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Apogeo e crisi dell’egemonia americana

Nel periodo che va dalla fine della guerra di Corea alle crisi petrolifere degli anni Settanta, che come perno centrale nella storia finanziaria mondiale il ripristino delle parità valutarie del 1958, si verificò una fase di espansione economica su scala mondiale, che coinvolse, contemporaneamente, un gran numero di paesi. Se da una parte i governi applicavano politiche economiche miranti a sostenere la domanda aggregata, dall’altra il GATT

divenne centrale nel processo di abbassamento delle barriere doganali che liberalizzarono lo scambio di manufatti tra i paesi industrializzati e anche quello delle materie prime. I flussi commerciali e finanziari subirono gli effetti delle scelte di politica economica sia dei paesi industrializzati, che diventarono il centro del sistema grazie alla loro capacità di innovazione tecnologica e di esportazione dei capitali, e i paesi in via di sviluppo, che si costituirono come periferia del sistema, esportatrice di materie prime e importatrice di capitali. In questo modo, l’offerta si compone attraverso i fattori delle materie prima, da parte dei paesi in via di sviluppo, e del fattore dell’innovazione tecnologica, sviluppato dai paesi industriale; la domanda, invece, è sostenuta dalla crescita del reddito disponibile nei paesi industrializzati promosso attraverso politiche monetarie.

4.1. Il centro del sistema: i paesi industrializzati

Gli investimenti tecnologici che avevano come obiettivo l’innovazione di prodotto e di lavorazione furono uno dei tratti distintivi dei paesi industrializzati in questo periodo. Non c’è da stupirsi se i paesi più ricchi erano anche i paesi con il più alto livello di progresso tecnico del periodo. Tra questi, gli Stati Uniti primeggiavano senza rivali, fondando questa leadership su un più alto rapporto tra Pil e spese per ricerca e sviluppo; al secondo posto, gli americani erano seguiti dalla Gran Bretagna e, poi, dalla Germania dell’ovest. È stato rilevato che su cento delle maggiori innovazioni tecnologiche introdotte nel periodo 1945-1970, infatti, sessanta furono sviluppate da aziende americane, quattordici dai britannici e undici da imprese tedesche.

Più della metà degli investimenti in ricerca dei paesi dell’OCSE e degli Stati Uniti erano destinati a finanziari gli sviluppi tecnologici del settore industriale, mentre quasi i tre quarti degli investimenti privati si concentravano nei settori dell’elettronica, della chimica, dell’elettricità e dei mezzi di trasporto. I medesimi settori erano anche le aree in cui si concentrava la spesa pubblica, con l’aggiunta del settore aereospaziale.

I settori industriali nei quali si concentrarono maggiormente gli investimenti, pubblici o privati che fossero, furono anche i settori che registrarono la maggiore crescita economica. Tuttavia, ne furono avvantaggiati anche i settori che dipendevano, per le materie prima e i macchinari utilizzati, dalle aree produttive che si stavano sviluppando con più rapidità. L’industria tessile, ad esempio, si trasformò nel corso degli anni Sessanta in un settore ad alta intensità di capitale, in quanto la produzione dei nuovi macchinari finiva per impiegare i progressi tecnologici raggiunti in altri settori produttivi, mettendo a frutto gli studi sui materiali, la tecnologia delle fibre, l’idrodinamica, l’aerodinamica e, in seguito, l’elettronica, che fece si che dal 1970 in poi le tecniche con

controllo numerico furono applicate nella produzione dei macchinari.

Lo sviluppo di nuove tecnologie applicate ai vari settori industriali, seppur con epicentri nazionali caratterizzati dall’asimmetria segnalata in precedenza, si diffuse al di fuori dei paesi innovatori molto rapidamente e in vari modi diversi. Un ruolo chiave in questo senso venne giocato dalle grandi imprese multinazionali, che diffondevano gli sviluppi tecnologici attraverso i rapporti tra le imprese principali e le loro filiali sparse in diversi paesi del mondo. Un altro canale di trasferimento tecnologico tra paesi era costituito dagli aiuti internazionali che i paesi sviluppati fornivano ai paesi meno industrializzati, anche se l’adeguatezza della tecnologia in questi contesti era spesso dubbia visti i costi, a volte eccessivi, per adeguare gli impianti e il sistema economico – si pensi ad esempio all’abbondanza di manodopera o alla scarsità di capitali – dei paesi più poveri. Ad esempio, in America latina, nel periodo compreso tra il 1939 e il 1973 l’utilizzo di tecnologie che utilizzavano il petrolio, in sostituzioni di tecniche che comportavano un minor uso di energia o che erano basate su altre risorse d’energia localmente disponibili, portò ad un aumento del 500% della domanda di petrolio: in Brasile ed Argentina, durante gli anni Settanta, ad esempio, il 25% della valuta estera a disposizione veniva utilizzato per l’acquisto di petrolio.

L’architettura mondiale degli scambi fu profondamente influenzata dal progresso tecnologico post-bellico, che ebbe un notevole impatto nel modulare i flussi commerciali sia con innovazioni di processo, che con innovazioni di prodotto: la prima derivante dall’asimmetria nello sviluppo tecnologico tra paesi, che produceva vantaggi comparati nello scambio di manufatti; la seconda derivante, invece, dalla crescente varietà di nuovi prodotti. In seguito alla guerra di Corea, per tre decadi l’area che registrò il maggior aumento negli scambi commerciali fu quella dei paesi industrializzati, che scambiavano tra loro principalmente prodotti di scala e meccanici, mentre importavano dai paesi in via di sviluppo una grande percentuale di prodotti tessili standardizzati. In generale, la maggior parte del commercio di manufatti tra paesi industrializzati si svolgeva nell’ambito di settori industriali simili: più del 60% degli scambi nei dieci paesi che, da soli, fornivano il 58% delle esportazioni a livello mondiale, si svolgevano in ambito intra-settoriale. Questi si dividevano in prodotti tra loro diversi ma perfettamente sostituibili, oppure nello scambio di semilavorati e componenti tra varie filiali tra loro verticalmente integrate e proprietà di una stessa società multinazionale. I paesi in via di sviluppo fornivano invece quote importanti di esportazioni di prodotti standardizzati, in particolar modo nel campo dell’abbigliamento.

Gli Stati Uniti, che nel periodo post-bellico avevano incrementato il loro vantaggio tecnologico e, quindi, le capacità di innovazione, fondavano la propria industria su una manodopera qualificata e sull’esportazione di prodotti che necessitavano di un alto livello di ricerca e sviluppo, che erano anche meno soggetti alla sostituzione di beni d’importazione. Il Giappone fu uno di quei paesi cosiddetti inseguitori, insieme alla Germania, durante gli anni Cinquanta e Sessanta. Le spese per l’acquisto di brevetti e licenze straniere, che toccarono quota 250 milioni di dollari nel 1969 a partire dai 20 milioni registrati nel 1955, consentirono al paese di ridurre gradualmente il gap tecnologico con gli Stati Uniti. In questi decenni, la Germania raggiunse la Gran Bretagna sul terreno delle esportazioni, essendo la competitività inglese decisamente in declino, nonostante la svalutazione della sterlina nel 1967 ridiede un piccolo slancio alle industrie inglesi, mentre l’Italia divenne uno tra i maggiori esportatori al mondo grazie al miglioramento della competitività dell’industria nazionale.

Questa nuova struttura dei flussi commerciali fondò molto del suo successo sul GATT, sebbene quest’ultimo venne sviluppato secondo direttive in parte diverse da quelle con cui era sorto, permettendo ai paesi partecipanti di scegliere i prodotti e le voci dove erano più disponibili a fare concessioni tariffarie. L’esempio più macroscopico fu quello europeo. I sei paesi che avevano dato vita alla CECA, infatti, siglarono nel 1957 il Trattato di Roma con il quale venne costituita la Comunità Economica Europea (CEE), stabilendo le regole del mercato comune, tra le quali vi era l’adozione di una tariffa comune da applicare negli scambi commerciali con gli altri paesi del mondo. Lasciata fuori da questa iniziativa, la Gran Bretagna promosse come misura temporanea l’Associazione Europea per il Libero Scambio (EFTA), che coinvolse i paesi rimasti fuori dalla CEE.

Nel 1962, inoltre, l’amministrazione Kennedy promosse il Trade Expansion Act, pensato per includere la Gran Bretagna nel mercato europeo attraverso importanti riduzioni tariffarie unite alla completa eliminazione dei dazi in quei prodotti in cui Stati Uniti e CEE detenevano più dell’80% delle esportazioni a livello mondiale. Anche se Da Gaulle, attraverso il veto posto nel 1963, bloccò la richiesta di adesione della Gran Bretagna, il successo dell’allargamento del libero mercato fu evidente: durante il cosiddetto Kennedy Round, i dazi vennero ridotti dai paesi industrializzati del 70% sulle rispettive importazioni, esclusi i cereali, la carne e i prodotti caseari.

Il generale abbassamento delle barriere doganali e l’aumento vertiginoso degli scambi commerciali diedero il via anche ad un aumento dei flussi di capitali che, ricominciando a crescere tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, provocarono un rimescolamento nelle gerarchie internazionali,

rappresentando un punto di svolta nelle relazioni finanziarie internazionali e riportando in auge la City londinese. La rinascita di Londra si fondò sull’uso di due nuovi elementi che, alla fine degli anni Cinquanta, comparvero sui mercati mondiali: gli eurodollari e le eurobbligazioni.

È possibile rintracciare la genesi dei cosiddetti eurodollari agli inizi degli anni Cinquanta quando crescenti quantità di dollari cominciarono a venire depositate presso numerose banche europee, la maggior parte delle quali a Londra. L’origine di tali depositi era varia. Da una parte essi provenivano dagli investimenti statunitensi, in particolar modo quelli delle grandi multinazionali, dagli aiuti alle popolazioni civili e dalle spese per il mantenimento delle truppe all’estero, a cui si aggiungeva però, con intensità crescente con il passare degli anni, il deficit della bilancia di pagamento statunitense. Un’altra ragione che stimolò la nascita degli eurodollari fu certamente la Guerra fredda, che portò l’Unione Sovietica e i paesi dell’est Europa a depositare i propri attivi in dollari nelle banche europee, in quanto temevano che un peggioramento nelle relazioni internazionali con gli Stati Uniti, sempre possibile, avesse potuto comportare un congelamento di quei fondi se depositati in banche americane.

Un ruolo importante nella crescente disponibilità di dollari delle banche europee e inglesi si deve anche alla cosiddetta Regulation

Q americana, che stabiliva un massimale per gli interessi pagati sui

depositi bancari statunitensi, e alle sue conseguenze in ambito internazionale. Il massimale, infatti, poteva, e così avvenne, essere superato dalle banche inglesi, che offrendo tassi d’interesse maggiori attiravano flussi in dollari. Questa pratica finanziaria fu inaugurata dalla Midland Bank, che nel giugno 1955 offrì un tasso pari all’1,8% su depositi a trenta giorni in dollari, mentre la regolazione statunitense fissava il massimo all’1%: attirando dollari, la banca inglese li rivendeva poi sul mercato interno in cambio di sterline, ricomprando poi a termine i dollari e guadagnando attraverso l’arbitraggio sui tassi di interessi. Il divieto introdotto in Gran Bretagna di denominare in sterline i finanziamenti agli scambi con paesi terzi, per interrompere il ribasso della sterlina, rese ancora più vantaggioso sostituire la valuta inglese con il dollaro nelle transazioni internazionali, specialmente da parte delle banche che operavano oltremare, come la Kleinwort e la Bank of London and South America.

Quando nel dicembre del 1958 le valute europee tornarono alla convertibilità reciproca, vi fu un graduale abbassamento dei controlli sui flussi di capitale e una crescita rapida del mercato degli eurodollari, i quali costituivano una fonte di credito di enorme quantità. Usando i fondi che provenivano in massima parte dalle multinazionali americane, infatti, le banche inglesi finanziavano il commercio internazionale e i prestiti a breve: se nel 1958 questo

mercato contava un giro d’affari di 1,5 miliardi, nel 1973 si arrivò a toccare quota 130 miliardi di dollari.

Velocemente, sull’onda dell’aumento dei prestiti bancari denominati in dollari, i banchieri della City londinesi cominciarono ad emettere obbligazioni, denominate sempre in dollari ma emesse su Londra anziché su New York, alle quali la Banca d’Inghilterra diede il suo nulla osta nel luglio del 1962. La prima emissione di eurobbligazioni può essere rintracciata in un’operazione del maggio del 1963, condotta dalla merchant bank Samuel Montague che aveva collocato, per conto del governo del Belgio, un prestito di 20 milioni di dollari. Poche settimane dopo fu la volta della prima eurobbligazione destinata ad un’impresa privata: Sigmund Warburg, infati, nel gennaio 1963 siglò un accordo con Autostrade Italiane, al tempo una controllata dell’IRI, alla quale venne accordato un prestito di 15 milioni di dollari, ad un tasso d’interesse del 5,5% e per una durata di sei anni, che venne effettivamente emesso il primo luglio dello stesso anno.

L’emissione delle eurobbligazioni divenne ancora più vantaggiosa all’indomani dell’introduzione negli Stati Uniti della Interest

Equalization Tax, il 18 luglio 1963: questa imposta sul rendimento

dei prestiti esteri emessi negli Stati Uniti determinò, infatti, un aumento dei costi d’emissione delle obbligazioni estere. Questo portò, in appena cinque anni dal loro primo apparire, le eurobbligazioni a raggiungere i 4 miliardi di dollari all’anno, con vantaggi per tutte le parti coinvolte, data la mancanza di un obbligo a presentare documentazione particolare da parte dei debitori – visto che i prestiti non erano soggetti alla legislazione di alcun paese – , nonché dato l’anonimato e l’esenzione da imposte alla fonte, che avvantaggiava gli investitori.

Un’ultima tipologia creditizia cominciò a nascere in Europa alla metà degli anni Sessanta, coprendo il settore dei prestiti a medo termine, con scadenze a 10-15 anni. Gli eurocrediti furono prestiti interbancari a tasso variabile, finanziati in eurodollari, più flessibili rispetto alle obbligazioni e per questo appetibili da un vasto mercato. La prima a emettere questo tipo di forma di credito fu la First National City Bank nel maggio del 1966. Successivamente, il successo riportato dagli eurocrediti portò all’organizzazione di consorzi di credito che riunivano più istituti bancari, come ad esempio quello, che ammontava a 15 milioni di dollari, organizzato nel giugno del 1966 dalla Bank of London and South America, e quello, pari a 100 milioni, gestito dalla Lehman Brothers e dal Bankers Trust International per l’Austria. In generale, gli eurocrediti crebbero dai 2 miliardi di dollari del 1968, fino ai 20 miliardi registrati nel 1973.

Come visto, il processo di accumulazione di dollari nei paesi europei, in primo luogo in Gran Bretagna, occupò tutto il decennio

degli anni Sessanta, fin dai primissimi anni successivi al ripristino della convertibilità delle divise monetarie dei principali paesi europei. Il dollaro, quindi, si stava imponendo sempre più come moneta chiave dell’economia internazionale, in quanto, oltre ad essere l’unità di conto delle importazioni e delle esportazioni, veniva utilizzato anche come mezzo di scambio delle transazioni interbancarie e come moneta di riserva di Stati e privati. Questa dipendenza dal dollaro si rivelò come uno degli elementi decisivi nell’incrinare il funzionamento dell’intero sistema: paradossalmente, proprio nel momento in cui Bretton Woods entrò pienamente in vigore, nel 1959, i suoi meccanismi mostrarono i segni di una debolezza che si manifesterà esplicitamente solo un decennio più tardi.

Il sistema si evolveva, infatti, in modo squilibrato: come notato fin dal 1947 da Robert Triffin, economista belga a Yale, l’instabilità del sistema di Bretton Woods era dovuta proprio all’aumento dei saldi esteri denominati in dollari, che portava ad un parallelo aumento delle riserve internazionali, sempre in dollari. Proprio l’accumulo di dollari era il nodo centrale della questione: infatti, detenere dollari era conveniente fin quando non sussistevano dubbi sulla capacità degli Stati Uniti di onorare la convertibilità in oro. Ma la fiducia nelle possibilità statunitensi cominciò a vacillare fin dall’inizio degli anni Sessanta, quando i conti in dollari del resto del mondo incombevano sulle riserve auree americane: nel 1960, per la prima volta, le passività monetarie in divisa estera superarono l’ammontare delle riserve auree americane; nel 1963, invece, i debiti americani verso l’estero superarono il debito interno. Se un paese estero avrebbe richiesto di convertire in oro i proprio saldi in dollari avrebbe scatenato una corsa internazionale alle riserve auree statunitensi, costringendo gli Stati Uniti alla svalutazione.

Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, il problema che si poneva alle autorità monetarie e finanziarie mondiali era duplice: da una parte accrescere le liquidità internazionali necessarie a sostenere la crescita economica; dall’altra trovare uno strumento di liquidità da sostituire al dollaro, che, come visto, mostrava i primi segni di sofferenza nelle pressioni a cui veniva sottoposto dalla sua convertibilità aurea. Già nel 1959, infatti, era stato preso atto che l’economia mondiale era cresciuta enormemente rispetto al 1944, portando così ad un aumento delle quote dell’FMI pari al 50%; quest’aumento, tuttavia, dato che il valore del dollaro nello stesso periodo era più che raddoppiato, non variava quasi per nulla le risorse effettive a disposizione del Fondo. Nel momento in cui, nella prima metà degli anni Sessanta, la debolezza del dollaro divenne evidente, cominciò ad apparire altrettanto evidente che gli Stati Uniti non intendevano sacrificare i propri obiettivi politici e sociali, come, ad esempio, l’impegno militare in Vietnam, che divenne sempre maggiore a partire dal

1965, e le spese sociali: nel 1960, ad esempio, Kennedy incentrò tutta la propria campagna elettorale con una promessa di portare la crescita annua al 5%, escludendo dal novero delle possibilità per riequilibrare il sistema monetario internazionale manovre sui tassi d’interesse o misure fiscali restrittive. Anche l’arma della svalutazione, che avrebbe posto fine alla supremazia del dollaro come valuta di riferimento mondiale, non era praticabile, in quanto sarebbe stata interpretata come una chiara dichiarazione di fallimento.

Tuttavia, proprio la campagna elettorale di Kennedy con lo slogan «to get America moving again», venne interpretata come anticipatrice di possibile politiche inflazionistiche, che provocarono la prima crisi sul mercato dell’oro di Londra fin dalla sua riapertura nel 1954: gli speculatori, infatti, per timore di una svalutazione, portarono il prezzo dell’oro sul mercato privato londinese dai 35,20 dollari all’oncia, prezzo a cui l’oro veniva comprato dal Tesoro statunitense, fino a 40 dollari all’oncia. La soluzione, temporanea, venne trovata in un accordo tra banche centrali con la nascita, come vedremo a breve, del cosiddetto Gold Pool nel novembre del 1961.

In queste condizioni, il sistema di Bretton Woods riuscì a sopravvivere durante gli anni Sessanta e fino al 1971 grazie, principalmente, ad iniziative di cooperazione a livello internazionale tra Stati e banche centrali, che tornò in auge dopo quasi trent’anni di interruzione: un esempio di tale cooperazione è fornito dalla decisione, simbolica oltre che pragmatica, presa dai governatori delle varie banche centrali di incontrarsi presso la Banca dei Pagamenti Internazionali a Basilea con cadenza mensile, per scambiarsi informazioni, suggerimenti e decidere le mosse da applicare.

Dopo la rivalutazione del marco del 4 marzo 1961, ad esempio, le pressioni sulla sterlina si intensificarono, portando alla stipula di alcuni accordi di scambio tra le banche centrali, che prevedevano l’impegno a mantenere i loro saldi in valuta anziché convertirli in oro, fornendo anche un miliardo di dollari alla Gran Bretagna. Un ulteriore prestito agli inglesi fu fornito, nel 1964, dalla Fed di New York, in quanto gli americani, dato che la sterlina era la seconda valuta di riserva internazionale e, una sua svalutazione, avrebbe comportato forti pressioni sul dollaro, si impegnarono a far sì che il valore della divisa inglese non cadesse aprendo una linea di credito di tre miliardi di dollari verso la Gran Bretagna.

Altre due iniziative devono essere prese in considerazione in questo quadro di eventi: il Gold Pool, che funzionò nel periodo 1961-1967, e i diritti speciali di prelievo presso l’FMI, le cui trattative, iniziate nel 1963, si conclusero nel 1967 con disposizioni che entrarono effettivamente in regime nel 1969. I negoziati per

creare nuove riserve, alternative al dollaro, furono inaugurati dal Gruppo dei Dieci, ovvero il G-10. Nel 1961, quindi, le nazioni industrializzate decisero, attraverso gli Accordi Generali di Prestito, di aumentare la proprio quota, denominata nelle varie valute nazionali, per un totale di sei miliardi di dollari, legando l’accesso a queste risorse all’approvazione dei ministri delle finanze dei paesi industrializzati. Nel 1963 venne inoltre creato un gruppo composto da alti delegati finanziari, che propose un altro aumento delle quote dei paesi, pari al 25%, che venne eseguito nel 1966.

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