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Dall’apertura delle frontiere al filo spinato: l’immigrazione vista dall’Europa

Nel documento Stranieri, informazione e giornalismo (pagine 41-49)

Dopo aver analizzato le politiche migratorie previste anno dopo anno dall’Italia, pare opportuno soffermarsi brevemente su quanto è stato invece fatto a livello europeo. In quanto membri dell’Unione Europea non possiamo non interessarcene: il diritto comunitario si impone sulla legge interna (naturalmente se non contrastante coi diritti fondamentali della nostra Carta Costituzionale) e le decisioni prese a Bruxelles sembrano avere più seguito ed effetti di quelle assunte dal Governo.

L’Europa ha sempre fatto parlare molto di sé: la stessa politica interna è perennemente divisa tra chi è favorevole all’appartenenza dell’Italia all’Unione e chi è fermamente contrario, tra chi ritiene che senza Unione l’Italia non potrebbe muoversi sul piano internazionale e chi invece pensa che il nostro Paese sia discriminato e lasciato solo a gestire le faccende più delicate, in primis proprio l’immigrazione.

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Comunque la si pensi, è innegabile che anche l’Europa abbia cominciato a preoccuparsi tardi del fenomeno migratorio, al pari di molti suoi membri, e che le decisioni assunte non siano spesso esenti da problemi o, comunque, non siano completamente attente alle diverse sfaccettature del fenomeno.

Il trattato CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio), firmato a Parigi nel 1951 ma entrato in vigore solo un anno dopo, è considerato l’atto di nascita dell’attuale Unione (allora formata solo da Italia, Germania, Francia, Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi): non vi si ritrova nessun riferimento all’immigrazione, trattandosi essenzialmente di un patto della durata di 50 anni per permettere un “mercato comune”, quindi la libera circolazione, dei prodotti prima menzionati.

Dopo appena sei anni viene firmato un secondo trattato, il trattato CEE, che, insieme a quello che istituisce la Comunità europea dell’energia atomica (Trattato Euratom), viene chiamato “Trattato di Roma”. Qui si accenna per la prima volta all’immigrazione ma in maniera poco approfondita: le varie politiche riguardanti i cittadini extracomunitari dovevano essere decise dai singoli Paesi mentre solo per i lavoratori comunitari era prevista la libera circolazione. D’altronde la Comunità Europea era nata come unione di tipo economico, per lo scambio e la circolazione liberi delle merci e, all’epoca, gli immigrati erano ancora pochi, provenienti soprattutto dalle ex colonie asiatiche e africane e diretti principalmente verso Francia e Gran Bretagna. Si trattava di lavoratori sottopagati e sfruttati, una manodopera umile e non ancora specializzata e istruita come parte di quella moderna e che fa capolino in alcune recenti direttive che prevedono, in questo caso, una serie di vantaggi.

Gli arrivi sempre più massicci di stranieri portano negli anni ’80 a un cambiamento di rotta: il 14 giugno 1985 Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi firmano l’accordo di Schengen che prevede una successiva Convenzione di applicazione, firmata nel 1990 ma entrata in vigore solo 5 anni dopo. L’acquis di Schengen, come viene definito l’insieme dei due documenti, ha abolito i controlli alle frontiere interne dell’area, mantenendo e rafforzando contemporaneamente quelli alle esterne: attualmente vi partecipano 26 Paesi, di cui 22 membri dell’Unione e 4 non. Si sancisce ulteriormente il diritto di libera circolazione dei cittadini comunitari e di alcuni Paesi terzi nel territorio degli aderenti all’acquis ma senza prevedere particolari disposizioni di integrazione degli stranieri e riferendosi quasi sempre esclusivamente ai lavoratori comunitari.

Un aspetto importante da ricordare è la possibilità di sospendere la validità di Schengen, ripristinando i controlli e la chiusura delle frontiere interne, in caso di minaccia grave per l’ordine pubblico e la sicurezza interna: questo stato della durata di 30 giorni e prorogabile è

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stato attuato, ad esempio, dopo gli attentati di Parigi del novembre 2015 ma, in realtà, in questi ultimi anni diversi Paesi hanno attuato una serie di limitazioni alla libera circolazione delle persone per motivi più futili, come tornei sportivi (i Mondiali di calcio) o incontri internazionali (il G8) e, in questi mesi, anche per evitare l’ingresso di immigrati sul proprio territorio.

A introdurre ulteriori differenze tra europei e stranieri sarà, nel 1992, il trattato di Maastricht che introduce il concetto di “cittadinanza europea”: tuttavia solo chi già possiede la cittadinanza di un Paese membro ottiene contemporaneamente quella comunitaria e non tutti i diritti del trattato sono applicabili in modo indiscriminato, in quanto per goderne è necessario essere cittadini di uno Stato membro. Le materie di immigrazione e asilo sono considerate di interesse comune dell’Unione mentre sarà il successivo trattato di Amsterdam (1997) a rafforzare il concetto tramite una competenza comunitaria.

A fare più discutere, anche in questi giorni, è però il cosiddetto sistema Dublino: la prima Convenzione, firmata da 12 Paesi nel 1990, è stata modificata nel 2003 (Trattato di Dublino II) e nel 2013 (Dublino III) ma è rimasto inalterato l’aspetto fondamentale del Paese competente ad accogliere la domanda del richiedente asilo. In base al sistema Dublino è il Paese di arrivo del migrante a doversene occupare, procedendo al riconoscimento della persona anche attraverso impronte digitali e inserendo i dati in un database europeo di modo che tutti gli Stati possano poi operare successivi controlli. Infatti, nel caso in cui il rifugiato presenti più domande simultaneamente oppure la presenti in un Paese diverso da quello di arrivo, viene immediatamente riconosciuto e rimandato nel primo Paese di approdo.

Naturalmente, in casi di arrivi massicci il sistema rischia di collassare: i Paesi più esposti (Italia, Malta, Grecia, in parte la Spagna e più recentemente l’Ungheria e i Paesi della cosiddetta “rotta balcanica”) devono sopportare le incombenze maggiori, trovandosi a gestire un gran numero di richieste ed identificazioni. Senza contare che spesso si tratta di Paesi, in primis il nostro, non in grado di affrontare il problema: di fronte ad arrivi numerosi le strutture di accoglienza non riescono a trattenere tutti i richiedenti e molti di questi, tra i quali un gran numero di minori non accompagnati, riescono a scappare verso Paesi terzi, principalmente la Germania e il nord Europa, dove le condizioni di vita e le politiche d’accoglienza sono migliori o dove si trovano altri parenti coi quali ricongiungersi.

Una simile situazione porta con sé non pochi problemi: da una parte i Paesi non di primo approdo criticano l’inefficienza del sistema e l’incapacità di chi si trova alle frontiere esterne di valutare le richieste dei rifugiati (adottando così una serie di rimpatri verso questi Stati), mentre dall’altra i Paesi di prima accoglienza denunciano l’abbandono nel quale versano e le

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difficoltà, in termini di costi, strutture e personale, che i controlli previsti dal trattato comportano.

Le discussioni su una revisione del trattato di Dublino si susseguono ormai da anni senza risultato: l’unico principio al quale appellarsi sembra essere quello enunciato all’articolo 80 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) sulla solidarietà e l’equa ripartizione degli oneri, anche di natura finanziaria, tra Stati membri. Sono inoltre previste delle misure tampone per emergenze temporanee riguardanti singoli Stati membri in casi di particolare gravità ma sembrano tutte norme ormai prive di forza.

L’Europa attualmente mette a disposizione risorse, come mezzi di vigilanza (ad esempio Frontex) o finanziamenti di varia natura, ma sono i singoli Paesi a doversi preoccupare di diverse incombenze, naturalmente costose, riguardanti il controllo delle frontiere, l’identificazione e il rilascio di permessi e visti. Anche l’attivazione delle misure d’emergenza (la protezione temporanea prevista dalla direttiva 2001/55 e citata nel paragrafo sull’utilizzo del termine “clandestino”) avviene solo in casi particolari e può essere rigettata dall’Unione, come è avvenuto negli anni precedenti anche per il nostro Paese, approdo di migranti nordafricani durante la Primavera Araba.

Senza soffermarsi sulle numerose direttive, alcune già citate, che prendono in esame diversi aspetti del fenomeno (dall’accoglienza del rifugiato alla protezione umanitaria, dal permesso per soggiornanti di lungo periodo al lavoratore straniero), basta guardare all’intricata situazione attuale per capire che l’Europa non si è trovata pronta di fronte all’emergenza immigrazione.

La guerra in Siria (nella quale anche l’Europa è implicata), l’avanzata dell’Isis e l’instabilità dell’Africa del Nord hanno improvvisamente (ma non inaspettatamente) aumentato gli arrivi alle nostre frontiere: gli ultimi mesi sono stati caotici e hanno visto un continuo balletto tra Paesi prima pronti ad aiutare e poi decisi a fare dietrofront, mettendo in dubbio il prima citato dovere di solidarietà. L’estate 2015 è stata calda sotto questo versante: la situazione siriana degenerata con la presa di terreno dell’Isis ha modificato le rotte migratorie, spostatesi dal Mediterraneo ai Balcani. Non più le cosiddette carrette del mare in partenza dalla Libia e dirette verso le coste di Lampedusa (anche se comunque il fenomeno non si è arrestato), ma passaggi di fortuna attraverso Turchia e Grecia e colonne umane in cammino nell’Est Europa.

I Paesi dell’Europa Orientale, particolarmente chiusi verso i nuovi arrivi, hanno cominciato fin da subito a tenere un comportamento duro, soprattutto l’Ungheria, che ha cercato di arginare il fenomeno con la costruzione di muri in filo spinato alle sue frontiere,

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trasformando in reato l’immigrazione e attuando una serie di respingimenti verso Stati vicini, come Serbia e Macedonia, considerati Paesi di transito sicuri ma anche loro al collasso. L’Ungheria, membro dell’Unione Europea, non è stata però sanzionata per queste gesta poco nobili: ciò che sorprende, guardando a distanza di qualche mese i fatti, è proprio il silenzio dell’istituzione Unione e la sua incapacità di tenere sotto controllo il problema, prendendo decisioni certe e in tempi brevi. Da mesi si susseguono proclami, inviti alla collaborazione e alla solidarietà, richieste di aiuto, incontri, vertici e accuse, ma poco si vede sul piano concreto.

Da una parte ci sono Paesi, come l’Italia e la Grecia, da anni alle prese con la questione migrazione e molto deboli sul piano finanziario a causa della crisi, che chiedono aiuti economici e flessibilità nei conti pubblici per le spese sostenute per i migranti, ritenendo doveroso vietare, contemporaneamente, agli Stati dell’Est di accedere a finanziamenti dell’Unione visto il loro comportamento. Dall’altra questi ultimi, Ungheria in testa, capitanata dal suo Presidente Orbàn, accusano gli altri Paesi di discriminazione e scorrettezza, continuando sulla strada dei respingimenti.

Ma anche l’Ovest e il Nord Europa non sono da meno: la Gran Bretagna, paventando una sua possibile uscita dall’Unione (la Brexit), ha ottenuto dagli altri Stati una serie di vantaggi, tra i quali la sensibile riduzione dei servizi di welfare per tutti i nuovi arrivati sul suo territorio, compresi i cittadini comunitari. La Germania e l’Austria hanno invece mostrato volubilità: prima sono state critiche nei confronti dei Paesi di primo approdo, incapaci, secondo loro, di identificare tutti i migranti e valutare le richieste d’asilo, favorendo così la fuga incontrollata di queste persone e l’arrivo illegale entro i loro confini, con una serie di conseguenze per quanto riguarda la sicurezza in ottica di terrorismo. Poi hanno cambiato idea, sull’onda della generosità mostrata dalla Cancelliera tedesca Angela Merkel, che ha solennemente proclamato di “aprire le porte a tutti i richiedenti asilo” (la maggior parte dei quali approdano in Italia o Grecia ma sono diretti a Nord) per poi nuovamente fare un passo indietro quando il numero delle richieste si è rivelato (come ci si poteva aspettare) molto elevato.

Ecco così che i migranti, fuggiti da Paesi in guerra, arrivati dopo numerose peripezie e pericoli in Europa, si ritrovano non nel paradiso che si aspettavano ma nuovamente alle prese con guardie e filo spinato. L’Austria infatti, dopo la prima apertura delle frontiere, è passata alla loro chiusura, da ultimo quella del Brennero, spaventata dall’ingresso di un numero di richiedenti asilo pari a circa l’1% della sua popolazione.

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L’Italia e la Grecia hanno mostrato insofferenza ottenendo l’impegno, durante un vertice nel luglio 2015, del ricollocamento di parte dei richiedenti asilo presenti sui loro territori, per un totale di 120.000 persone in 2 anni. La vittoria si è ben presto trasformata in sconfitta: a lasciare l’Italia per raggiungere gli altri 22 Paesi membri dell’Unione dovevano essere 80 stranieri al giorno (solo rifugiati, mentre i cosiddetti “migranti economici” venuti in Europa alla ricerca di una vita migliore e non per scappare da discriminazioni o guerre sono da sempre i grandi esclusi, destinati al rimpatrio). Invece in un mese solo 90 tra eritrei e siriani sono volati in Finlandia e Svezia mentre gli altri sono ancora in attesa perché le richieste accolte (appena 525 sui 40.000 migranti su territorio italiano da ricollocare) non hanno effetto immediato. La solidale Germania si è resa disponibile per appena 10 posti, la Spagna per 50, la Francia per 20, altri, come Portogallo e Olanda, per nessuno mentre diversi Paesi dell’Est (Romania, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) hanno addirittura votato contro la decisione delle quote.

Naturalmente i numeri sono importanti anche sul piano economico: tutti i media nazionali hanno riportato la spesa sostenuta dall’Italia per l’accoglienza dei migranti, pari a un miliardo e 100 milioni di euro, ricevendone in cambio dall’Unione appena 310 milioni. Senza contare che il nostro Paese dovrebbe, come chiesto più volte dall’Unione Europea stessa, realizzare alcuni “hotspot”, cioè centri di identificazione, a Pozzallo, Porto Empedocle e Trapani: il rifiuto, da parte di numerosi Stati membri, di mantenere la parola data sulle quote o di sostenere politiche d’appoggio per i Paesi di primo sbarco, si è basato e si basa proprio su quella che loro considerano incapacità da parte di Italia e Grecia di svolgere i propri compiti di schedatura degli stranieri. Naturalmente il nostro Paese non ha accettato le critiche, rifiutandosi di realizzare gli hotspot fino a quando non venissero formulati piani concreti o mantenute le promesse anche da parte degli altri Stati.

Nel gioco è presto entrata la Turchia che si trova in una posizione geografica strategica, ponte naturale tra l’instabile Medio Oriente e l’Europa. Il Paese, che ospita un gran numero di campi profughi, non ha mai operato controlli sugli stranieri presenti, favorendo, anzi, partenze illegali verso la Grecia e l’est Europa. Al pari della già citata Libia, anche la Turchia è tristemente nota per la continua violazione dei diritti umani perpetrata verso i suoi cittadini in primis e verso i richiedenti asilo poi. Per trovare una soluzione è stato firmato un patto tra l’Unione e la Turchia, fortemente voluto dalla Cancelliera Angela Merkel: tale accordo prevede lo stanziamento di 3 miliardi per aiutare il Paese nella gestione dei campi profughi e il rimpatrio immediato, a partire da marzo 2016, di tutti i migranti irregolari partiti dalla Turchia e sbarcati in Grecia. Oltre a una velocizzazione dello studio sul possibile ingresso del

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Paese nell’Unione (avversato però da diversi Stati membri), è previsto che la Turchia faccia la sua parte collaborando con l’Unione, controllando i passaggi degli stranieri sul proprio territorio (spesso affiliati Isis e foreign fighters) e migliorando l’accesso ai servizi e l’ottenimento di visti ai rifugiati.

Come si evince da questa breve rassegna dei fatti più recenti, non si può parlare di solidarietà tra Paesi UE. L’impressione è che ci si sia trovati impreparati (soprattutto Stati finora solo sfiorati dal fenomeno immigrazione) di fronte a flussi importanti e che la migliore soluzione trovata sia stata quella di chiudere gli occhi scaricando le incombenze sui vicini o sui Paesi alle frontiere esterne.

E le incertezze continuano: in questi giorni si sono succedute altre novità, come la chiusura del Brennero da parte dell’Austria e, si teme, in futuro, degli altri valichi, senza considerare la proposta degli Stati del Nord di pagare anche con 1.000 euro a testa i migranti, purché decidano di tornare nei Paesi d’origine. Danimarca, Norvegia e Svezia hanno chiuso le loro frontiere e lo stesso sta meditando di fare la Germania: tutto questo col rischio di un effetto domino perché i migranti, che continueranno ad arrivare, verranno semplicemente spostati da un Paese con le frontiere chiuse a quello a fianco (come sta già succedendo con la Grecia e alcuni Stati dell’Est) e cercheranno una nuova via, probabilmente la già nota rotta del Mediterraneo o la “vecchia” dell’Adriatico, per fuggire dalla trappola dell’Europa Orientale verso l’Italia, che di frontiere da chiudere non ne ha.

Possibile, viene da dire, che un’istituzione come l’Europa, che quest’anno celebra 65 anni dalla firma del trattato CECA, non sia in grado di operare controlli più accurati alle sue frontiere o prevedere le conseguenze dei conflitti che avvengono ai suoi confini? E soprattutto non sia ancora capace di dare concretezza alla parola Unione, attraverso la solidarietà tra i suoi membri, mostrandosi invece agli occhi del resto del mondo come un gruppo chiassoso incapace di prendere decisioni determinanti per la sua futura esistenza?

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CAPITOLO II

I diritti fondamentali degli stranieri

Obiettivo di questo capitolo è analizzare i diritti che vengono riconosciuti agli stranieri a livello internazionale, europeo e italiano. Non si può prescindere da uno studio multilivello proprio perché, come già ricordato anche all’inizio del primo capitolo, l’ordinamento italiano non è più “solitario” ma le norme nostrane devono rispettare l’ordinamento internazionale e comunitario come previsto dallo stesso art.117 Cost25.

Inoltre negli anni, nel nostro Paese, è più volte cambiato l’approccio alla materia: la condizione di reciprocità, della quale si parlerà in un paragrafo apposito, è stata a lungo la base del trattamento previsto per gli stranieri in Italia, salvo essere stata superata per quanto riguarda i diritti fondamentali che vanno riconosciuti a tutte le persone a prescindere dalla cittadinanza.

Come è trasparso anche dal precedente capitolo sulle politiche migratorie, la considerazione degli stranieri attraverso le varie leggi è cambiato, profilandosi col cosiddetto “pacchetto sicurezza” una loro criminalizzazione se irregolari, dalla nascita dei CIE fino all’impossibilità di sposarsi. Eppure il Testo Unico riconosce allo straniero “comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti”.26

Nonostante questo, sia in Italia che negli altri Paesi occidentali e democratici, i diritti umani sono e continuano a essere violati: traguardi che sembravano essere stati raggiunti sono in realtà ancora lontani e, anche a causa dei continui arrivi di profughi, rifugiati e migranti economici alle porte dell’Europa, probabilmente lo saranno ancora a lungo. La stessa

Amnesty International27 ha denunciato questo fenomeno dimostrando come anche negli Stati

più insospettabili vengano a tutt’oggi violati numerosi diritti umani, sia nei confronti dei cittadini stessi che degli stranieri presenti a vario titolo sul territorio.

25 “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.

26 Cfr. articolo 2 comma 1 legge 286/1998

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Eppure sono diversi i diritti riconosciuti a tutte le persone, quindi anche a chi si trova fuori dal proprio Paese d’origine, a tutti i livelli: se la nostra Costituzione si occupa degli stranieri solo in un suo articolo, il già menzionato 10, tanti altri sono i documenti, i patti e le convenzioni, sia internazionali che europei, che hanno efficacia anche all’interno del nostro ordinamento.

Partiremo quindi dall’analisi del livello internazionale, soffermandoci sulla storia dei diritti umani e dei documenti che li riconoscono, passando poi al versante europeo e infine a quello italiano che deve adattarsi, con non poche difficoltà, ai precedenti. Infine ci si soffermerà in particolare sulla situazione dei diritti umani oggi come raccontato dalle parole di Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia, durante un suo intervento28 sul Rapporto 2015 – 2016 dell’organizzazione. Marchesi si è soffermato sulla situazione generale dei diritti, sulle problematiche comuni, sui paradossi del caso e sulla situazione particolare dell’Italia, divisa tra i doveri internazionali ed europei di rispetto delle regole e tra gli interessi economici e politici che la spingono invece ad avere un atteggiamento opposto. Emblematico il caso della tortura: il nostro Paese ha ratificato il documento internazionale sul tema che verrà presentato nel prossimo paragrafo ma non ha a tutt’oggi una legge sulla tortura, lasciando prive di tutela tutte le vittime di violenza, sia italiane che straniere, all’interno di carceri, CIE e stazioni di polizia29

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