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Gli studi antiquari nel Regno di Napoli durante il XVIII secolo

2. Antiquaria militante

2.1. Il filone ‘etruschista’

Tanucci era toscano, Bayardi parmense, ma come il primo socio dell’Accademia Etrusca di Cortona; tra i fondatori di quest’accademia figuravano Filippo e Marcello Venuti, passato alla storia per la scoperta di Ercolano; Domenico Venuti, figlio di Marcello, raccolse negli anni Ottanta del secolo le precedenti esperienze antiquarie e divenne soprintendente generale agli scavi del Regno al momento della prima istituzione di tale ufficio. Nei punti nevralgici dell’antiquaria napoletana del XVIII secolo era presente direttamente o indirettamente l’elemento toscano, particolarmente quello che risaliva all’esperienza maturata presso l’Etrusca di Cortona o la Società Colombaria di Firenze.

Il progetto antiquario elaborato al tempo di Tanucci si configurava come un sistema integrale, articolato sulle opere di scavo, sulle attività di ricerca e di pubblicazione, sulla conservazione dei reperti e sulla codifica di una legislazione di tutela52. Parallelamente all’ufficialità del progetto vesuviano circolavano altre istanze, che anche si rifacevano all’esperienza toscana e riconoscevano quali punti di riferimento l’opera di Filippo Buonarroti e il modello di antiquaria che ne derivava53. A svolgere il ruolo di mediatore tra l’esperienza toscana e la cultura napoletana fu il fiorentino Anton Francesco Gori, allievo dello stesso Buonarroti. Il genere di antiquaria elaborato nelle accademie toscane e già prima realizzato nel De Etruria regali54 aveva

52 Cfr. A.CASTORINA F.ZEVI, Antiquaria napoletana e cultura toscana nel Settecento, in

Il Vesuvio e le città vesuviane 1730-1860: in ricordo di Georges Vallet, Napoli 1998, pp. 116- 120, dove si offre un definito quadro delle progressive fasi assunte dal progetto tanucciano: a un primo periodo, in cui si assiste a un impiego ornamentale dei reperti di scavo e a una sostanziale assenza di progettualità, fece seguito una più consapevole finalità di promozione culturale; dal punto di vista delle tecniche di scavo, un maggior affinamento di metodo si sarebbe ottenuto soltanto nel passaggio da Ercolano a Pompei; sul progresso di una normativa di tutela cfr. P. D’ALCONZO, L’anello del re. Tutela del patrimonio storico-artistico nel Regno di Napoli (1734-1824), Firenze 1999.

53 Ivi, pp. 120 ss.

54 I sette libri manoscritti del De Etruria regali furono redatti da Thomas Dempster a Pisa

tra il 1616 e il 1619 e poi acquistati da Thomas Coke; furono pubblicati tra il 1723 e il 1726 grazie al decisivo ammodernamento operato da un’équipe retta da Filippo Buonarroti; un’efficace storia editoriale dello scritto si trova in S.NAPOLITANO, L’antiquaria napoletana

tra Napoli e Firenze. Felice Maria Mastrilli e Gianstefano Remondini, Firenze 2005, pp. 17-19, ma l’opera principale, anche in relazione alle più generiche questioni aperte dall’antiquaria to-

stimolato, data la natura prevalentemente preletteraria della civiltà etrusca, l’attenzione da riservarsi alle testimonianze materiali e allo studio dei reperti prettamente archeologici, andando oltre la tradizionale esclusività assegnata alla fonte letteraria e a quelle numismatiche ed epigrafiche; la ricerca, dunque, si indirizzò verso la raccolta della totalità delle testimonianze antiche e l’analisi particolareggiata di funzioni e tipologie dei reperti. L’impatto di questo modello sull’Italia meridionale fu decisivo, contribuendo a sganciare le storie municipali dalla precedente tradizione storiografica55.

Anton Francesco Gori cominciò su sollecitazione del maestro a interessarsi sistematicamente delle antichità etrusche e, in particolare, del vasellame figurato; attorno agli anni Trenta attivò, in tal senso, una fitta rete epistolare che andava ben oltre i confini del Granducato, spingendosi fino al Regno di Napoli56. Anche attraverso autorevoli intermediari giungevano al Gori notizie e disegni di vasi ‘etruschi’ provenienti da collezioni napoletane, mentre egli era impegnato nella redazione del Museum Florentinum e del Museum Etruscum: Napoli, infatti, insieme a Roma era divenuta la piazza più attiva del mercato collezionistico italiano57.

Sono documentati i contatti tra Gori e Marcello Venuti, che, giunto a Napoli al seguito di Carlo, si rese protagonista nel 1738 della celebre scoperta dell’anfiteatro ercolanese. Nello stesso anno scrisse al corrispondente fiorentino sulla consistenza in vasi etruschi della locale collezione Porcinari, aggiungendo:

«Circa i vasi etruschi, avendone il Re alcuni bellissimi, esso mi ha comandato che io ne faccia un libro; io replicai che V.S. ill.ma ne ha già fatto un tomo, ed egli rispose: – e bene? Voi ne farete un altro. Ella vede dunque, che avrò molto bisogno della sua assistenza, e mi sarà gloria grande se potrò sperare di seguitare la sua opera con un tometto a parte»58.

scana, rimane ancora M. CRISTOFANI, La scoperta degli etruschi. Archeologia e antiquaria nel

’700, Roma 1983.

55 Gori tentò di «promuovere in Napoli le “favolose antichità” della storiografia municipale

a oggetti accreditati della cultura europea», figurando «tra gli organizzatori più influenti dell’Etruscheria nel Regno meridionale», come si legge in G. GIARRIZZO, Vico. La politica e la

storia, Napoli 1981.

56 Sui contatti tra Gori e i possessori napoletani di collezioni di antichità cfr. N APOLITANO,

L’antiquaria napoletana, cit., pp. 40-44.

57 Ivi, p. 43.

58 M. Venuti al Gori, Napoli, 27 gennaio 1738, Biblioteca Marucelliana di Firenze, ms. A

Il brano testimonia di un interesse già vivo a Napoli e a corte per la ceramica figurata, come del fatto che Gori e il suo Museum Etruscum rappresentassero ormai un riferimento in tale materia. Venuti, anch’egli allievo del Buonarroti, si trovò fatalmente legato alle politiche di corte; tentò inizialmente di mantenere informato l’ambiente fiorentino – soprattutto i Colombini – delle scoperte fatte a Ercolano, ma le indiscrezioni che apparvero nel 1740 sulle «Novelle letterarie» di Firenze lo portarono a mantenere un progressivo riserbo, mentre era impedita ogni forma di divulgazione non autorizzata59. Inserita pienamente nelle maglie di un’antiquaria ufficiale, l’opera del Venuti assunse direzioni perfino opposte al libero modello divulgativo messo in piedi da Gori. Mentre l’antiquaria di corte per più versi concentrava i suoi sforzi sul tesoro rappresentato da Ercolano, altrove si preparava un’estesa compagine di antiquari che investigava le antichità nelle sparse province del Regno. Sarebbe errato, tuttavia, contrapporre frontalmente questo filone non ufficiale di studi al programma antiquario eretto dal Tanucci: entrambi, infatti, risalivano all’esemplarità dell’esperienza toscana, condividendo analoghi indirizzi di indagine60. Rimane che esisteva un’antiquaria «lontano da Ercolano»61, inizialmente trascurata dall’entourage di corte e particolarmente centrata nell’investigazione di sepolcri e necropoli e, attraverso questi, della ceramica dipinta.

59 Ivi, pp. 46-47: l’articolo apparso in «Novelle letterarie pubblicate in Firenze», 1 (1740),

3, col. 42, testimonia di un precoce progetto di «Sua Maestà il Re delle due Sicilie, a far dise- gnar tutto con somma diligenza, per darsi poi alla luce colle stampe»; riferisce, inoltre, della scoperta di un «muro tutto dipinto da un eccellente Maestro antico», rappresentante «Teseo col Minotauro morto ai piedi», della possibile identificazione del tempio di Ercole, con la relativa scoperta di una statua bronzea della divinità, «con tutti gl’instrumenti soliti adoperarsi dagli An- tichi ne i sagrifizi» e di «una lapida quadrata», i cui caratteri indecifrabili erano ovviamente ipo- tizzati etruschi o sannitici. La notizia dovette giungere al Gori, che la trasmise alle «Novelle» per tramite di un’epistola indirizzatagli il 31 novembre 1739 da Ridolfino Venuti, il quale otte- neva aggiornamenti dal fratello (in A.F. GORI, Notizie del memorabile scoprimento dell’antica

città di Ercolano […], Firenze 1748, pp. 12-13). In realtà, Marcello Venuti aveva cominciato già da prima a mandar fuori notizie su Ercolano, a partire dalla celebre missiva del 17 gennaio 1738 (ivi, pp. 3-5), dove si descrive la scoperta dell’anfiteatro, insieme alle altre informazioni che giunsero al Gori direttamente o per tramite del fratello Ridolfino (ivi, pp. 5-15); in tutti que- sti casi le comunicazioni sembrano principalmente finalizzate a tenere informati i membri della Società Colombaria.

60 Ampliando la questione sembra leggersi, tuttavia, l’idea di «tensioni latenti tra la sfera

ufficiale dell’erudizione e quella critica del ‘dissenso’» in P. VIVENZIO, S. Napolitano (a cura

di), Sepolcri nolani, Napoli 2011, p. IX.

Il problema rappresentato dai vasi figurati e dalla loro origine si prestava a spiegare le dinamiche del popolamento delle regioni italiche, finora discusse entro i soli termini dell’esegesi dei passi di Strabone e delle altre fonti antiche62. La storia degli scavi finalizzati all’estrazione del vasellame antico – i cui centri principali erano Capua, Nola, Sant’Agata de’ Goti e la Puglia – è anteriore, come si è osservato, all’influenza esercitata dal Gori: sebbene centrale, questi operò entro un contesto certamente già attivo, alle prese con la scoperta e lo scavo dei diffusissimi sepolcreti di cui rimaneva traccia 63. Una lettera di Francesco Maria Pratilli attesta nel 1728 la spedizione di vasi figurati richiesti da Matteo Egizio e rinvenuti a Capua; allo stesso destinatario era inviato, forse nel 1729, un altro lotto di vasi, ritrovati da Filone Rainone, erudito di Sant’Agata de’ Goti64. Interessante la notizia fornita da Natale Maria Cimaglia, che nel 1785 riferisce della scoperta presso Nola di antichi vasi ‘etruschi’, prima che nel 1740 venisse inaugurato il museo del Seminario nolano65.

La figura di sir William Hamilton, ambasciatore inglese presso la corte napoletana, è essenziale per comprendere l’emersione, verso la metà del secolo, di un fenomeno sostanzialmente sotterraneo. Egli introdusse di fatto il vaso figurato nel circuito del grande collezionismo europeo: ciò implicò un più vasto interesse per questo genere di anticaglie, mentre si incontrava facilmente il gusto di un’estetica che privilegiava la pittura alla scultura ed esaltava un certo primitivismo delle forme66. Ferdinando IV estese alle ceramiche figurate le sue collezioni museali, mentre ne veniva conclamata l’origine greca; in modo significativo, l’assunzione a corte e ai livelli di una politica museale dell’interesse per i vasi antichi era potuta avvenire pienamente solo quando se ne riconobbe l’appartenenza alla sfera del classico. Le precedenti ricerche antiquarie, svolte da umili schiere di eruditi di ogni sorta e provenienza, vennero di fatto deprivate della carica etrusco-italica di cui si alimentarono67.

62 Ibid.

63 Sulla formazione di autoctone pratiche relative a rinvenimenti vascolari cfr. A. CASTO-

RINA, «Copia grande di antichi sepolcri». Sugli scavi delle necropoli in Italia meridionale tra

Settecento e inizio Ottocento, in «Rivista dell’Istituto nazionale d’archeologia e storia dell’arte». XIX-XX (1996-1997), pp. 310-315; cfr. anche N APOLITANO, L’antiquaria napoleta- na, cit., pp. 25-33, relativamente ai secoli XVI-XVII e fino alla figura di Giuseppe Valletta.

64 Su queste epistole cfr. CASTORINA, «Copia grande di antichi sepolcri», cit., pp. 311-

312, dove si segnalano anche i disegni eseguiti da Pier Leone Ghezzi di un’anfora e di uno skyphos, ritrovati a Capua nel 1725.

65 Ivi, pp. 312-313; il documento è pubblicato in N APOLITANO, L’antiquaria napoletana,

cit., pp. 164-166.

66 Cfr. CASTORINA ZEVI, Antiquaria napoletana, cit., pp. 125-126. 67 Ibid.

Ancora più di Hamilton, figura di sintesi tra gli ambienti di corte e le locali pratiche antiquarie fu quella di Domenico Venuti; la funzione di soprintendente generale agli scavi del Regno, assunta dal 1784 al 1799, si prestava naturalmente a tale compito68. Tra le sue iniziative, andrebbe segnalato il tentativo di creare uno scavo ‘reale’ in necropoli come Telese e Sant’Agata de’ Goti, «quasi a riprodurre in esse – come è stato giustamente detto – l’esperienza di scavo che a Pompei si misurava con una città romana» 69; egli inserì a pieno titolo tra gli interessi di corte l’acquisizione dei vasi ‘etruschi’ e, insieme a questi, il controllo sulle diffuse pratiche di scavo. Con Venuti, dunque, la frattura tra un’antiquaria reale, che aveva sede naturale presso il Vesuvio, e quella che si svolgeva tra i sepolcreti e le ceramiche delle periferie del Regno sembrò avviarsi a sintesi; si trattava anche di applicare quella sapienza maturata a Ercolano nei confronti dell’instrumentum a contesti preromani di rinvenimento.

Come si è già accennato, andrebbe evitata la prospettiva di una netta contrapposizione tra forme di antiquaria che, in realtà, non sembravano discostarsi troppo sul piano metodologico; ciò che prima mancava, probabilmente, era una struttura di raccordo di tipo amministrativo, che collegasse il centro alle periferie e saldasse i particolarismi delle ricerche: quanto di fatto avvenne, anche solo parzialmente, per mezzo dell’istituzione di una soprintendenza. Ciò che Domenico Venuti aggiunse agli esercizi di antiquaria – la particolare prospettiva antropologica adottata nello studio dei reperti di scavo – era frutto di una nuova temperie e di una più ampia evoluzione degli interessi specifici della disciplina. Di particolare importanza risultano i disegni con didascalie relativi a sepolcri rinvenuti presso S. Agata de’ Goti e Cales70, insieme a una lunga dissertazione sulla necropoli di Telese71; l’indagine di Venuti si sofferma talora sul contesto di scavo e sull’analisi del circondario, mentre l’analisi del sepolcro individua misure, forme, materiali e descrizione del corredo funebre; da questi dati sono ricavate comparazioni che

68 Sulla figura del soprintendente, affiancato nel suo ruolo da soprintendenti locali, cfr.

D’ALCONZO, La tutela del patrimonio, cit., pp. 519-520.

69 CASTORINA ZEVI, Antiquaria napoletana, cit., p. 128; interessanti considerazioni

sull’antiquario Domenico Venuti in CASTORINA, «Copia grande di antichi sepolcri», cit., pp.

315-329.

70 Ivi, pp. 319-325, dove sono adeguatamente commentati i disegni oggi conservati presso

la biblioteca dell’Accademia Etrusca di Cortona.

71 Ivi, pp. 325 ss.; il documento è pubblicato in A. CAROLA PEROTTI, Domenico Venuti e i

rinvenimenti vascolari di S. Agata de’ Goti: prime notizie sugli scavi e sui restauri, in «Annua- rio dell’Accademia Etrusca di Cortona», 21 (1984), pp. 290-291.

permettono all’antiquario di individuare differenze di usi da città a città, come le diverse appartenenze sociali dei defunti: distinti principalmente tra ‘ignobili’ e ‘nobili’, essi ricevevano sepolture differenti, cui contribuiva la diversa qualità delle ceramiche, come la presenza di certi strumenti che l’esperienza maturata a Ercolano permetteva di descrivere con sicurezza.

Non era assente dal filone dell’etruscheria una qualche finalità politica. In Toscana il grande sviluppo degli studi sul mondo etrusco si era accompagnato al riconoscimento di un’identità nazionale che ambiva a estendersi fino al Meridione, dove la scoperta di vasi che mostravano certe analogie di fattura parevano supportare l’ipotesi di una medesima origine. Non c’è bisogno, nel frangente, di ricordare come la concordanza politica instauratasi tra il Granducato di Toscana e il Regno di Napoli fosse ben più ampia delle sole faccende antiquarie. In ogni caso, la questione delle origini accompagnò come nodo storiografico lo studio delle ceramiche figurate. Una tradizione attributiva di ascendenza toscana e risalente al Cinquecento vi vedeva una produzione esclusivamente etrusca; dal Seicento, in ambito partenopeo, si sviluppò l’ipotesi dell’attribuzione greca, a sostegno della quale si esibivano alcuni vasi recanti iscrizioni greche72. Attorno alla metà del Settecento quest’ultima posizione si consolidò al punto da portare il dibattito allo scontro frontale. Marcello Venuti arrivò a sostenere la colonizzazione etrusca di alcune aree della Campania73. Matteo Egizio, in risposta al Gori, riferiva di un vaso con iscrizione greca: «Dalla gran copia, che se ritruova in varie parti della campagna Felice, – osservava – di qui conghiettavamo che i nostri antichi ne mandavano in Toscana, e non più lo contrario»74. Mentre Scipione Maffei sosteneva il carattere spurio di certe iscrizioni, Gori, sebbene scettico, mantenne per un certo tempo un atteggiamento di apertura, interessandosi al reperimento dei

72 Sulle controversie attributive cfr. NAPOLITANO, L’antiquaria napoletana, cit., pp. 29-33,

48-51.

73 La notizia di una «ben ponderata lezione, sopra il dominio, che gli antichi Toscani ebbe-

ro nelle Coste di quel Paese, che oggi si chiama Regno di Napoli, della qual cosa ultimamente se ne sono ritrovati vari vestigi, sì vicino a Resina, che nelle vicinanze di Nola, e Capua, Colo- nie Toscane», presso l’Accademia Etrusca di Cortona, è riportata nelle «Novelle letterarie pub- blicate in Firenze», 1 (1740), 47, col. 739. A margine andrebbe segnalata anche la posizione del Bayardi relativa alla questione degli Etruschi, la cui «antica Nazione – egli riteneva – può chiamarsi, se non di tutti, almeno di una gran parte degli Italiani progenitrice», la qual cosa egli ricavava, però, non dai vasi ma dalle architetture raffigurate nelle pitture di Ercolano (B AYARDI,

Catalogo, cit., p. V).

disegni di tali esemplari75; nella sua Difesa dell’alfabeto degli antichi toscani76, tuttavia, assunse ufficialmente la posizione già espressa da Maffei.

Ciò che importa osservare è che l’indagine compiuta sul vasellame antico sollevò numerosi problemi connessi alla sistemazione tipologica e tecnologica del reperto77; lo studio iconografico, unito all’analisi della fattura dei vasi e delle tecniche impiegate per le raffigurazioni, sottendeva la necessità di raccogliere una gran quantità di esemplari da sottoporre a comparazione e la capacità di far derivare da tali risultati coerenti ipotesi storiografiche; si trattava, spesso, di questioni non ancora chiaramente codificate dalla trattatistica antiquaria, sebbene in piena linea con i contemporanei sviluppi a livello europeo78.

2.2. La Repubblica degli antiquari

«Costoro vengono in una città in cui il governo, i caratteri e il sistema politico sono l’unica cosa curiosa e degna dello studio d’un uomo, e pure non fanno altro che andare a veder quattro mattoni e marmi a Pozzuoli e a Portici, quattro pietre infocate alla solfatara e al Vesuvio […]»79.

75 Ivi, pp. 49-50.

76 A.F. GORI, Difesa dell’alfabeto degli antichi toscani pubblicato nel MDCCXXXVII

dall’autore del Museo Etrusco, disapprovato dall’ill.mo sig. marchese Scipione Maffei, Firenze 1742.

77 Una tale lucidità appare nelle parole rivolte nel dicembre del 1743 dal noto antiquario

Giovan Battista Passeri all’amico Gori: «Io credo però, che se voi, o io fossimo in Napoli, ed avessimo campo di poter vedere tutta insieme quella immensa moltitudine di vasi tutti insieme, combinando i diversi modi di tagliar la creta, le vernici, le maniere del disegno, le tinte, la corri- spondenza de concetti, il modo di comporre le storie, le diverse maniere di pensare nell’accordo delle figure finalmente se n’è qualche vestigio di scrittura ci faremmo su parecchie utilissime riflessioni» (in NAPOLITANO, L’antiquaria napoletana, cit., p. 51).

78 Ci si riferisce, in particolar modo, al complesso delle indagini iconografiche; mentre gli

studi diplomatici, numismatici ed epigrafici avevano già raggiunto una certa maturità, sul ver- sante dell’iconografia «il consenso degli antiquari era infinitamente minore»: si considerino per lo sviluppo di questo settore le Miscellanae eruditae antiquitatis di Jacques Spon (1679), la fondamentale Antiquité expliquée di Montfaucon (1718), il Polymetis di J. Spence (1747), fino al Versuch einer Allegorie besonders für die Kunst del Winckelmann (1766) (cfr. A. M OMI- GLIANO, Storia antica e antiquaria, in Id., Sui fondamenti della storia antica, Torino 1984, pp. 28-29).

79 Ferdinando Galiani ad Antonio Cocchi, Napoli, 20 febbraio 1753, in F. GALIANI, F. Diaz

– L. Guerci (a cura di), Illuministi italiani, vol. VI, Opere di Ferdinando Galiani, Milano- Napoli 1975, p. 832.

Con queste parole Ferdinando Galiani contrapponeva al primato dato agli studi economici e politici la marginalità di quelli antiquari, riflettendo così un pensiero sostanzialmente comune; si metteva anche in dubbio la validità scientifica dei loro risultati:

«Credono questi antiquari d’indovinare per esempio, come pensassero gli antichi in materia di religione, ed io dico, che da questi monumenti, che ogni dì vengon fuori delle viscere della terra si ricava solamente la religione popolare degli antichi, ma non la vera»80.

In realtà, non si trattava tanto di denigrare frontalmente gli antiquari, quanto di biasimare l’eccessiva considerazione accordata a questo genere di interessi81. Una certa lettura storiografica, tuttavia, ha finito per accentuare tale conflitto, definendolo nei termini di una netta opposizione tra gli antiquari, dediti a questioni che nulla avevano a che fare con le urgenze del presente, e gli avanzamenti della riflessione politica maturata attorno alla figura di Genovesi: la stessa elaborazione da parte della corte napoletana di una politica antiquaria avrebbe dirottato sulle rovine di Ercolano e lontano dalle riforme l’attenzione da destinarsi a queste ultime82. Il lavoro di Giuseppe Giarrizzo ha invece mostrato i frequenti scambi tra gli indirizzi e le innovazioni propri del pensiero

80 L’abruzzese Romualdo De Sterlich a Giovanni Lami, 10 maggio 1753, in R. DE STER-

LICH, U. Russo – L. Cepparone (a cura di), Lettere a G. Lami (1750-1768), Napoli 1994, p. 300.

81 Sulla questione cfr. da ultimo A.M.RAO, Antiquaries and Politicians in Eighteenth-

Century Naples, in «Journal of the History of Collections», 19 (2007), 11, pp. 165-175, con la relativa bibliografia. Lo stesso de Sterlich a Giovanni Bianchi, il 17 aprile 1766, così affermava: «Quando dissi che non vorrei che ci dassimo tanto alle antichità, che ci dimenticassimo del mo- derno, non intesi dire che si dovesse affatto trascurar lo studio delle prime. Ne conosco il pregio

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