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Ma la verità trapela nei nostri sogni; da soli nei nostri letti (perché siamo tutti soli di notte, anche se non dormiamo da soli), ci innalziamo, voliamo, fuggiamo. E in quei sogni ad occhi aperti che la nostra società ci permette, nei nostri miti, nelle nostre arti, nelle nostre canzoni, celebriamo i non appartenenti, i diversi, i fuorilegge, i pazzoidi. Ciò che non permettiamo a noi stessi, paghiamo fior di lire per guardare, al teatro o al cinema, o di leggere tra le copertine segrete di un libro. Il vagabondo, l’assassino, il ribelle, il ladro, il mutante, l’emarginato, il delinquente, il diavolo, il peccatore, il viaggiatore, il mafioso, il fuggitivo, la maschera: se non riconoscessimo in loro le nostre esigenze meno realizzate, non li reinventeremo volta dopo volta, in ogni posto, in ogni lingua, in ogni tempo.

(Salman Rushdie – La terra sotto i suoi piedi)

Dopo il loro successo con la rock opera Tommy, Pete Townshend e gli Who provarono a creare un nuovo concept album che fosse profondamente influenzato dalla spiritualità indiana e dalla fantascienza. L’idea alla base di Lifehouse, presente sia nel soggetto della rock opera che nel progetto più in generale, era quella di creare una musica che potesse riflettere la personalità del pubblico. L’idea, forse troppo rivoluzionaria per i tempi, non andò in porto, ma tracce di quell’esperienza permangono nei lavori successivi della band e di Townshend. Molti dei brani pensati e composti per Lifehouse vennero rilasciati in alcuni loro album successivi, come

Who’s Next (1971). Tra questi c’è Behind Blue Eyes, creata inizialmente

incomprensione provato da un cattivo (bad man) che non si sente tale, ma a cui il ruolo è stato in qualche modo imposto. Dietro parole dure, che si fanno portatrici di rabbia e rancore, si nasconde un forte desiderio di essere compresi.

A ben pensarci, non è poi così vero che “nobody knows what it’s like to

be the bad man”, anzi semmai è vero il contrario. Le sensazioni di sconfitta

e di incomunicabilità descritte all’interno del brano, infatti, colpiscono perché perfettamente umane. In questo senso, si potrebbe dire che Townshend sia riuscito a realizzare il suo intento di scrivere della musica che riuscisse a essere “vera” e rappresentativa della vita delle persone. Gli occhi azzurri (blue eyes) del titolo sono, in un certo senso, anche i nostri, pronti a riempirsi di lacrime di rabbia nel momento in cui ci sentiamo sconfitti.

Per un caso fortuito, sono chiari anche gli occhi di Joaquin Phoenix, che ha prestato il volto a Joker nel film omonimo che ha sbalordito pubblico e critica al 76° Festival del Cinema di Venezia (vincendo il Leone d’Oro) e, al contempo, ha prodotto allarme negli Stati Uniti, dove sono state aumentate le misure di sicurezza durante le proiezioni80. Il film racconta la

80 Una simile decisione non è soltanto dovuta alla presenza di scene fortemente violente e controverse

all’interno del film, ma ad una esplicita richiesta da parte delle famiglie delle vittime di quella che è rimasta tristemente nota come “la strage di Aurora”. Il 20 luglio 2012, durante la proiezione della prima de Il cavaliere oscuro – Il ritorno di Christopher Nolan nel Century 16 Movie Theater di Aurora (Colorado), James Holmes fece irruzione in sala e sparò contro il pubblico, provocando 12 morti e 70 feriti. L’uomo dichiarò di aver agito perché si era identificato nella figura del Joker (tanto da esclamare “I’m Joker! I’m Joker!” mentre terrorizzava la folla). Come conseguenza, a sette anni dalla sparatoria, si è scelto di non proiettare il film di Todd Phillips all’interno del multisala che fu teatro del massacro.

origin story (o – meglio – una delle possibili origin story) di quello che è a

tutti gli effetti uno dei villain più iconici della cultura pop, compiendo la scelta precisa di fare assumere allo spettatore il suo punto di vista. La telecamera, infatti, per oltre due ore di proiezione non si stacca quasi mai da Joaquin Phoenix, qui interprete di un uomo con evidenti problemi psichiatrici che lo portano a fare uso di farmaci e che – in passato – lo avevano fatto rinchiudere nell’ospedale di Arkham. Arthur Fleck (questo Joker ancora in potenza) è una persona che vive “fuori tempo” come la sua risata, che parte fuori da ogni possibile controllo nei momenti più inopportuni a causa di un disturbo. Questa condizione, unita alla solitudine e all’indigenza, lo porta a vivere in uno stato di perenne disagio esistenziale, in una Gotham sporca e degradata, dove vige il dualismo manicheo tra ricchi senza pietà e poveri senza speranza e ogni minimo spiraglio di luce sembra destinato ad oscurarsi. La vicenda si dipana a partire dall’ennesimo gesto di violenza gratuita subito dal protagonista, che lo porta a reagire altrettanto violentemente. Quello che sembra trasparire dalla scena è la precisa volontà di dipingere il gesto come una legittima difesa, svincolando il protagonista dalla responsabilità morale che una simile azione implicherebbe. L’impressione che in qualche modo si tratti di una consapevole presa di posizione rispetto al mondo, in qualche modo di rivalsa, si materializza solo in seguito, ma è già a partire da quella prima reazione che il pubblico è portato ad empatizzare e – segretamente – a

parteggiare per lui, per poi non smettere più, neanche quando la violenza viene resa sempre più evidente e brutale. Quello che guiderà le azioni di Arthur Fleck all'interno del film sembra sempre essere inquadrato nell’ottica di una sorta di ricerca di vendetta da parte di qualcuno che non ha “solo” subito una brutta giornata, ma la cui brutta giornata è iniziata già prima della propria nascita senza mai concludersi. Come avviene nel testo della canzone degli Who, Todd Phillips concede al cattivo la possibilità di parlarci delle emozioni che prova, mettendo in discussione la nostra iniziale presa di posizione rispetto a quello che è a tutti gli effetti un super criminale mostrandoci il suo lato più fragile:

No one knows what it's like To be the bad man

To be the sad man Behind blue eyes

Arthur Fleck è fin dall’inizio incompreso. Ci viene mostrato in una condizione disperata, di evidente depressione. Ad un certo punto gli vengono negate persino le medicine, mentre già dall’inizio del film dichiara di avere solo pensieri negativi e sembra avere anche dei forti istinti suicidi.

No one knows what it's like

To be hated

Viene bullizzato da chiunque, dai ragazzini nella scena iniziale (che gli

rubano il cartello facendolo

richiamare a lavoro) ai colleghi (che non lo ascoltano e, anzi, tentano di incastrarlo e fargli perdere credibilità di fronte al loro capo), fino alla madre (che si scopre aver permesso abusi su di lui quando era bambino, causandogli probabilmente una serie di traumi che lo hanno reso così

To be fated

To telling only lies

fragile e problematico).

È costretto a raccontare bugie a se stesso, a crearsi una realtà alternativa

per non impazzire di dolore,

rischiando di aggravare una

situazione in cui la follia è già in circolo.

But my dreams They aren't as empty

As my conscience seems to be

Quello che a tutti gli effetti appare come un villain senza coscienza o rimorso per le sue azioni, in realtà

nasce come una persona

estremamente sensibile, che sogna di far sorridere il mondo diventando un comico81 come il suo idolo Murray Franklin (conduttore di un late show molto seguito a Gotham).

81 Un altro elemento interessante del personaggio di Arthur Fleck è che vuole fare il comico. Molto

diffusa in America, la stand-up comedy prende il suo nome dal fatto che chi si esibisce con un monologo tende a stare in piedi. Spesso si tratta di esibizioni che toccano argomenti molto delicati (come la sessualità o la violenza) e che, rifacendosi a una lunga tradizione di black humour, risultano divertenti perché riescono a dare sfogo a pulsioni libidiche o aggressive spesso represse nell’individuo.

A questa conclusione arriva Freud, che affronta la questione nei suoi saggi Il motto di spirito e la sua

relazione con l'inconscio (1905) e L’umorismo (1927). L’umorismo in generale viene da lui descritto

come un meccanismo di difesa che – eludendo la censura del Super-Io – ci permette di rapportarci con la nostra sofferenza: “L'umorismo ha non solo un che di liberatorio, come il motto di spirito e la comicità, ma anche un che di grandioso e nobilitante: e questi tratti non sono rintracciabili negli altri due modi testé citati di conseguire piacere mediante l'attività intellettuale. La grandiosità risiede evidentemente nel trionfo del narcisismo, nell'affermazione vittoriosa dell'invulnerabilità dell'Io. L'Io rifiuta di lasciarsi affliggere dalle ragioni della realtà, di lasciarsi costringere alla sofferenza, insiste nel pretendere che i traumi del mondo esterno non possono intaccarlo, dimostra anzi che questi traumi non sono altro per lui che occasioni per ottener piacere. […] L'umorismo non è rassegnato, anzi esprime un sentimento di sfida, e costituisce non solo il trionfo dell'Io ma anche quello del principio di piacere, che riesce in questo caso ad affermarsi a dispetto delle reali avversità. Attraverso questi due tratti, il ripudio delle ragioni della realtà e l'affermazione vittoriosa del principio di piacere, l'umorismo si avvicina ai processi regressivi o reazionari di cui ci occupiamo su vasta scala in psicopatologia. Respingendo la possibilità di soffrire, l'umorismo s'inserisce nella grande schiera dei metodi costruiti dalla psiche umana per sottrarsi alla costrizione della sofferenza.” (S. Freud, L’umorismo, in Opere di Sigmund Freud, Vol. X, Bollati- Boringhieri, Torino 1985, pp. 504-505)

L’umorismo (quello nero in particolare, definito da Freud come gallows humour) sembra svolgere per l’individuo lo stesso ruolo del villain all’interno delle narrazioni, data la sua natura “ribelle” e “liberatoria”.

Per approfondire l’argomento, cfr. S. Brugnolo, La tradizione dell'umorismo nero, Bulzoni, Roma 1994 e S. Brugnolo, Il libro sul motto di spirito di Freud e la sua relazione con la teoria letteraria, in (a cura di) P. Barrotta, A. L. Lepschy, E. Bond, Freud and Italian Culture, Peter Lang, Berna (Svizzera) 2009, pp.127-144)

I have hours, only lonely

My love is vengeance That's never free

Per tutto il film Arthur è solo. Non trova conforto in nessuno che appartenga al suo quotidiano o che

non sia frutto della sua

immaginazione.

Ha forti pulsioni di vendetta, ma non le libera mai finché non viene assalito sulla metro.

No one knows what it's like To feel these feelings

Like I do

And I blame you

Sente di non essere capito da nessuno e incolpa la società per questo.

No one bites back as hard On their anger

None of my pain and woe Can show through

Nel film, Arthur sembra compiere tutti gli sforzi del caso per resistere e non lasciare andare la propria rabbia nei confronti del mondo in cui vive. La sua tristezza non può mai mostrarsi davvero, soprattutto da quando, nel momento in cui vengono tagliati i fondi per l’assistenza sociale di cui usufruiva, perde anche l’ultima occasione per sfogarsi e provare a sentirsi più felice.

But my dreams They aren't as empty

As my conscience seems to be I have hours, only lonely My love is vengeance That's never free

When my fist clenches, crack it open

Before I use it and lose my cool

La sua è una preghiera perché qualcuno riesca a calmare la sua rabbia e funga da balsamo per il suo dolore. Vorrebbe che qualcuno gli impedisse di perdere la calma.

When I smile, tell me some bad news

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