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I Villain nella pop culture - Narrazioni, anti-narrazioni e il fascino indiscreto del male

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Academic year: 2021

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Tesi di laurea

I villain nella cultura pop:

narrazioni, anti-narrazioni e il fascino indiscreto del male

Relatore Candidata

Prof. Alberto Mario Banti Gaia Barillà

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Indice

Introduzione ... 3

I. Una brutta giornata ... 5

II. Behind Blue Eyes ... 54

Conclusione We can be (anti)heroes, just for one day ... 100

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Introduzione

Ma sì, fatti vedere quando vuoi; non ho mai odiato i tuoi simili, di tutti gli spiriti che dicono di no, il Beffardo è quello che mi dà meno fastidio. L'agire dell'uomo si sgonfia fin troppo facilmente, egli presto si invaghisce del riposo assoluto. Perciò gli do volentieri un compagno che lo pungoli e che sia tenuto a fare la parte del diavolo.

(J.W. Goethe, Faust)

Cosa accomuna il dolce canto della principessa Elsa, la folle risata di Joker e lo sguardo concentrato di Dylan Dog? Cosa porta i produttori di t-shirt a stamparci sopra il minaccioso elmo di Darth Vader? Perché, cercando “Loki” su Google, i primi suggerimenti che compaiono sono “fan fiction” e “fan art”?

I personaggi più “oscuri”, dai veri e propri villain ai più complessi antieroi, hanno conquistato i cuori di miliardi di persone. Il male accompagna le narrazioni fin dai tempi più antichi. Il serpente della Genesi striscia attraverso lo spazio ed il tempo, strizzandoci l’occhio mentre prosegue il suo percorso.

Nel primo capitolo di questo lavoro viene affrontato il “problema” del male in una ottica che lo vede come necessaria controparte del bene, in grado di mettere in luce le fragilità dell’uomo e della società in cui vive, fungendo, in questo modo, da elemento pro-attivo che possa offrirci basi più salde su cui rifondare il nostro complesso di valori e, di conseguenza,

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quello del mondo che ci circonda. Le fonti sono filosofiche, ma spaziano nella letteratura (anche e soprattutto quella a fumetti) e nella cinematografia più recente.

Proprio con l’analisi di un film recentemente uscito in sala (Joker, di Todd Phillips) inizia il secondo capitolo, che si sofferma sul lato più “tecnico” di critica letteraria e analizza come diventa possibile, a livello di scrittura, favorire l’engagement tra spettatore e personaggio, anche quando si tratta di un soggetto “negativo”. Al contempo, viene messo in evidenza il carattere mitico di figure come quelle dell’eroe e del villain, che permette di riconoscere in loro degli archetipi utili sia a livello narrativo che di introspezione. La voce che qui viene tenuta presente è quella dei critici e degli studiosi che hanno dedicato alla questione una consistente mole di lavoro, a partire da Frye e Campbell, per poi passare al “nostro” Umberto Eco.

Nel trarre le conclusioni, viene proposta una riflessione sull’evoluzione – in parallelo – dei vari tipi di narrazione, osservando come gli elementi controculturali abbiano a poco a poco influenzato anche i mezzi più

mainstream, come la televisione o il fumetto popolare. Vengono riportati,

quindi, alcuni esempi mirati, accomunati tutti dalla presenza di figure antieroiche nel ruolo dei protagonisti. Per esaminare questa figura, che ha rappresentato un vero e proprio trionfo culturale nell’ultimo decennio, si è rivelato prezioso lo studio in merito portato avanti da Andrea Bernardelli.

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I.

Una brutta giornata

Dimmi una cosa amico mio... danzi mai col diavolo nel pallido plenilunio?

(Batman, 1989)

Nel 1988, negli Stati Uniti, viene dato alle stampe The Killing Joke. La storia, scritta da Alan Moore e illustrata da Brian Bolland, si ripropone di raccontare l’origine (o, almeno, una versione1) di quella che è, forse, la nemesi più famosa di Batman: il Joker. Nel farlo, pone l’accento su una questione antica quanto il pensiero: che cosa definisce i confini tra il bene e il male? Quanto c’è di innato nella nostra concezione della morale e quanto può essere definito un costrutto sociale? Nella storia il “Clown del crimine”, appena evaso dall’Arkham Asylum (il manicomio criminale di Gotham City), rapisce il Commissario Gordon e lo tortura. Lo fa con un preciso obiettivo in mente: mettere in evidenza l’ipocrisia e la fragilità del senso dell’ordine e della sanità mentale dell’“uomo medio”. Con una

1 Il Joker fa la sua prima apparizione nella primavera del 1940, sul primo numero di Batman. Da allora,

non esiste una versione definitiva delle sue origini e chi, negli anni, ha avuto modo di affrontare la questione ha sempre scelto di rispettare quest’aura di incertezza. Casi noti, in questo senso, sono quello di

The Killing Joke (in cui Alan Moore fa dire a Joker “Se proprio devo avere un passato, preferisco avere

scelta multipla Ah, ah, ah!”) e de Il cavaliere oscuro, secondo film della trilogia di Christopher Nolan dedicata a Batman, in cui ogni volta che Joker (Heat Ledger) racconta la storia di come si è procurato le cicatrici cambia versione. (Cfr. A. Moore, B. Bolland, Batman: The Killing Joke, Lion DC classics, 2017)

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lucidità che poco si confà alla natura del personaggio, infatti, nelle ultime, concitate, pagine della storia espone a Batman la sua teoria secondo cui chiunque, superata una certa soglia, sarebbe disposto a mettere in discussione i propri ideali e abbracciare l’idea dell’insensatezza del mondo:

Ho dimostrato che non c’è differenza tra me e gli altri. Basta un brutto giorno per ridurre l’uomo più equilibrato alla pazzia. Ecco quanto sono lontano, io, dal mondo normale. Solo un giorno. Anche tu hai avuto un brutto giorno una volta, vero? Lo leggo in te. É bastato un brutto giorno per cambiare la tua vita. […] Hai avuto un brutto giorno e ti ha fatto impazzire come sarebbe successo a chiunque altro… Solo che non vuoi ammetterlo! Devi continuare a far finta che la vita abbia un senso, che c’è una qualche buona ragione per tutto questo lottare. Dio! Mi fai venire il vomito. Dico, cosa è stato per te? Cos’è che ti spinge a essere quel che sei? […] Comunque quello che voglio dire è… Io sono diventato matto… Quando ho visto che razza di oscura, orrenda barzelletta era il mondo, sono diventato matto come una campana. Lo ammetto, io!2

Joker qui è effettivamente convinto di aver spinto il commissario Gordon a diventare un pazzo antisociale come lui. La verità, però, è un’altra. Infatti, quando Batman raggiunge Gordon per liberarlo, non solo lo trova perfettamente lucido, ma viene spronato da lui a catturare Joker secondo il protocollo, al fine di dimostrare che il loro “sistema” funziona.

Da un lato la legge, quindi, e dall’altro la rinuncia a qualsiasi tipo di morale o ricerca di senso.

2

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Non è un caso, in effetti, se The Killing Joke esce quasi in contemporanea ad opere destinate a riscrivere la storia del fumetto, come Watchmen (dello stesso Alan Moore) o Il ritorno del Cavaliere Oscuro (di Frank Miller), in cui il concetto stesso di eroe viene messo in discussione. Di norma, infatti, l’eroe dei fumetti americani è chiamato ad essere buono a dispetto di ogni situazione contingente e – cosa più importante – ad esserlo per sua scelta. La cosa viene sancita in qualche modo nel 1954, con la pubblicazione del

Comic Book Code3, in cui si stabilisce una volta per tutte che “In every

instance good shall triumph over evil and the criminal punished for his

misdeeds”4

. Alla base di questo concetto vi è una dicotomia: da una parte il bene e dall’altra parte il male, senza alcuna possibilità di mediazione. Un supereroe perseguirà sempre il primo e arriverà a salvare la situazione. Il cattivo farà di tutto per ostacolare il suo operato, ma alla fine verrà inevitabilmente sconfitto, perché, come ci è stato insegnato fin dalla più tenera età, il bene trionfa sempre sul male. Sembrerebbe un concetto

3 In seguito alla pubblicazione del libro Seduction of the Innocent dello psichiatra Fredric Wertham (che

contiene una critica feroce nei confronti dei fumetti gialli e horror e della nudità all’interno dei fumetti e - tra le altre - la proposta di proibire i fumetti ai ragazzi al di sotto dei 16 anni), nel 1954 nasce il Comics

Code Authority (CCA), l’organo di censura del fumetto statunitense. Il codice subirà delle modifiche,

rispettivamente nel 1971 e nel 1989. Nel 2011 la DC Comics e la Archie Comics, le ultime case editrici che ancora si servono del marchio di approvazione del CCA (Seal of Approval), vi rinunciano formalmente. In seguito a questa storica decisione, i diritti sul marchio vengono acquisiti dall’organizzazione no profit Comic Book Legal Defense Fund, la cui missione è la difesa del primo emendamento della costituzione statunitense (che sancisce, tra le altre, la libertà di parola e di stampa). (Cfr. Amy Kiste Nyberg, Comics Code History: The Seal of Approval, http://cbldf.org/comics-code-history-the-seal-of-approval/)

4

Il testo integrale della prima stesura del Comic Book Code è disponibile su “Good Shall Triumph over

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immediato, troppo. O, quantomeno, troppo distante dalla realtà dei fatti perché non sovvenga qualche dubbio.

La provocazione del Joker, dopotutto, non appare del tutto folle e infondata. E, in effetti, neanche troppo originale. Col suo solleticare le nostre superficiali certezze su quale sia il confine effettivo tra una vita retta e un’esistenza da criminale, Joker sembra riproporre l’esperimento mentale esposto nel secondo libro della Repubblica di Platone. In una discussione in cui Socrate sostiene che la giustizia sia un bene che si ama non soltanto per i vantaggi che reca, ma anche e soprattutto in quanto bene in sé, Glaucone interviene con l’intenzione di dimostrare che la giustizia non ha un valore in sé, ma dipende dall’aderenza alle leggi, al nomos, e avrebbe, quindi, una natura prettamente contrattualistica. La decisione di sottomettersi alle leggi al fine di abbandonare una condizione naturale che non permette una vita accettabile (in un apparente anticipo di motivi hobbesiani), porterebbe la giustizia a essere un bene intermedio, una sorta di “male minore", poiché la natura rimane a fondamento del bene più alto e sottomettersi al patto significherebbe rinunciare a perseguire liberamente questo superiore obiettivo per evitare il male maggiore. È a questo punto che Glaucone inizia a raccontare la storia di Gige, un semplice pastore che, imbattutosi un giorno in un cadavere “di proporzioni, a quanto pare, sovrumane, senza nulla addosso se non un aureo anello alla mano”, decide di depredarlo, per

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scoprire subito dopo che, grazie a quell’anello, ha acquisito il potere di diventare invisibile. Non è questa la sede giusta per commentare quanto questa storia abbia eventualmente ispirato J.R. Tolkien nella stesura della saga del Signore degli Anelli (per quanto sia senza dubbio interessante che, in quella che è a tutti gli effetti una delle più celebri trilogie della storia della letteratura così come nelle principali storie di supereroi, l’invito sia sempre a “resistere al potere dell’anello”5).

Quello che ci interessa evidenziare è che, secondo Glaucone, nessuno, messo davanti alla stessa situazione, esiterebbe a comportarsi come Gige, che userà il potere dell’anello per conquistare la moglie del principe di cui prima era alle dipendenze e, con lei, il potere. Seguendo questo ragionamento, la differenza tra chi appare ingiusto e chi appare giusto non esisterebbe proprio:

E questa, si potrà dire, è la prova decisiva che nessuno è giusto di proposito, ma in quanto vi è costretto: ciò perché nel suo intimo nessuno considera un bene la giustizia, ché anzi ciascuno, dove crede di poterlo fare, commette ingiustizia. Privatamente ogni uomo giudica assai più vantaggiosa l’ingiustizia che la giustizia.

(Platone, Repubblica, libro II 360d)

Come sottolinea lucidamente Alessandra Fussi, la storia di Gige “non riguarda la corruzione di un uomo autenticamente giusto, ma il

5 Cfr. J. Brenzel, Why Are Superheroes Good? Comics and the Ring of Gyges, in Thomas V. Morris, M.

Morris, W. Irwin, Superheroes and Philosophy: Truth, Justice, and the Socratic Way, Open Court Publishing, Chicago (Illinois) 2005, p. 156

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comportamento di qualcuno che agisce giustamente in presenza di testimoni e si volge all’ingiustizia in loro assenza”6

. Dopotutto, non è possibile neanche giustificare Gige sostenendo che sia stato corrotto dal potere dell’anello, perché è pur sempre una persona che sceglie deliberatamente di spogliare un cadavere dell’unico oggetto che stava indossando. Gige potrebbe essere chiunque e, infatti, è messo bene in evidenza dal racconto di Glaucone che i molti tendenzialmente ammirano di più il successo dell’ingiusto, anche se non meritato, piuttosto che la vita retta del giusto che, però, non ha ricevuto riconoscimenti.

Questo ragionamento – come si è accennato – va, necessariamente, in contrasto con il pensiero di Platone, che con la sua opera cerca di affrontare le conseguenze derivate dallo scandalo provocato dalla morte del suo maestro, Socrate. Un uomo (giusto) che sceglie di accogliere la sua (ingiusta) condanna nella ferma convinzione che “a un uomo buono non può capitare nessun male, né in vita né in morte”7, perché il perseguimento della giustizia è ciò che – implicitamente – conduce tutte le nostre azioni. È l’idea che muove Platone all’interno della Repubblica, portandolo a rispondere alle pesanti affermazioni di Glaucone dapprima definendo la giustizia della città-Stato come dipendente dal singolo contributo di ciascun individuo (368d) e, in seguito, paragonandola a quella dell’anima, dove si

6 Cfr. A. Fussi, Il discorso di Glaucone nel secondo libro della Repubblica di Platone, in S. Bacin (a cura

di), Etiche antiche, Etiche moderne: Temi di discussione, Il Mulino, Bologna 2010, p. 84

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compie nel momento in cui le emozioni sono “educate” e seguono la ragione invece degli istinti (443c). Giustizia, dunque, come capacità di autogovernarsi garante di felicità. Una concezione ripresa definitivamente anche nei passaggi conclusivi, che rendono evidente come la tensione verso la giustizia (o il Bene) sia un ideale da perseguire in assoluto, in grado offrire benefici capaci di superare persino la soglia della morte terrena8. Come viene puntualmente fatto presente da Jeff Brenzel9, questa soluzione, se applicata a chi vuole perseguire il Male (dunque ai villain), risulta poco convincente (o, quantomeno, imprecisa). Nella sua “psicologia” così come nella sua visione di un Bene eterno e ideale, Platone lascerebbe in qualche modo intendere che negli esseri umani il perseguimento della giustizia sia come un potenziale che non sempre riesce ad essere espresso, ma verso cui intrinsecamente si va incontro. Una volta chiarito che la conoscenza più alta a cui si può aspirare è quella del Bene e che tutte le altre conoscenze sono in qualche modo subordinate ad essa10, diventa piuttosto evidente che ogni divergenza da questo percorso ideale

8 La Repubblica si conclude con il mito di Er, in cui il protagonista (un soldato che ha perso la vita sul

campo di battaglia), ha la possibilità di osservare quello che avviene alle anime dopo la morte e di tornare in vita per raccontarlo. Dalla sua storia si evince che, mentre alcune anime vengono trasferite in cielo per mille anni, altre li trascorrono sottoterra, scontando pene dieci volte superiori alle colpe commesse in vita. Nel racconto viene data una grande enfasi al momento in cui alle anime, dopo questo giudizio preliminare, viene concessa la possibilità di scegliere la propria vita futura, secondo il principio per cui “La virtù non ha padroni: ognuno la possederà di più o di meno a seconda che l’abbia onorata o trascurata. La responsabilità è di chi fa la scelta; la divinità è innocente” (617 e). È interessante osservare, con Platone, che la maggior parte delle anime che hanno sofferto sottoterra sono in grado di fare scelte più giudiziose e ponderate rispetto a chi ha vissuto mille anni nel benessere. Dimostrazione che, per quanto la via del bene possa risultare tortuosa, una volta riconosciuto che cosa sia il male non si possa fare a meno di sfuggirvi.

9 Cfr. J. Brenzel, op. cit., p. 157

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avviene per pura ignoranza. Una volta conosciuto che cosa sia bene, dunque, non è possibile astenersi dal compierlo. Lo afferma Socrate in un celebre passo del Protagora, essenziale per definire i contorni della teoria nota come intellettualismo etico:

«Se allora», continuai, «il piacere è un bene, nessuno, sapendo o credendo che altre cose siano migliori di quelle che fa e possibili a realizzarsi, continua a fare queste, potendo far di meglio; quindi essere vinti da se stessi non è altro che ignoranza, né il vincere su se stessi altro che sapienza.» […] «Allora», dissi, «nessuno va volontariamente verso il male né verso ciò che ritiene tale, né sembra essere nella natura dell’uomo il desiderio di rivolgersi a ciò che si ritiene male invece di andare verso il bene; del resto, quando si è costretti a scegliere tra due mali, nessuno sceglie il maggiore, potendo optare per il minore».

(Platone, Protagora, 358b-d)

Il male, in fin dei conti, non porterebbe benefici neanche a chi lo compie, perciò chi sceglie di attuarlo lo fa in base a un banale errore di valutazione.

Questa tendenza platonica a far corrispondere al bene o alla giustizia una

qualche forma di armonia psicologica è stata criticata da alcuni commentatori moderni, che hanno osservato, da un lato, che le persone cattive appaiono spesso piuttosto soddisfatte del loro modo di essere almeno quanto i “giusti” sembrano tormentati e in preda all’angoscia e, dall’altro, che una cosa non esclude l’altra. È possibile mantenere i propri desideri e le proprie emozioni sotto stretto controllo razionale, senza che questo impedisca il perseguimento di cattivi propositi o che porti al

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compimento di buone azioni nei confronti degli altri.11 Una teoria di questo tipo, inoltre, non sembrerebbe porre troppo l’attenzione sul fascino che il male è in grado di suscitare.

Di quest’ultimo punto, nel corso dei secoli, si è occupata la letteratura più varia. Nel brevissimo racconto Il giocatore generoso (contenuto nella raccolta Lo spleen di Parigi), ad esempio, Charles Baudelaire immagina di essere invitato da Sua Altezza (il Re degli inferi) nella sua “incantevole dimora sotterranea”, dove – dopo una serie di partite – finisce per scommettere (e perdere) la propria anima “con una noncuranza e una leggerezza eroiche”. Il Diavolo, a quel punto, per fare in modo che di lui venga serbato un bel ricordo, gli promette di donargli la possibilità di vincere per tutta la vita “quella strana malattia che è la Noia, fonte di tutti i vostri mali e di tutti i vostri miserabili progressi”. Il poeta, che teme la noia più di ogni altra cosa, prega Dio che il diavolo mantenga davvero la sua parola12, un gesto che appare quasi ossimorico e che non fa che evidenziare i toni confusi presenti nel racconto.

Questa storia si inserisce perfettamente all’interno della poetica di

Baudelaire, autore che più di tutti ha messo in evidenza quanto il male possa risultare affascinante:

11 J. Brenzel, op. cit., p. 157

12 P. Giovetti, L’angelo Caduto. Lucifero e Il Problema Del Male. Gli «Ostacoli» Sulla via

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Ci sono in ogni uomo, in ogni ora, due propensioni simultanee, una verso Dio, l’altra verso Satana. L’invocazione di Dio, o spiritualità, è un desiderio di elevazione: quella di Satana, o animalità, è il piacere di abbassarsi.13

Nella storia il narratore decide di seguire lo sconosciuto spontaneamente, colpito dai suoi modi affabili (lontani, per certi versi, dallo stereotipo classico legato alla figura del diavolo) e si ritrova a bere e chiacchierare con lui, sentendosi a proprio agio come fossero “due vecchi amici”14

. Viene, inoltre, reso esplicito che la perdita della sua anima non lo turba più di tanto15. La devozione del narratore non viene messa mai davvero in discussione, ma è altrettanto chiaro quanto l’offerta del diavolo possa risultare invitante. Un elemento messo bene in evidenza da Sartre, che, analizzando la posizione morale di Baudelaire, osserva come il male non venga tanto presentato come un modo per condannare la vittima, quanto una occasione per mettere in discussione lo standard culturale secondo cui il bene – alla fine – debba prevalere.16 Non sempre i contorni in campo morale appaiono così definiti e, del resto, è questo che – in primis – genera confusione nel protagonista del racconto. Il tentativo di Baudelaire, in

13

Citato in G. Bataille, La letteratura e il male, Mondadori, Milano 1991, pp. 47-48

14 C. Baudelaire, Il giocatore generoso, in Lo Spleen di Parigi, trad. A. Berardinelli, Garzanti, Milano

1989, p. 137

15 “Il gioco, tuttavia, questo piacere sovrumano, aveva interrotto a più riprese le nostre frequenti libagioni,

e devo dire che, in una serie di partite, avevo scommesso e perduto la mia anima con una noncuranza e una leggerezza eroiche. L’anima è una cosa così impalpabile, così spesso inutile e qualche volta così imbarazzante che per questa perdita provavo meno emozione che se avessi smarrito, andandomene a passeggio, il mio biglietto da visita” (C. Baudelaire, op. cit., pp. 138-139)

16 J. Heit (a cura di), Vader, Voldemort and Other Villains: Essays on Evil in Popular Media, McFarland,

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questo senso, sarebbe quello di metterci una pulce nell’orecchio: e se, in fin dei conti, volessimo che fosse il male a trionfare?

Sempre a proposito dei contorni labili tra male e bene, Georges Bataille, all’interno della sua analisi, fa riferimento al modo in cui il primo possa arrivare a perseguire – paradossalmente – gli stessi risultati del secondo:

[…] Il Male, considerato autenticamente, non è soltanto il sogno del malvagio, ma è in un certo modo il sogno del Bene. La morte è la punizione cercata, accettata, di questo sogno privo di senso, ma nulla può impedire che questo sogno venga sognato.17

Nello specifico, qui il filosofo francese si riferisce al ruolo che svolge la trasgressione all’interno del romanzo Cime Tempestose di Emily Brontë e alla consapevolezza con cui i protagonisti scelgono di abbracciare il male, nonostante le tragiche conseguenze. Esiste un “impulso di divina ebrezza” contrario al bene, che fa inevitabilmente parte della natura umana e a cui noi – o, quantomeno, una parte di noi – aspira. Si tratta di una spinta opposta alla ragione e alla legge, un richiamo infantile per certi versi irresistibile e certamente necessario. Infatti, così come la vita necessita della morte per rinnovarsi, così anche il bene ha bisogno della sua controparte:

In questa coincidenza di caratteri, il Male non è più, come è dentro i limiti della ragione, il principio opposto in modo irrimediabile all’ordine naturale. Poiché la

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morte è la condizione della vita, il Male, che si connette nella sua essenza alla morte, è anche, in modo ambiguo, fondamento dell’essere. L’essere non è votato al Male, ma deve, se lo può, non lasciarsi chiudere nei limiti della ragione. Esso deve inizialmente accettare questi limiti, deve riconoscere la necessità del calcolo utilitario: ma, infine, deve sapere che una parte irriducibile, una parte sovrana, sfugge in lui a quella necessità del calcolo che egli riconosce.18

Nel descrivere l’estasi che deriva dalla trasgressione della legge (e la conseguente, rovinosa, caduta), la Brontë si sarebbe avvicinata alle tematiche care agli antichi tragici. Anche nelle tragedie greche, infatti, l’intenzione dell’autore non era quella di entrare in contrasto con la legge di cui si descrive la violazione, quanto quella di emozionare attraverso la propria simpatia nei confronti di chi quella legge l’ha violata. Si tratta di raccontare l’umano attraverso le sue debolezze e aspirazioni: un tratto che, anche e soprattutto nel momento in cui “l’espiazione è preventivata nella trasgressione”19

rende evidente l’esistenza, negli esseri umani, di un impulso primitivo che si oppone alla moralità comune. Forse la definizione migliore di tragedia l’ha data Aristotele, nel momento in cui – nella Poetica – la descrive come “mimesi di un’azione seria e compiuta in sé stessa la quale, mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l’animo da siffatte passioni”20

, identificando nella catarsi il risultato di questa partecipazione passionale diretta dello

18 G. Bataille, op. cit., pp. 28-29

19 G. Bataille, op. cit., p. 21

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spettatore rispetto a ciò che viene messo in scena. Riusciamo a empatizzare con i personaggi, anche quelli che compiono le azioni più terribili, perché ci riconosciamo in loro. Quell’impulso a compiere il male potrebbe, forse, essere il nostro se fossimo liberi dai vincoli sociali.

Alla luce di quanto detto, appare innegabile che il male occupa una posizione centrale nella nostra concezione culturale della narrazione e della moralità per la sua capacità di sottolineare una visione semplificata della nozione di bene all’interno del sistema in cui viviamo. Si tratta di un ruolo necessario e fondativo, previsto già all’interno del testo su cui si basa la concezione giudaico-cristiana del mondo, che questo stesso sistema l’ha ispirato. Nella Genesi, infatti, c’è un primo abbozzo del paradigma secondo cui il bene deve prevalere sul male, ma viene posto in modo tale da non poter fare a meno della presenza del male nel momento in cui si stabilisce il bene come linea guida delle nostre azioni.

Nel primo capitolo Dio crea il mondo e lo popola, stabilendo una gerarchia tra le creature a cui ha dato vita e considerando, infine, la sua opera assolutamente giusta (“Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona.”21

). Tuttavia, nel terzo capitolo, fa la sua apparizione la figura del serpente, “la più astuta di tutte le bestie selvatiche create dal Signore Dio”22

, che induce in tentazione Adamo ed Eva portandoli a cogliere e

21 Genesi 1, 31

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mangiare il frutto proibito dell’albero della Conoscenza (che, non a caso, è “conoscenza del bene e del male”, una prerogativa fino ad allora riservata a Dio stesso)23.

Come messo bene in evidenza dal teologo Vito Mancuso, una lunga tradizione tende ad associare la figura del serpente a quella del Diavolo. Una simile interpretazione, però, non farebbe che avvalorare la tesi secondo cui esisterebbe una separazione netta tra bene e male: “da un lato la creazione perfetta e la santità originaria, dall’altro il peccato originale che incrina tutto ciò”24

.

La questione appare insidiosa: il serpente spinge Adamo ed Eva a mangiare il frutto che Dio ha vietato loro di mangiare. È chiaro che il serpente ha una certa dose di responsabilità nella storia, ma la questione rimane irrisolta: come ha fatto il serpente a entrare nel giardino? Come può Dio, nel suo piano perfetto, non aver previsto e impedito la presenza del male?

Una risposta la dà Agostino, nel momento in cui – nel De Civitate Dei – introduce il concetto di libero arbitrio. La scelta di lasciarsi tentare, però, secondo la riflessione del filosofo di Ippona, sarebbe da imputare solo al primo uomo. Una colpa – e qui sta il fulcro dello storico scontro con i

23

“Uno dei nodi centrali nel racconto genesiaco sulle vicende dell’uomo primordiale riguarda il tabù imposto da Jahwe-Elohim ad Adamo con la minaccia di morte, e violato poi dai progenitori. Non si riferisce all’«albero della vita», ai cui frutti per comando divino (verbalmente espresso) è lecito accedere così come a quelli di tutti gli altri alberi circostanti, bensì all’«albero della conoscenza del bene del male», situato come quello della vita nel centro del giardino. Si tratta, come è stato notato, di un unicum nel panorama della letteratura religiosa, che attraverso i secoli ha creato non pochi problemi agli esegeti” (Luciano Cova. Peccato originale. Agostino e il Medioevo, Il Mulino, Bologna 2014, p. 30)

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pelagiani – che verrebbe trasmessa ai discendenti e che necessita della grazia divina per essere espiata:

Dio, autore delle nature ma assolutamente non dei vizi, ha creato retto l’uomo. Ma [l’uomo], pervertitosi per propria volontà e giustamente condannato, ha generato individui pervertiti e condannati. […] E perciò dal cattivo uso del libero arbitrio è sorta la catena di questa rovina attraverso le generazioni. Essa, dato che l’origine è corrotta come una radice guasta, attraverso una concatenazione di miserie conduce il genere umano sino alla perdizione della seconda morte che non ha fine, fatta eccezione solamente per quelli che vengono liberati dalla grazia di Dio.25

In realtà, se il collegamento immediato tra una figura che rappresenterebbe il Tentatore per eccellenza e Satana risulta senz’altro comprensibile, è pur sempre vero che il testo originale non rende mai esplicito questo parallelismo. Non vi è, infatti, alcuna corrispondenza nell’antica tradizione ebraica a cui si deve il racconto di Genesi 3. Probabilmente tale interpretazione è stata introdotta nel Nuovo Testamento, per poi diventare il presupposto di oltre duemila anni di pensiero cristiano. Lo conferma lo stesso Mancuso, citando – tra gli altri – gli studi di Claus Westermann, esperto esegeta del libro della Genesi, secondo cui: “c’è una forza che spinge gli uomini a disobbedire che agisce dall’interno e dall’esterno […] Il serpente non è altro che la raffigurazione narrativa di questa forza della

25

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seduzione”26. Quella forza, quell’impeto, sono parte integrante della natura umana. Sta a ciascuno decidere come reagire di fronte a quella provocazione e scegliere che cosa farne della propria “brutta giornata”. Un altro esempio biblico sta nel tredicesimo libro, in cui Giobbe, “uomo integro e retto” è vittima – suo malgrado - di una scommessa:

Il Signore disse a Satana: «Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto, teme Dio ed è alieno dal male». Satana rispose al Signore e disse: «Forse che Giobbe teme Dio per nulla? Non hai forse messo una siepe intorno a lui e alla sua casa e a tutto quanto è suo? Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani e il suo bestiame abbonda di terra. Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha e vedrai come ti benedirà in faccia!». Il Signore disse a Satana: «Ecco, quanto possiede è in tuo potere, ma non stender la mano su di lui».27

Quello che Satana (qui, a differenza di quanto avviene nella Genesi, rappresentato come un diavolo in grado di entrare in contatto direttamente con Dio) propone è di fare trascorrere a Giobbe quella “brutta giornata” di cui parlava il Joker, quella che evidenzierebbe in maniera inequivocabile quanto sia sottile la differenza tra compiere il bene e compiere il male. In questo caso, poi, non si tratta neanche di una questione di visibilità o di apparenza (come nel caso del racconto di Glaucone), ma di una insicurezza instillata nello status quo, una piccola crepa sul muro dell’esistenza di un uomo come tutti gli altri (e, anzi, particolarmente ligio al dovere) che

26 V. Mancuso, https://tinyurl.com/y2zd9p8a

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potrebbe espandersi irrimediabilmente facendo crollare il velo di apparenza che vuole l’umanità intrinsecamente buona (principio che si è in più occasioni scontrato con la realtà dei fatti) oppure fermarsi prima del disastro. La proposta provocatoria che indica la morale come una mera questione strumentale, quindi, si inserisce nella discussione a gamba tesa, proponendo una sorta di “prova del nove” delle credenze in campo morale. Giobbe, di fronte a questa prova, reagisce inizialmente rimanendo coerente con la sua natura di uomo pio. La punizione che il Signore gli ha fatto subire appare, di certo, immotivata, ma questo non basta a scuotere la sua fede. Privato dei propri beni materiali e dei propri figli, ammalatosi di una tremenda malattia, Giobbe rimane integerrimo, arrivando a respingere la moglie che gli consiglia di maledire Dio. È, però, quando i suoi amici (Elifat, Bildad e Zofar), parlando con lui, finiscono per concordare sul fatto che la sua sofferenza sia inevitabilmente legata a una qualche colpa di cui si sarebbe macchiato (anticipando, per certi versi, la teoria del peccato originale28) che cresce in lui un germe di ribellione. Alternando denunce dell’ingiustizia di quanto ha subito ad invocazioni che indicano la propria sottomissione alla volontà divina, Giobbe, attraverso un grande gesto di de-colpevolizzazione, si dichiara innocente e decide di appellarsi direttamente a Dio, chiamandolo a giudizio in quanto causa delle sue sofferenze:

28

Cfr. S. Brugnolo, dispense del corso “Cattivi, amorali, crudeli, perversi: la letteratura occidentale

(22)

Ma io all’Onnipotente vorrei parlare, A Dio vorrei fare rimostranze. […] allontana da me la tua mano e il tuo terrore più non mi spaventi; poi interrogami pure e io risponderò oppure parlerò e tu mi risponderai.

Quante sono le mie colpe e i miei peccati?

Fammi conoscere il mio misfatto e il mio peccato. Perché mi nascondi la tua faccia

e mi consideri come un nemico?

Vuoi spaventare una foglia dispersa dal vento e dar la caccia a una paglia secca?

Poiché scrivi contro di me sentenze amare e mi rinfacci i miei errori giovanili; tu metti i miei piedi in ceppi, spii tutti i miei passi

e ti segni le orme dai miei piedi. Intanto io mi disfò come legno tarlato o come un vestito corroso da tignola.29

Come evidenziato bene da Stefano Brugnolo30, questa storia è

particolarmente interessante perché rappresenta, forse, il primo caso in cui un individuo colpito da un “male superiore” di cui non vede la ragione si tiene fermo alla sua innocenza. Chiedendosi per quale motivo il suo percorso di vita venga improvvisamente lastricato di disgrazie, Giobbe pone a Dio la domanda del perché il male esista.

29 Giobbe 13, 3-28

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Dio, a questa domanda, risponde rivendicando il proprio primato di onnipotenza e onniscienza e ricordando quanto l’uomo appaia insignificante di fronte alla vastità dell’universo (un concetto che, per certi versi, entra in contrasto con l’immagine presentata all’inizio della Genesi, che vede l’uomo creato “a immagine e somiglianza di Dio”). Di fronte a certe dichiarazioni, Giobbe non può che ritirare la propria argomentazione, ma la sua protesta non viene resa vana dal suo Signore che, anzi, gli rende tutti gli onori possibili e riconosce che egli – a differenza dei suoi amici – ha parlato con fondamento. La “prova” viene, dunque, superata e l’ordine viene serenamente ristabilito.

Potrebbe apparire come un lieto fine, ma, di fatto, la domanda di Giobbe rimane senza risposta e continua a riecheggiare attraverso i secoli. Risuona nell’invocazione di Cristo sulla croce, che chiede al Padre perché l’abbia abbandonato. Stuzzica Baudelaire spingendolo a trasporre i suoi turbamenti su carta e invita Leopardi a interrogare la Natura. Si fa dubbio impellente in chi cerca di capire come sia possibile (ri)pensare Dio dopo Auschwitz. È una domanda scomoda, irrequieta e assordante, che si perde nell’immensità del cosmo pur pesando, tangibile e incontentabile, sulle nostre esistenze, incontenibile e inquieta come una risata isterica.

Proprio nella scena finale di The Killing Joke Joker racconta a Batman una delle sue barzellette, condividendo con lui una risata che si fa sempre più fragorosa man mano che ci si avvicina alla vignetta conclusiva. È un

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finale volutamente aperto. Le ultime inquadrature potrebbero raccontarci del tentativo da parte di Batman di porre fine alla vita del suo storico antagonista come della sua scelta di dargli una amichevole pacca sulla spalla. In ogni caso, però, viene rappresentato un momento di complicità che, anche se solo per un attimo, ci porta a interrogarci sulla natura stessa dei due personaggi. Sono poi così diversi, questo oscuro vigilante e questo gangster strampalato?

La questione è stata evidenziata in modo esemplare da Richard Reynolds nel suo Superheroes: a modern mythology:

What makes Batman so different from Superman is that his character is formed by confronting a world which refuses to make sense. His experiences might have taught him to be wholly cynical – yet he continues to risk life and limb in a one-man war against crime. Most of his arch-enemies speak in riddles ... all in their own way suggest qualities which, whilst evil or antisocial in their results, derive from a radical inability to function in the everyday world – in short, sketches of various types of madness. All Batman’s most effective scripters and artists have understood that madness is a part of Batman’s special identity.31

Va precisato, quindi, che Batman non è un eroe come tutti gli altri. Anzi, verrebbe da chiedersi se possa essere realmente considerato un eroe in senso stretto. È parte della sua stessa natura, infatti, il muoversi tra le ombre e l’essere egli stesso una figura cupa, complicata e tormentata, a un passo dal “lato oscuro”.

31

R. Reynolds, Superheroes: a modern mythology, University Press of Mississipi, Jackson (Mississipi) 1992, p. 67

(25)

Come viene spiegato da Mike Alsford32, se durante la guerra personaggi come Wonder Woman, Capitan America e Superman servivano come simboli iconici nella lotta contro il fascismo, in tempi in cui il male diventa meno individuabile e più radicato nel tessuto sociale interviene una nuova figura: quella del vigilante, un eroe che opera al di fuori della legge e senza l’appoggio governativo. Batman (che rientra perfettamente nella categoria) non nasce per essere un eroe, non piove sulla Terra da un pianeta lontano per perseguire questo scopo: la causa scatenante che lo porterà a combattere i criminali (la sua “brutta giornata”) è la morte dei suoi genitori, uccisi proprio da un criminale per le strade di Gotham, davanti ai suoi innocenti occhi di bambino. La giustizia che ricerca è prima di tutto una giustizia privata, al punto che “Più che con la giustizia, Batman ha a che fare con la vendetta”33

, una prerogativa che – peraltro – nella Bibbia è prettamente divina. Batman incarna, in un certo senso, la figura di un “angelo vendicatore” in grado di giudicare in maniera (più o meno) imparziale ciò che è giusto e di agire di conseguenza, mettendo in atto punizioni in base alle proprie valutazioni. È un eroe che “si fa da solo” e che da solo preferisce lavorare, possibilmente restando nell’ombra.

32 Cfr. M. Alsford, Heroes and Villains, Baylor University Press, Waco (Texas) 2006, p. 51

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È un lato che ha sempre fatto parte del personaggio e che viene sintetizzato in maniera impeccabile dalla definizione che Christopher Nolan mette in bocca al commissario Gordon nella scena finale di The Dark Knight:

Because… he’s the hero Gotham deserves… but not the one it needs right now. So we’ll hunt him, because he can take it. Because he’s no tour hero… he’s a silent guardian, a watchful protector… a dark knight.34

Un cavaliere oscuro che trae dal suo stesso dolore la forza per difendere Gotham City, dunque. Un personaggio con cui non si può fare a meno di empatizzare, perché, pur avendo caratteristiche che sfociano nello straordinario, rimane perfettamente umano in ogni suo aspetto. A differenza di eroi più “istituzionali” (il cui modello per eccellenza rimane Superman), Batman non possiede dei superpoteri e, soprattutto, appare continuamente tormentato dalla stessa “missione” a cui ha scelto di dedicare la propria vita. Se, quindi, da un lato, le sue abilità fisiche sono frutto di duro e continuo allenamento, dall’altro:

For all his abilities and grim detachment, Bruce Wayne’s alter ego is driven by very human emotions to be what he is and to do what he does. His heroic actions are not, primarily, the product of lofty ideals but issue out of passion and his own pain. Loss and anger are feelings that most of us can readily associate with. We know exactly how it feels to be hurt so much we want to lash out, to feel the sense of injustice at a personal loss so intensely that we would do almost anything to put it right. While ideologies and codes of conduct and philosophies

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and religions may often drive a wedge between us, our common emotional experiences often serve to bind us to each other.35

Come viene fatto presente in Kill Bill vol.2 di Quentin Tarantino, in un dialogo che si è guadagnato il suo degno posto all’interno della storia del cinema, Superman, quando non è “in servizio”, veste i panni di Clark Kent, professione giornalista, “un tipo apparentemente pauroso, timido, di mediocre intelligenza, un po’ goffo, miope, succube della matriarcale e vogliosissima collega Lois Lane che tuttavia lo disprezza”36

. Un uomo comune, quindi, e – anzi – particolarmente debole. Una doppia identità utile, secondo Umberto Eco, sia a mandare avanti la narrazione che a consentire una minima immedesimazione da parte dello spettatore. Si tratta, però, sempre e comunque di un alter-ego. Il fulcro del monologo tarantiniano, infatti, consiste nell’affermazione per cui è Clark Kent ad essere l’identità segreta di Superman, non certo viceversa37

. Al contrario, Bruce Wayne, quando si sveglia la mattina, non è altri che se stesso, mentre Batman è la maschera che sceglie di indossare per difendere la giustizia

35 M. Alsford, op. cit., p. 53

36

U. Eco, Apocalittici e integrati: comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, Bompiani, Milano 1964, p. 230

37 “[…] Ed è questa caratteristica che fa di Superman l'unico nel suo genere: Superman non diventa

Superman, Superman è nato Superman, quando Superman si sveglia al mattino è Superman, il suo alter-ego è Clark Kent. Quella tuta con la grande "S" rossa è la coperta che lo avvolgeva da bambino quando i Kent lo trovarono, sono quelli i suoi vestiti; quello che indossa come Kent, gli occhiali, l'abito da lavoro, quello è il suo costume, è il costume che Superman indossa per mimetizzarsi tra noi.” (Kill Bill vol.2, diretto da Q. Tarantino, Miramax, 2004)

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(dividendo inevitabilmente l’opinione pubblica a proposito del suo operato).

Questa differenza peculiare tra le due figure che dominano il panorama supereroistico mondiale emerge in maniera esplicita in Batman: The Dark

Knight di Frank Miller, in una scena in cui il Cavaliere Oscuro, invecchiato

e tornato in azione dopo una lunga “pensione”, si confronta con quello che un tempo era il suo alleato, incaricato dal Presidente in persona di fermarlo. Durante il loro (tesissimo) dialogo, Superman accusa Batman di non dare importanza a nulla “eccetto la sua guerra santa”, sottolineando il suo carattere di outsider, mai davvero disposto a rispondere a un principio che non sia la giustizia da lui stesso posta, che in più occasioni oltrepassa deliberatamente i codici convenzionali stabiliti dalla legge. La risposta dell’uomo-pipistrello, perentoria e potente, non fa che acuire il contrasto e renderlo indissolubile:

[…] and it has to end here on this filthy patch of street where my parents died. Still talking, keep talking Clark, you’ve always known just what to say. ‘Yes’, you always say yes to anyone with a badge or a flag. You sold us out, Clark. You gave them the power that should have been ours. Just like your parents taught you to. My parents taught me a different lesson lying on this street, shaking in shock, dying for no reason at all, they showed me that the world only makes sense when you force it to. We could have changed the world, now look at us: I’ve become a political liability and you ... you’re a joke.38

(29)

È curioso osservare come, man mano che la figura di Batman si allontana dai canoni classici del supereroe, inizia esponenzialmente (e pericolosamente) ad avvicinarsi alla sua controparte negativa. In fondo, è quello che viene fatto presente in The Killing Joke, una storia che si apre con un colloquio (o quello che appare come tale) in cui il Cavaliere Oscuro si propone di riflettere con la sua nemesi su quanto i loro destini siano intrecciati e si conclude con quest’ultimo che spiega in che modo questo sia possibile. Entrambi, ci viene fatto notare, hanno origini violente e sfruttano metodi di azione poco convenzionali (o, in ogni caso, non sempre necessariamente conformi alla legge). A entrambi, insomma, è davvero bastata (letteralmente) una brutta giornata per cambiare il corso della propria esistenza. La differenza tra i due, a questo punto, si riduce a una questione di segno: alla direzione (positiva o negativa) che scelgono di dare alle proprie azioni.

Con una bella intuizione, Ron Novy39 collega le identità di Batman e del Joker al concetto di “situated freedom”, teorizzato da Simone de Beauvoir. L’idea alla base è quella secondo cui la nostra capacità di agire e dare senso al mondo rimane sempre limitata dalla nostra esperienza vissuta di esso. Si tratta di una libertà estremamente legata alla nostra imperfezione. Da un lato, attraverso le nostre scelte siamo in grado di influenzare il mondo che

39 Cfr. R. Novy, What is it like to be a Batman?, in M.D. White, R. Arp (a cura di), Batman and

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ci circonda (dunque anche la più piccola delle nostre decisioni ha un peso non indifferente a livello morale), dall’altro esistono delle condizioni oggettive in cui ci “troviamo a vivere” e su cui non abbiamo alcun tipo di controllo. Per dirlo direttamente con le parole della filosofa francese:

Let us try to assume our fundamental ambiguity. It is in the knowledge of the genuine conditions of our life that we must draw our strength to live and our reason for acting.40

Il termine “acting”, in inglese, significa “agire”, ma anche “recitare”. In un’eco pirandelliana, possiamo sostenere che ciascuno di noi indossa delle maschere che gli rendono possibile l’inclusione nella società. Anche Batman e Joker recitano dei ruoli travestendosi: il primo vestendo i panni del pipistrello, celando deliberatamente una parte di volto alla vista e rimanendo nell’anonimato; il secondo ricoprendosi di cerone e cicatrici.41 Entrambe le loro maschere svelano e nascondono allo stesso tempo, rendendo i personaggi iconici ma senza far trasparire immediatamente la loro essenza. Anche il loro indossare dei veri e propri “costumi di scena”, del resto, non fa che ampliare questo gioco teatrale. E, mentre Joker ammette candidamente e in più sedi che nessuno dei due può esistere senza l’altro, Batman sembra continuare a rivendicare una identità autonoma,

40

S. de Beauvoir, The Ethics of Ambiguity, Bernard Frechtman, Citadel Press, Secaucus 1948. Cfr. R. Novy, op. cit., p. 172

41 Nel fumetto The Joker: Death of the Family (S. Snyder, G. Capullo, DC Comics, 2011) Joker porta

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ignorando deliberatamente che è la sua stessa presenza a rendere possibile quella del suo antagonista, a prescindere dalla relazione diretta con lui. C’è stato, in effetti, chi, come Michael Goodrum42, ha osservato come Batman e Joker (e il loro andare “oltre” le caratteristiche classiche che contraddistinguono i buoni e i cattivi) appaiano come quelli che Slavoj Žižek chiama “sintomi”. Nel riportare l’attribuzione dell’invenzione del sintomo a Marx, ad opera di Lacan, il filosofo sloveno sembra, in effetti, dirci molto sulla natura di questi personaggi:

La grande conquista di Marx fu dimostrare che tutti i fenomeni che appaiono alla comune coscienza borghese come semplici deviazioni, deformazioni e degenerazioni contingenti del «normale» funzionamento della società […], e in quanto tali eliminabili mediante il miglioramento del sistema, sono prodotti necessari del sistema stesso, sono i punti in cui erompe la «verità», l’immanente carattere antagonistico del sistema. «Identificarsi con un sintomo» significa riconoscere negli «eccessi», nelle interruzioni del corso «normale» delle cose, la chiave che ci offre l’accesso al suo vero funzionamento”.43

A riprova di quanto già scritto, gli elementi che appaiono “di disturbo” all’interno di un determinato sistema, spesso sono proprio quelli che ne garantiscono il funzionamento. Questo perché, lungi dall’essere qualcosa di estraneo, sono parti integranti di esso. Batman e Joker, nell’essere prodotti

42 M. Goodrum, “You complete me” – The Joker as a Symptom, in R.M. Peaslee, R. G. Weiner (a cura

di), The Joker: A Serious Study of the Clown Prince of Crime, University Press of Mississippi, Jackson (Mississipi) 2015

43 S. Žižek, L'oggetto sublime dell'ideologia, trad. Carlo Salzani, Ponte alle Grazie (Adriano Salani

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sovversivi del sistema, sono intrinsecamente collegati. Nel fronteggiarsi, sono sempre a un passo dal (con)fondersi l’uno con l’altro. Come davanti a uno specchio, i loro gesti corrispondono senza essere perfettamente identici, con una correlazione che rende difficile capire chi sia a guidare le azioni dell’altro. Come le due Valdrade di cui scrive Italo Calvino ne Le

città invisibili, vivono l’uno per l’altro, guardandosi negli occhi di

continuo, ma non si amano44. Entrambi indossano un costume: il nero pipistrello e lo sgargiante clown del crimine. Entrambi hanno una origin

story violenta: l’orfano tormentato e l’uomo che cambia versione in base

all’interlocutore. Entrambi hanno un proprio codice e una conseguente missione: il garante dell’ordine e della stabilità e il criminale che abbraccia il caos. Infine, entrambi, in quanto sintomi, sono parti integranti e necessarie del sistema a cui appartengono, mantenendo un rapporto di interdipendenza: lo yin e lo yang, la lama e lo scudo, il servo e il padrone (non a caso il punto di partenza per la riflessione di Marx è proprio il pensiero di Hegel). La loro stessa esistenza (che non può prescindere dall’esistenza dell’altro e ne è inevitabilmente influenzata) è insieme frutto della società e suo potenziale elemento di distruzione, in grado sovvertirne la stabilità evidenziandone la natura utopica.

44

“Lo specchio ora accresce il valore delle cose, ora lo nega. Non tutto quel che sembra valere sopra lo specchio resiste se specchiato. Le due città gemelle non sono uguali, perché nulla di ciò che esiste o avviene a Valdrada è simmetrico: a ogni viso e gesto rispondono dallo specchio un viso o gesto inverso punto per punto. Le due Valdrade vivono l’una per l’altra, guardandosi negli occhi di continuo, ma non si amano.” (I. Calvino, Le città invisibili, Mondadori, Milano 2002, p. 54)

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Nella scena iniziale di The Dark Knight (2008), mentre si discute se Batman sia o meno una minaccia per Gotham, alcuni cittadini indossano il suo costume e tentano di emularlo, cercando di sventare il piano dello Spaventapasseri. Sebbene il Batman originale non approvi questo comportamento (facendo capire, ancora una volta, di non voler condividere la sua missione con nessuno), quando, più avanti, Joker catturerà uno di loro dimostrerà in mondovisione che “This is how crazy Batman has made

Gotham”. Batman è, a tutti gli effetti, sintomo di un problema di gestione

della città e la sua storica nemesi ne è perfettamente consapevole. È qualcosa che, a un certo punto, viene messo in evidenza anche da Harvey Dent (il procuratore distrettuale di Gotham), che, proprio di fronte a Bruce Wayne, parla dell’operato di Batman in questi termini: “You either die a

hero or you live long enough to see yourself become the villain”. Una

figura come questa, per quanto necessaria in certe situazioni, è inevitabilmente anche sintomo di una crepa nella democrazia. Se si sente il bisogno di un vigilante mascherato (o di più vigilanti mascherati) è perché le istituzioni non bastano ad arginare questa falla.

The Dark Knight è il terzo film della trilogia che Christopher Nolan

dedica all’uomo-pipistrello, che si distingue per la scelta decisa di mantenere un tono e un’ambientazione verosimili. Già prima che le riprese della prima pellicola iniziassero, il regista aveva dichiarato (in una intervista a Variety) di voler rendere il mondo di Batman “una realtà

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contemporanea riconoscibile su cui insorge una figura eroica straordinaria”45

. Una decisione che si discosta completamente da quella dei suoi colleghi che lo avevano preceduto nell’affrontare questo tipo di lavoro sul personaggio. Infatti, se sia Tim Burton che Joel Schumacher hanno dato la loro personale impronta artistica al film (il primo dando vita ad una ambientazione cupa e grottesca, il secondo cercando di creare “un fumetto vivente”46), sacrificandone l’aspetto realistico, Nolan, scegliendo le strade di Chicago come location per la “sua” Gotham, ha voluto lanciare un segnale diverso. Secondo Michael Uslan (produttore esecutivo che, da quando ha acquisito i diritti sul personaggio, ha reso la sua missione portare Batman sullo schermo), Nolan “realized the way to make Batman

work again would be to make him real. The audience had to believe that

Bruce Wayne could be a real person in a real city in a real world”.47

Sicuramente questa caratterizzazione ha permesso alla trilogia di avere successo fin dal suo esordio, con Batman Begins (2005). La vera rivelazione, però, si ha con The Dark Knight e il motivo è soprattutto l’antagonista principale. Alfred Hitchcock, intervistato da Truffaut nel 1962, ammette che “the more successful the villain, the more successful the

45 M. Graser, C. Dunkley, The Bat and the Beautiful, Variety, 8 febbraio 2004

46 A.M. Wainer, Soul of the Dark Knight: Batman as Mythic Figure in Comics and Film, McFarland,

Jefferson (North Carolina) 2014, p. 132

47

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picture”48. Questo è vero soprattutto se il villain in questione è il Joker, che già per le sue caratteristiche è sempre stato tenuto in particolare considerazione da chi ha avuto modo di affrontare la storia di Batman. Questo vale fin dalla sua prima apparizione, come “semplice” gangster nel

Batman #1 del 1940. Il personaggio fu creato da Bob Kane, Bill Finger e

Jerry Robinson, anche se a quest’ultimo viene solitamente dato maggiore credito. Il design era ispirato chiaramente all’attore Conrad Veidt nel film horror muto L’uomo che ride (1928), ma si basa anche sulla coulrophobia, la fobia dei clown49. Pare che dovesse sparire dopo la sua prima entrata in scena, ma fu intuitivamente lasciato in vita alla fine dell’episodio. Da allora si sono susseguite varianti di Joker di tutti i tipi (del resto la natura del personaggio è, di per sé, estremamente versatile) e, comunque, ogni sua comparsa permette alla storia di assumere pieghe interessanti. È stato anche il primo cattivo a vedersi assegnare una testata mensile a lui interamente

48 F. Truffaut and H. G. Scott, Hitchcock, rev. ed., Simon and Schuster, New York 1984, p. 191

49

Dal greco antico composto da κωλοβαθριστής (“colui che cammina sui trampoli”) e da φόβος (“spavento”), la coulrofobia è la paura dei clown o di bambole e make-up che li ricordano. Nella cultura pop i clown sono spesso stati associati, non a caso, al genere horror. Mentre, nel 1978, il serial-killer John Wayne Gacy terrorizzava (e, occasionalmente, faceva a pezzi) gli abitanti di Chicago travestendosi da “Pogo il Clown”, nel 1986 ci pensa Stephen King a sconvolgere le menti dei suoi lettori, dando alle stampe It, un libro complesso che affronta il tema della paura facendone materializzare l’idea stessa (anche) nel corpo di un pagliaccio (che continua ancora ad essere associato al sorriso “aguzzo” di Tim Curry nella corrispettiva miniserie televisiva degli anni Novanta). King ha dichiarato in più occasioni di essersi ispirato, per questa sua rappresentazione, a Ronald McDonald, Topolino e Paperino, tutti personaggi inevitabilmente legati all’infanzia ma che celano sotto il colore il volto del più brutale capitalismo. È anche per questo che gli anni Ottanta (per certi versi i più rappresentativi dell’ossessione per il guadagno che si fa patinata) si concludono con il ghigno di Jack Nicholson in Batman, dove rappresenta un Joker che (al contrario di quello interpretato da Heat Ledger una ventina di anni dopo) è molto legato alla ricchezza e all’apparenza. Cfr. Sorcha Ní Fhlainn,‘Wait till they get a load of me!’ – The

Joker from Modern to Postmodern Villainous S/laughter, in Anna Fahraeus, Dikmen Yakalı-Çamoğlu (a

cura di), Villains and Villainy: Embodiments of Evil in Literature, Popular Culture and Media, Rodopi, Amsterdam - New York (NY) 2011

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dedicata (The Joker, primavera del 1975). Anche a livello editoriale, la DC Comics gli ha sempre garantito una attenzione particolare. Grant Morrison, sceneggiatore tra gli altri di Batman, rileva: “If Batman was cool, the Joker

was cooler. The pair shared the perfect symmetry of Jesus and the Devil,

Holmes and Moriarty, Tom and Jerry”50. Infatti, nelle numerose

trasposizioni che ci son state delle avventure di Batman, Joker è sempre stato interpretato da attori di un certo livello. La sua risata è risuonata in mille modi diversi, da quella sinceramente divertita di Cesar Romero (Batman, 1966-1968) a quella sarcastica di Jack Nicholson (Batman, 1989), da quella indimenticabile di Mark Hamill (Batman – The animated series, 1992-1995) a quella psicotica di Heat Ledger (The Dark Knight, 2008)51. Dan Hassoun52, in una analisi tecnica dei vari Joker cinematografici, fa notare come l’evoluzione del personaggio vada di pari passo coi tempi, rispecchiando perfettamente lo stile di recitazione e le scelte a livello registico di ogni epoca. Più si va avanti con gli anni, infatti, e più viene posto l’accento sul volto dell’attore. Se il primissimo Joker (ripreso spesso a figura intera) ha ampio spazio di manovra e può fare del suo gesticolare un originale segno distintivo, la performance di quello del 2008 si baserà

50 G. Morrison, Supergods: What Masked Vigilantes, Miraculous Mutants, and a Sun God from Smallville

Can Teach Us About Being Human, Spiegel & Grau, New York 2011, cap. 1

51

Per ulteriori informazioni sulla vita editoriale del personaggio cfr. R.M. Peaslee, R. G. Weiner,

Introduction, in R.M. Peaslee, R. G. Weiner (a cura di), op. cit., pp. XIV-XXX

52 Cfr. D. Hassoun, Shifting Makeups: The Joker as Performance Style from Romero to Ledger, in R.M.

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soprattutto sull’espressività (messa in evidenza da close-up ravvicinati fino a sacrificare dettagli del volto dell’attore in scena). Dal regista che sceglie un attore abituato a interpretare un certo tipo di soggetto all’attore che studia il personaggio e va incontro alle necessità del regista. Pare, ad esempio, che Heat Ledger, nel periodo in cui stava girando The Dark

Knight, fosse arrivato a tenere dei veri e propri “Joker Diaries” per entrare

meglio nella parte, tant’è che molti sospettano che questo suo attaccamento al personaggio gli abbia causato il forte stress e la conseguente prescrizione di psicofarmaci che lo porterà alla morte a pochi mesi dal lancio del film. Vista la natura del personaggio, non sorprende che quando, alla fine di

Batman Begins (successo di pubblico e critica nel 2005), comparve una

carta da gioco (segno distintivo del Joker), il pubblico impazzì. Tutto il mondo voleva conoscere chi avrebbe dato il volto a uno dei cattivi più apprezzati di sempre. Quando, nell’estate del 2006, i rumors sull’ingaggio di Ledger iniziarono a diffondersi, il pubblico si mostrò piuttosto scettico nei confronti del fatto che quel giovane dall’aspetto così “da bravo ragazzo” potesse essere davvero adatto al ruolo. Questo, come di seguito dimostrato, fu ampiamente sfatato dagli eventi che seguirono.

Nel 2007 la Warner Bros., in collaborazione con la 42 Entertainment, diede ufficialmente inizio alla promozione di The Dark Knight. Lo fece con una campagna dal nome evocativo (Why so serious?), il cui successo senza precedenti gli avrebbe ben presto garantito un posto nella storia della

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comunicazione. La carta apparsa alla fine di Batman Begins diede il fischio d’inizio: da lì in poi, gran parte della campagna sarebbe stata incentrata su Joker. Lo scopo principale che si voleva raggiungere era l’immersione totale in quel mondo, sfruttando la tecnica del transmedia storytelling. Henry Jenkins (studioso esperto di media e comunicazione) la definisce in questo modo:

La narrazione transmediale è l’arte della creazione di mondi. Per esperire pienamente ogni universo narrativo, i consumatori devono assumere il ruolo di cacciatori e di pazienti collezionisti, inseguendo frammenti di storia attraverso i vari canali mediatici, confrontando le loro osservazioni nei gruppi di discussione online e collaborando per assicurare che chiunque investa tempo e fatica sarà poi ripagato da un’esperienza di intrattenimento più intensa53

.

La campagna di marketing per The Dark Knight, seguendo la lezione di

Blair Witch Project e di Lost, riuscì ad andare incontro alle esigenze della

Warner Bros. di fatturare e contemporaneamente a quelle del pubblico che voleva essere maggiormente coinvolto (il tutto grazie agli strumenti offerti da quello che Henry Jenkins chiama “convergenza”54, che rendono possibile la formazione di una vera e propria “cultura partecipativa”55

).

53

H. Jenkins, Cultura convergente, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna 2007, p. XLIV

54 “Per “convergenza” intendo il flusso dei contenuti su più piattaforme, la cooperazione tra più̀ settori

dell’industria dei media e il migrare del pubblico alla ricerca continua di nuove esperienze di intrattenimento. “Convergenza” è una parola che tenta di descrivere i cambiamenti sociali, culturali, industriali e tecnologici portati da chi comunica e da ciò̀ che pensa di quello di cui parla.” (H. Jenkins, op.

cit., p. XXV)

55 “L’espressione “cultura partecipativa” contrasta con le vecchie nozioni di spettatore passivo. Anziché́

continuare a parlare dei produttori e consumatori come se occupassero ruoli diversi, oggi potremmo considerarli come interagenti, secondo dinamiche di azione che nessuno di noi ha ancora chiaramente

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Attraverso la creazione di siti web, l’organizzazione di eventi sul territorio e l’invio di foto da parte del pubblico venne incentivata esponenzialmente l’attesa nei confronti del film e, soprattutto, dell’antagonista. Quasi otto mesi di campagna di marketing furono incentrati su Joker, con tanto di messaggi audio a tema e banconote, poster e trailer “deturpati” dallo stesso Clown del crimine. Agli inizi di dicembre, in alcune città, vennero mostrati i primi trailer a un pubblico selezionato, che si ritrovò davanti una serie di primissimi piani di Ledger col trucco sciolto e la sua voce intenta a declamare le frasi che l’avrebbero, di lì a poco, reso iconico. Fu così che quando (il 22 gennaio del 2008) la campagna subì un brusco freno a seguito della sua morte, l’interesse del pubblico continuò comunque a crescere (almeno del 20 per cento, stando ai sondaggi). Nonostante, nel marzo di quello stesso anno, la campagna virasse il focus su Harvey Dent, la ragione principale per andare al cinema rimase comunque Joker. Il film, senza alcuna sorpresa, macinò record su record e a Ledger vennero consegnati (postumi) il Golden Globe e l’Oscar come migliore attore non protagonista56.

capito. Non tutti i partecipanti si equivalgono, le grandi aziende, e gli individui al loro interno, possono ancora esercitare un potere maggiore rispetto ai consumatori singoli o anche aggregati. E alcuni di questi ultimi hanno maggiori abilità nel partecipare a questa cultura emergente rispetto ad altri.” (H. Jenkins, op.

cit., p. XXVI)

56 Per ulteriori informazioni riguardo la campagna di marketing legata a The Dark Knight cfr. K.

Owczarski, “Why so serious?” - Warner Bros.’ Use of the Joker in Marketing The Dark Knight, in R.M. Peaslee, R. G. Weiner (a cura di), op. cit., pp. 146-161

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Che tipo di Joker ne viene fuori, dunque? Un Joker che, come ci si appresta ad argomentare, ha a cuore il mettere in evidenza i bug interni del sistema democratico e della morale comune e che, soprattutto, non ha alcuno scrupolo di dimostrarlo al mondo. Durante una discussione con Batman, che gli chiede (neanche troppo gentilmente) di dare conto alle azioni che ha compiuto, Joker espone il suo punto di vista, sottolineando ancora una volta quanto lui e Batman condividano il loro essere sostanzialmente dei “freak”:

Don't talk like one of them. You're not! Even if you'd like to be. To them, you're just a freak, like me! They need you right now, but when they don't, they'll cast you out, like a leper! You see, their morals, their code, it's a bad joke. Dropped at the first sign of trouble. They're only as good as the world allows them to be. I'll show you. When the chips are down, these... these civilized people, they'll eat each other. See, I'm not a monster. I'm just ahead of the curve.57

Alla teoria segue ben presto la pratica e, più avanti nel film, Joker propone un esperimento sociale, finalizzato a dimostrare che, in un mondo come quello attuale, categorie come bene e male sono puramente arbitrarie e, proprio per questo, incredibilmente precarie e prive di senso. L’esperimento consiste nel prendere in ostaggio su due traghetti una parte della popolazione di Gotham. In una delle due navi si trovano degli “sweet

and innocent civilians”, nell’altro si trovano gli “scumbags” della città,

provenienti direttamente dal penitenziario. Ciascuna nave ha la possibilità

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