il passaggio dalla luce all’oscurità in maniera innovativa e coinvolgente: Breaking Bad (di Vince Gilligan) e Orange is

the new black (di Jenji Kohan). La causa che scatena l’evoluzione interna

dei protagonisti è, rispettivamente, per Walter White la scoperta di avere un

175

V. Mallamaci, TV di serie – analisi delle pratiche e dei temi che hanno cambiato un medium, Viola Editrice, Roma 2018, p. 74

cancro maligno e per Piper Chapman l’improvvisa condanna a trascorrere quindici mesi in carcere per un errore commesso anni prima. Ambedue cercheranno di mantenere un ponte con la loro vita precedente (caratterizzata da un rigore morale perfettamente inquadrabile all’interno della vita medio-borghese), muovendosi lungo una sorta di “doppio binario”176

e mantenendo, perciò, una cesura netta tra il bene che muove le loro azioni e il male che sono costretti a compiere. Una doppia via di identificazione che tenderà ad evaporare man mano che i nodi saranno sciolti, dimostrando, in ultima istanza, che esistono infinite sfumature tra i due poli.

La trasformazione di Walter White diventerà̀ evidente nel corso della serie, al punto da vederlo raggiungere il ruolo di capo di un impero criminale del narcotraffico, ormai talmente lontano dal ricordo di quello che era da essere irriconoscibile. Il suo percorso può essere paragonato a un sasso lanciato in uno stagno che genera una catena di conseguenze inevitabili, a partire da un primo atto libero. Al protagonista il sasso cade sulla testa: è un tumore a scatenare in lui la voglia di cambiare, prima di tutto per mettersi in condizione di mantenere la propria famiglia. L’attenzione, come emerge chiaramente nelle prime puntate della serie, è sul corpo come veicolo per lo stare al mondo: nel momento in cui la salute

176

Cfr. A. Alfieri - S. Patriarca, Breaking Bad o del diventare se stessi, in Lo Sguardo, n. 16, 2014 (III), p. 106.

manca, viene trovato un modo per ripensarsi all’interno del proprio universo.

Pensandoci mi sembra di non aver mai fatto davvero di testa mia. Delle scelte intendo. È come se tutta la mia vita non avessi mai avuto il diritto di poter decidere quello che volevo fare. Adesso ho una nuova sfida: il cancro. E tutto ciò̀ che mi resta da fare è scegliere come affrontarla.177

Come sottolinea bene Alessandro Alfieri in una conversazione a tema

Popsophia, è proprio la scelta iniziale di distaccarsi da ciò che è lecito a

rendere Walter una persona autentica, ricca di innumerevoli sfaccettature. Qualcuno, in definitiva, la cui storia è interessante da seguire:

Se la vita non soddisfacente che faceva Walter White era legata al destino e sembrava condannata all’insignificanza, la trasformazione della sua vita implica il passaggio alla costruzione di un personaggio, di un character178.

La nuova identità ha un nome (Heisenberg), e le celebri battute “Say my

name” o “I am the one who knocks” (giusto per citare le più̀ significative)

non fanno che confermare l’ipotesi che in realtà Walter stia cercando di auto-affermarsi179. Il percorso che Walter White intraprende per “diventare se stesso” attraverso il disvelamento graduale della sua parte più oscura

177

Breaking Bad, 1x05: Materia grigia (diretto da Tricia Brock e scritto da Patty Lin, AMC 2008)

178 A. Alfieri - S. Patriarca, op. cit., p. 102

179

può essere sintetizzato nelle parole che, nella puntata finale della serie, rivolge alla moglie Skyler, attraverso cui ammette la reale motivazione dietro le sue azioni: “L'ho fatto per me. Mi piaceva farlo. Ed ero molto bravo. E... mi sono... sentito... mi sono sentito vivo”.180

Piper Chapman, protagonista di Orange is the new black, ci viene presentata con la vita e l’aspetto della classica ragazza appartenente alla

middle class: è giovane, bella e in procinto di sposarsi. La condanna da

scontare in carcere per una pena legata a un crimine commesso in gioventù la colpisce come un fulmine a ciel sereno. Nelle prime puntate, in effetti, Piper ci viene mostrata spesso in preda a crisi di pianto e vittima di bullismo da parte delle altre carcerate. Sembra una bambolina di porcellana in bilico nella vetrina di un rigattiere e, in effetti, man mano che la storia prosegue la sua patina da brava ragazza si incrina, portandola a rivelare – a poco a poco – la sua vera natura. Lo spettatore arriva, così, a capire che Piper Chapman, così come Walter White, si era sempre accontentata del proprio microcosmo di abitudini, rifiutando la possibilità̀ di un cambiamento e rinunciando a indagare sulla parte più nascosta di sé. È così

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