Cap. 4 Il sistema finanziario nazionale: l’egemonia americana (1939-1976)
Sommario
Il sistema finanziario internazionale dominato dall’egemonia di un solo Stato- nazione, gli Stati Uniti, fu, da una parte, l’esito della distruzione materiale e sociale di tutte le altre economie industrializzate avvenuta durante la Seconda guerra mondiale; dall’altra, fu il risultato della centralità data dalla nazione egemone al mercato dei beni, con la conseguente ricerca di un vantaggio nel governo mondiale delle risorse. Gli Stati Uniti attuarono le loro preferenze sia attraverso azioni costrittive, come l’intervento diretto sulle risorse, sulla produzione e sui consumi; sia con processi di socializzazione esterna, come la condivisione di norme, orientamenti e preferenze; sia di socializzazione interna, attraverso l’intervento nelle economie e nelle istituzioni degli altri paesi.
Nel sistema che prende vita con la Seconda guerra mondiale, quindi, la condizione di centro viene occupata da un solo Stato, quello egemone; mentre la periferia è costituita dalle economia di mercato del resto del mondo. Tale condizione, tuttavia, risulta del tutto vera se si osserva il carattere originale del sistema finanziario in sé, con il dollaro che venne imposto come moneta di riserva del mercato internazionale attraverso un trattato internazionale. Essa risulta, invece, parzialmente vera si guarda alle modalità operative, alle attività dell’insieme degli intermediari finanziari che costituiscono il sistema stesso.
L’egemonia americana risulta essere, in ultimo, vincolata, in quanto l’egemone finì per essere inevitabilmente parte del progetto da lui stesso disegnato.
Se inizialmente le preferenze statunitensi furono rivolte ad un’economia fondata su scambi multilaterali, tale scelta fu abbandonata quando emerse la fragilità post-bellica delle economie europee e asiatiche; ad essa, quindi, si sostituì dal 1947 un processo di socializzazione di norme, orientamenti e preferenze con le maggiori economie capitalistiche. Con il sostegno di Wall Street, la promozione del Piano Marshall e la creazione dell’OECE, l’egemonia americana si realizzò pienamente creando un sistema di embedded liberalism, che consentì all’egemone di avere meno di quanto avesse immaginato, ma più di quanto avesse potuto ottenere per mezzo di trattative istituzionali. Il disegno di egemonia vincolata ebbe nei cambi fissi, nel divieto della libera circolazione dei capitali e nella crescita dei settori finanziari lo strumento finalizzato alla crescita dei redditi: l’esito fu il grande aumento nel volume degli scambi sul mercato internazionale, guidato dagli Stati Uniti.
Il sistema descritto ebbe dunque nelle istituzioni definite negli accordi internazionali di Bretton Woos la sua principale cornice istituzionale e operativa:
esso si identificava con gli impegni di convertibilità valutaria e di stabilità finanziaria che con quegli accordi furono stabiliti tra gli stati aderenti. Non sorprende quindi osservare che esso andò rapidamente in frantumi quando quelle condizioni vennero meno. Quando cioè: la convertibilità delle valute in dollari e del dollaro in oro non fu più credibile a fronte del volume dei dollari e delle riserve disponibili; la crescita delle economie di mercato socializzate, quelle del G-7, divenne debole o assente; infine, quando il costo uniforme delle materie prime e dell’energia non fu più sottoposto ad un controllo egemonico in grado di fissarne il prezzo. Nel tempo, tale sistema finanziario viene scandito in due fasi diverse, che possono avere nel ritorno alla convertibilità delle valute europee del 1958 una linea discriminante: la prima, caratterizzata dalla convergenza dei redditi e dalla crescita, tra il 1947 e il 1958; la seconda, determinata da una divergenza nei redditi, dall’inflazione e, infine, dall’inconvertibilità, tra il 1959 e il 1976.
1. Economia monetaria e crescita dei redditi
1.1 I caratteri generali: coercizione e socializzazione
Etimologicamente, il termine egemonia sta ad indicare il potere di comando normalmente assegnato ad uno Sato all’interno di un’alleanza in termini militari, politici o economici. In questo senso, lo Stato egemone sarà quello in grado di imporre per mezzo di incentivi e sanzioni un ordinamento costrittivo nelle scelte degli altri Stati. In accordo con Max Weber, l’esperienza mostra che
«nessun potere può accontentarsi per sua volontà di fondare la propria permanenza su motivi esclusivamente affettivi o razionali rispetto al valore. Ogni potere cerca piuttosto di suscitare e coltivare la fede nella propria legittimità».
In riferimento al sistema finanziario internazionale successivo alla Seconda guerra mondiale, è immediato notare che l’azione egemone è stata esercitata dagli Stati Uniti: essi hanno, in primo luogo, attuato incentivi e sanzioni istituzionali con l’obiettivo di modificare le preferenze della classe dirigente dei paesi Alleati, durante il primo periodo post-bellico; successivamente, nel ventennio successivo, essi si sono incaricati di guidare quel processo di persuasione normativa che consentì agli stessi Stati Uniti, attraverso contatti culturali, incentivi materiali e minacce di sanzione, di ottenere legittimità nel comando. Questo processo di promozione e trasferimento della gerarchia dei valori propri dello Stato-nazione egemone viene definito dalla letteratura politica come socializzazione.
Le condizioni che permettono la realizzazione del processo di socializzazione sono essenzialmente tre. In primo luogo, esso è favorito da una precedente situazione di guerre e crisi politiche che portano ad avere una coincidenza tra instabilità internazionale e crisi di legittimità della classe dirigente nazionale. In secondo luogo, trattandosi di processo di trasferimento di valori, esso richiede una recettività delle élite politico-amministrative. In terzo luogo, infine, lo sviluppo della socializzazione tende a manifestarsi in seguito al momento di esercizio coercitivo del potere.
Coercizione e socializzazione portano agli stessi obiettivi e sono in molti casi difficilmente distinguibili su un piano politico, mentre lo sono sempre sul piano economico. La coercizione è identificabile con la manipolazione degli incentivi e delle sanzioni materiali applicate dallo Stato egemone; la socializzazione, invece, si materializza nella condivisione delle modalità di azione, nonché nella promozione dell’attività produttiva, dei consumi, delle tutele sociali dei diritti all’istruzione, alla salute e alla giustizia.
Concretamente, gli Stati Uniti hanno gettato le basi della propria egemonia attraverso i due mezzi della coercizione e della socializzazione nell’immediato secondo dopoguerra. Le modalità
con cui fu gestita la prassi affitti e prestiti tra gli Stati Uniti e i paesi Alleati dopo la fine del conflitto – si pensi in particolar modo al rapporto con la Gran Bretagna – , così come l’intervento di riorganizzazione delle strutture produttive e nelle modalità della rappresentanza politica dei paesi sconfitti – come la riorganizzazione economica e sociale della Germania e del Giappone – rappresentano il momento coercitivo. Nello stesso periodo, è possibile riscontrare il centro dell’azione di socializzazione nel disegno dell’economia internazionale di beni e capitali che si realizzò con gli accordi Bretton Woods. L’esito di queste azioni fu la creazione di un sistema finanziario nazionale dominato dall’egemonia finanziaria americana.
Quest’egemonia si realizza in primo luogo attraverso le condizioni di economia monetaria con cui gli agenti finanziari vengono portati ad operare. Si intende qui per economia monetaria quella di un sistema economico in cui la moneta è investita di un ruolo proprio che influisce sulle motivazioni e sulle decisioni degli agenti, diventando, in sintesi, uno dei fattori operativi; tanto che la conoscenza del comportamento della moneta risulta strumentale alla comprensione degli eventi.
Un’economia monetaria si realizza attraverso le seguenti condizioni. La prima è l’esistenza di un settore economico che ha un proprio ruolo, quello di intermediazione finanziaria, che consente la dissociazione tra risparmi e investimenti al fine di ottimizzare i due comportamenti. La seconda condizione è l’instabilità nel processo di accumulazione, in quanto non vi è sicurezza nella capacità di realizzare utili attraverso la propria attività produttiva in maniera continuativa. La terza è il condizionamento operato dal credito, ovvero dal costo e dal volume dell’offerta, sul processo di accumulazione di cui prima. La quarta condizione è costituita dalla relazione cumulata tra reddito e ricchezza.
Occorre sottolineare con forza che queste condizioni di
“economia monetaria” si applicano in modo pieno per la prima volta solo dopo gli accordi di Bretton Woods che possono ritenersi l’atto di nascita del fiat standard, ovvero della moneta legale, e con essa del nazionalismo monetario e del primato dato dalle autorità di governo agli equilibri sul mercato interno.
Fu infatti solo in seguito all’esperienza acquisita negli anni tra le due guerre che la pratica di una politica monetaria rivolta al controllo dei prezzi, alla tutela della legge della parità del potere di acquisto a livello internazionale fu abbandonata. In specie l’esperienza degli anni Trenta aveva portato alla condivisione di tre insegnamenti: a) il sistema dei pagamenti organizzato in gold standard comportava rigidità deflattive che accentuavano la condizione ciclica e comportavano danni rilevanti nei livelli di
produzione e occupazione; b) la scelta dei cambi flessibili non era sostenibile in quanto comportava una volatilità così marcata nei rendimenti e una incertezza così diffusa da determinare un freno agli investimenti; c) la crescita del livello tecnologico la politica economica dei governi ne comportava una necessario coinvolgimento nelle scelte di politica industriale e interventi nella attività produttiva.
Ne seguiva che in un sistema di cambi fissi, quale quello su cui ci si orienta nel secondo dopoguerra, i surplus, o deficit, che si determinano nel breve periodo negli scambi internazionali devono essere resi compatibili con gli equilibri interni dei mercati reali per mezzo di operazioni di sterilizzazione svolte dalle banche centrali.
Se questo non si verifica gli squilibri esterni si protraggono e inducono a processi di redistribuzione della ricchezza finanziaria netta verso i paesi in surplus, con conseguenti spinte inflattive verso i paesi in deficit strutturale, con l’accentuarsi della mobilità dei capitali e, in ultimo, con una generale crisi della stabilità del sistema stesso.
È questa la ragione per cui il sistema previde la creazione di uno specifico intermediario internazionale, il Fondo monetario, cui si attribuì un patrimonio di riserve composto da quote assegnate ai paesi aderenti attraverso trattative dominate dallo Stato-nazione egemone. Inoltre, al Fondo veniva demandata la possibilità di intervenire nelle politiche monetarie fiscali nazionali attraverso l’azione di prestiti, cioè contratti, internazionali, che come tali erano trasferimenti specifici di risorse a fronte di una cessione della sovranità nazionale per un determinato periodo di tempo.
Gli Stati Uniti, avendo la maggioranza delle quote del Fondo, avevano anche il maggior numero di delegati e riuscirono pertanto a utilizzare il fondo come una propria agenzia, uno strumento di socializzazione esterno attraverso l’accettazione delle norme. Il disegno delle regole – norme, orientamenti e preferenze – aveva quindi come obiettivo di fondo l’attuazione di un disegno di potenza nazionale e commercio estero degli Stati Uniti. In questo contesto, le norme costituiscono i principi generali su cui si basa una visione dell’ordine internazionale; gli orientamenti sono le scelte di comportamento che da quelle norme sono derivate; infine, le preferenze, in termini di prosperità, sicurezza o conoscenza, generano le sequenze di scelte che hanno fatto si che e le economie di mercato organizzate nel contesto di regole attuato dopo la secondo guerra mondiale siano state vincolate dalla condizione della potenza nazionale di un solo Stato.
Non vi era di fatto nessuna effettiva difficoltà tecnica nell’operare scelte cooperative – il piano Keynes prevendo una moneta internazionale come unità di conto, il bancor, fu un esempio chiaro di questo – ma esse furono respinte per costruire
un sistema di incentivi e sanzioni che consentisse alla nazione Stati Uniti di avere una efficace politica di potenza nazionale per mezzo della gestione delle modalità di esercizio del commercio estero e del sistema dei pagamenti. Il piano White nel disegno di Bretton Woods e del FMI ebbero nel piano Marshall il suo naturale punto di contatto per una compenetrazione tra economia finanziaria e economia reale.
La rapidità di crescita delle economie nazionali dei paesi industriali aderenti all’accordo, tuttavia, diede luogo già dai primi anni Cinquanta ad una condizione di egemonia vincolata.
Formalmente, il vincolo si esplicitava nell’obbligo statunitense di convertire in oro all’equivalenza di 35 dollari all’oncia, le quote in dollari detenute dalle banche centrali nazionale come base per la loro offerta di moneta. Quindi, questa condizione di riserva internazionale attribuita alla valuta di un solo paese andava a creare un sistema asimmetrico che dipendeva, quindi, dalla fiducia data al dollaro.
Essendo il dollaro e gli Stati Uniti al centro del sistema, essi erano l’unico paese che potevano utilizzare in modo autonomo la leva della politica monetaria. Tuttavia, questo privilegio era al tempo stesso un vincolo: gli Stati Uniti, infatti, perseguendo l’obiettivo di una sostenuta domanda internazionale di beni, furono costretti ad utilizzare la politica monetaria in funzione espansiva.
I due vincoli della parità di cambio e della politica monetaria espansiva garantivano un ordine economico internazionale che aveva come scopo principale quello di sostenere una continua crescita del volume di scambio internazionale dei beni reali, di cui gli Stati Uniti possedevano la quota maggioritaria.
Come mostra la figura 4.1, se la condizione economica del sistema si trova ad essere nel punto 2, a meno che non vi sia svalutazione e aumento del livello di spesa nazionale, l’equilibrio interno ed esterno non può essere raggiunto. La sola politica fiscale può raggiungere il punto 3; la sola svalutazione può raggiungere il punto 4.
FIGURA 4.1
La possibilità di creare condizioni di espansione produttiva, promuovendo una modifica coordinata delle condizioni di equilibrio sia sul mercato estero che su quello interno, così come indicato dalla figura 4.2, è resa possibile solo da un effetto espansivo di offerta di moneta consentito, di fatto, nel sistema di cambi fissi quale quello di Bretton Woods, al solo Stato-nazione che disponesse di una moneta avente ruolo sia di valuta domestica sia di riserva internazionale, ovvero gli Stati Uniti.
FIGURA 4.2
Sarà quindi la sola economia egemone a poter muovere in cambi fissi DD in funzione espansiva; normalmente una politica espansiva, come indica la figura 4.3, porterebbe ad una azione deflattiva e ad una sotto occupazione.
FIGURA 4.3
Sono queste le ragioni per cui si sono avute in tutto il periodo del sistema di Bretton Woods una molteplicità di svalutazioni e rivalutazioni da parte degli stati che non potevano contare su una politica monetaria autonoma.
FIGURA 4.4
E’ questa stessa ragione che ha poi portato ad un a condizione di vantaggi ripetuti nella svalutazione delle valute nazionali e nel permanere del dollaro ad una condizione centrale anche quando non ne aveva più la possibilità in termini di vantaggio nella produzione sul mercati reali dalla metà degli anni ’60.
Il vantaggio – necessariamente di breve periodo, se non si ricorre a svalutazioni, è evidenziato nella figura 4.5 e nella sua coordinata 4.5.1.
FIGURA 4.5
FIGURA 4.5.1
L’accumulazione repressa di svalutazioni e moneta chiave ha creato gli attacchi speculativi degli anni Sessanta e in ultimo le spinte dirompenti degli anni 70 che hanno portato alla fine del sistema.
1.2 – Le modalità operative
Dopo la Seconda guerra mondiale, il processo di costruzione dell’egemonia finanziaria statunitense passa attraverso l’imposizione di una cultura industriale e finanziaria in tutti i paesi che aderiscono al Piano Marshall. Questa cultura comportava una riorganizzazione dell’economia in unità istituzionali, classificate in settori secondo uno schema di contabilità nazionale uniformata agli standard statunitensi. In questo modo, veniva costruito, in ogni paese, un sistema di conti pubblici che consentiva una distribuzione delle risorse finalizzata a un percorso di crescita.
La teoria economica non consente di poter affermare in maniera certa che esista una relazione tra la dimensione del settore finanziario e una crescita dell’economia reale: l’evidenza empirica, invece, mostra l’esistenza di tale relazione. Quello che possiamo desumere dallo studio della contabilità nazionale, infatti, è che la moderna crescita economica è stata accompagnata, nelle prime fasi, da una più che proporzionale espansione della sovrastruttura finanziaria. Ciò suggerisce che questa espansione è una fase necessaria dello sviluppo di un Paese fino alla sua maturità, che si riflette in un indice di interrelazione finanziaria molto vicino ad 1:1.
La rilevanza di ogni specifico settore finanziario è data dalla diversa natura delle sue specifiche componenti, ovvero principalmente banche, assicurazione, borse valori e altri intermediari finanziari. Un indicatore di tale incidenza è dato dalla loro quota nelle attività finanziarie totali. Tale quota è cresciuta costantemente in tutte le economie di mercato. Uno studio dei cambiamenti dei bilanci nazionali mostra che la composizione e il peso delle voci di bilancio ha subito variazioni, tuttavia non in maniera sostanziale.
La crescita del settore finanziario in ogni singolo paese è stata strumentale, da una parte, alla crescita del Pil dei diversi paesi;
dall’altra, alla diffusione dell’egemonia statunitense nel periodo successivo alla guerra: attraverso il settore finanziario, infatti, l’attività produttiva nazionale veniva promossa in equilibrio con il cambio internazionale. Questo equilibrio è dato dall’equivalente tra la base monetaria e il valore di cambio, ottenendo come risultato finale che il mercato internazionale cresca molto di più dei singoli mercati nazionali.
2. Guerra ed egemonia
La guerra ebbe ripercussioni, diverse per modalità, caratteristiche ed intensità, su tutte le aree del mondo. Come già nella Prima guerra mondiale, ma con maggiore forza, gli Stati Uniti videro accrescere enormemente il proprio potere economico, sia a livello assoluto che in relazione agli altri paesi. Già prima dell’entrata in guerra nel dicembre del 1941, l’occupazione e il reddito statunitensi aumentarono in conseguenza delle necessità di approvvigionamento degli eserciti e della popolazione europei. In generale, considerando il periodo che va dal 1939 al 1944, il prodotto interno lordo americano crebbe del 150% mentre la
produzione industriale aumentò del 300%. La guerra giocò ovviamente un ruolo chiave in questo processo di crescita, facendo aumentare la produzione a fini bellici dal 2% del totale nel 1939 fino al 40% registrato nel 1943. Per avere un quadro generale della netta superiorità della produzione industriale statunitense, soprattutto di materiale bellico, basti pensare che, nel 1944, essa costituiva il 40% della produzione mondiale di armamenti, mentre già nel 1942 gli Stati Uniti da soli producevano più armi di tutti i paesi dell’Asse.
La crescita della produzione americana ebbe effetti anche sull’occupazione, che fece registrare un aumento di 19 milioni di posti di lavoro nel periodo 1941-1944, nonché dei consumi, che crebbero, nello stesso periodo, del 12%. Tutti i settori dell’industria americana trassero qualche vantaggio dallo stato di guerra anche se le industrie degli armamenti furono, ovviamente, quelle maggiormente avvantaggiate. In questi settori si registrarono anche i maggiori avanzamenti di sviluppo tecnologico, che sarebbero stati poi alla base delle produzioni post-belliche di automobili, aerei, lavorazione dei metalli, nonché delle industrie del settore metallurgico, chimico e elettrotecnico. In generale, l’industria americana sperimentò un’espansione tecnologica e produttiva senza precedenti, raggiungendo, da una parte, un’altissima efficienza – efficienza, tra l’altro, che si accompagnò ad una concentrazione nelle grandi industrie, provocando parallelamente la crisi della piccola e media impresa – e, dall’altra, diffondendosi anche nelle aree in precedenza quasi interamente rurali, come quelle dei vasti stati dell’ovest e del sud degli Stati Uniti.
La guerra generò inoltre cambiamenti in altre zone del mondo.
Uno dei più macroscopici dal punto di vista economico avvenne in conseguenza dell’invasione tedesca della Francia, che si concluse con l’ingresso a Parigi delle truppe della Wehrmacht nel giugno del 1940. L’occupazione ebbe costi altissimi per i francesi. La politica del Terzo Reich, infatti, fu quella di impiegare massicciamente le risorse dei territori occupati per finanziarie sia le truppe sul territorio, sia l’espansione produttiva in patria.
È stato calcolato che durante il periodo bellico i trasferimenti finanziari che la Germania nazista estorceva ai paesi conquistati ammontavano all’incirca al 40% del totale del gettito fiscale tedesco. In questo senso la Francia fu il paese maggiormente colpito, dovendo versare una somma pari a circa di 20 milioni di Reichsmark al giorno per un totale, tra il 1940 e il 1944, di oltre 600 miliardi di franchi ad una parità, fortemente sopravvalutata, di 20 franchi per marco. Per rendere l’idea dell’enorme ammontare dei pagamenti francesi nel periodo di occupazione tedesca, si calcola che il totale dei costi sostenuti nel solo 1943 fosse pari a circa il 9% del prodotto interno lordo tedesco. Questa percentuale,
tra l’altro, era addirittura minore della media calcolata dei prelievi di tutti i territori occupati nel periodo 1940-1944, che ammontava al 14% del prodotto interno lordo della Germania nazista di quegli anni. Tali cifre escludono i vantaggi che le aziende tedesche si garantivano mediante le confische di macchinari, territori e intere aziende, nonché attraverso l’impiego, a condizioni quasi di schiavismo, di lavoratori dei paesi occupati. A tal proposito, è noto l’esempio della I.G. Farben, un’industria chimica tedesca che, impiegando manodopera dei territori conquistati in condizione di schiavitù – è stato calcolato che l’aspettativa di vita in un campo di lavoro della I.G. Farben era all’incirca di tre mesi –, riuscì ad aumentare la sua produttività in un ambito multinazionale.
Deve essere in ogni caso segnalato che le esperienze sotto l’occupazione nazista furono diverse a seconda dei paesi presi in esame: ad esempio, la Norvegia fu destinataria di investimenti nel settore petrolifero e idroelettrico – due centrali idroelettriche vennero completate in questi anni con denaro tedesco – , anche se il prodotto nazionale norvegese decrebbe con il passare degli anni in quanto il paese venne coinvolto con intensità crescente negli sforzi per sostenere lo sforzo bellico tedesco. D’altronde, era questo un destino comune a tutti i paesi alleati della Germania – come ad esempio Finlandia, Ungheria, Romania e Bulgaria – che, a mano a mano che la guerra procedeva, venivano sempre più sfruttati per finanziare la macchina bellica nazista. Il Belgio e l’Olanda subirono, anche se con minor intensità, lo stesso destino della Francia, essendo costretti a pagare quotidiani pagamenti verso la Germania, mentre i paesi che soffrirono le conseguenze più drastiche dell’occupazione furono certamente quelli orientali, come la Cecoslovacchia e la Polonia, le cui risorse – in primis umane, ma anche industriali e delle materie prime – vennero sfruttate indiscriminatamente, facendo crollare la propria capacità produttiva.
Anche l’espansione in oriente del Giappone aveva radici economiche, che possono essere individuate nell’esclusione del paese nipponico dai grandi blocchi commerciali degli anni Trenta, ed ebbe, nel periodo post-bellico, notevoli conseguenze sul piano dell’organizzazione internazionale dei commerci. La principale preoccupazione delle autorità giapponesi, decisiva nel trascinare il paese in guerra, fu la necessità di conquistare approvvigionamenti di materie prime e combustibili, nonché di creare mercati protetti per le merci giapponesi. La guerra si risolse, però, in un disastro per il Giappone, soprattutto in relazione alle infrastrutture, alla capacità industriale e alla flotta mercantile: si calcola, infatti, che alla fine del conflitto la marina americana aveva distrutto l’88% dei 6,5 milioni di tonnellate del naviglio mercantile nipponico.
Il conflitto ebbe conseguenze economiche anche nei paesi non direttamente interessati dai combattimenti. L’india, ad esempio,
riuscì a ricavare qualche piccolo vantaggio, anche se dato lo scarso livello tecnologico di partenza questi non poterono essere rimarchevoli. Tuttavia, qualche effetto industrializzante si ebbe nei settori delle munizioni, delle costruzioni navali e della meccanica, soprattutto in relazione alle commesse britanniche. Anche nei paesi latino-americani il secondo conflitto mondiale portò alcune conseguenti di una certa importanza. Questi paesi divennero dei grandi fornitori di materie prime per gli Stati Uniti, accumulando riserve di dollari e aumentando la propria quota di esportazioni mondiali, che passò dal 7,8% del 1938 al 13,4% registrato nel 1946.
In conseguenza della mancanza di rifornimenti da parte dei tradizionali partner europei, aumentò anche l’interscambio commerciale tra gli stessi paesi del Sud America.
Tra i paesi europei impegnati nel conflitto, dopo la caduta della Francia nell’estate del 1940, la Gran Bretagna si ritrovò da sola a fronteggiare l’offensiva tedesca. Tuttavia, per quanto la produttività inglese crebbe durante il conflitto, essa non riuscì né a sostenere i ritmi delle necessità belliche, né a raggiungere i livelli degli Stati Uniti, i quali, grazie al progresso tecnologico fatto registrare, riuscivano ad occupare una quota minore di manodopera nel settore delle industrie di materiale bellico e nelle stesse forze armate. Gli Stati Uniti, come nella Prima guerra mondiale, accorsero così in aiuto dei paesi alleati. Tuttavia la novità delle modalità di finanziamento delle spese belliche dei paesi europei, e della Gran Bretagna in particolar modo, fu che questi non furono erogati come prestiti o anticipazioni ma presero la forma di forniture di materiali e beni alimentari, come ad esempio munizioni e alimenti conservati, ai paesi che erano in guerra contro l’Asse. L’accordo cosiddetto Leand-Lease – affitti e prestiti – trasferì all’Impero britannico un totale di beni e servizi che ammontava all’incirca al 5% del reddito nazionale statunitense, mentre all’inizio del 1945 il totale dei rifornimenti di ogni genere ai paesi europei in guerra contro il nazi-fascismo, inclusa, dopo il 1941, anche la Russia sovietica, ammontava a 5.000 milioni di dollari. In cambio delle forniture americane ad un prezzo vantaggioso, che sarebbe stato possibile saldare al termine del conflitto, i riceventi degli aiuti accettavano, come specificato dall’articolo VII del Lend- Lease Agreements, di partecipare insieme agli Stati Uniti alla ricostruzione di un sistema commerciale aperto e multilaterale, rinunciando agli accordi commerciali bilaterali e accettando di rimuovere barriere doganale e quote discriminanti.
La guerra determinò una generale sofferenza delle borse mondiali, provocando un generalizzato declino degli affari e una mobilitazione delle risorse che, come abbiamo visto, veniva gestita quasi totalmente dagli Stati. Da questo punto di vista, in realtà, la situazione si presentava in forma diversa rispetto a quella della Prima guerra mondiale, in quanto il controllo statale sulle attività finanziarie e sui trasferimenti di risorse a fini bellici era
decisamente più forte, riducendo così le opportunità per banchieri e finanzieri di ricavare guadagni dalle diverse transazioni.
Sulla piazza di Wall Street, come tra l’altro nella City di Londra, vi fu un ridimensionamento, come detto, delle attività finanziarie internazionali. Soprattutto nel primo periodo del conflitto vi fu una forte decrescita del numero delle imprese quotate sulla piazza newyorchese, il cui valore era fortemente influenzato dagli eventi bellici e dalle notizie che circolavano. Ad esempio, i prezzi medi delle azioni aumentarono del 10% nel settembre del 1939, in quanto ci si aspettava molti profitti da parte delle aziende americane in seguito alle commesse di guerra di Gran Bretagna e Francia, poi caddero del 20% nel maggio-giugno del 1940 in seguito all’invasione tedesca della Francia e poi continuarono a decrescere costantemente fino all’aprile del 1942, quando raggiunsero un livello che era del 40% inferiore di quello registrato prima dell’inizio della guerra. La svolta si ebbe il 28 aprile del 1942, quando Roosvelt annunciò misure di razionamento e prezzi amministrati, allontanando in tal modo le paure dell’inflazione e permettendo una ripresa degli investimenti in borsa, tanto che nel settembre del 1945 i prezzi medi a Wall Street erano già raddoppiati.
Tra le conseguenze del conflitto vi fu la crescita dell’importanza del Federal Reserve Board di Washington, a scapito di quello di New York che, come visto, era invece stato l’attore principale della politica finanziaria americana negli anni Trenta. In questo nuovo contesto il tasso di sconto fissato all’1% nel 1937 fu mantenuto per tutta la durata della guerra, favorendo il finanziamento di un debito pubblico statale che passò, nel periodo 1941-1945, da 48 milioni di dollari a 260 per affrontare le spese di guerra. Le banche d’investimento furono largamente coinvolte nel collocamento dei titoli del Tesoro, che emise sette prestiti di guerra negli anni considerati, ma ricavarono pochissimi guadagni da tale coinvolgimento, mentre i titoli emessi dalle imprese private si dimezzarono tra il 1941 e il 1943 per poi aumentare nuovamente solamente negli ultimi due anni del conflitto.
Seguendo un trend che sarebbe stato poi istituzionalizzato largamente nel secondo dopoguerra, in Gran Bretagna la geometria decisionale in materia finanziaria e monetaria si spostò, durante la guerra, nettamente in favore della politica e quindi del Tesoro, con una riduzione dell’incidenza delle decisioni della Banca d’Inghilterra, che divenne il braccio esecutivo del governo in materia monetaria, svolgendo anche funzioni di intermediario con la City e con le banche commerciali. Queste ultime furono tra le banche che superarono con più facilità il periodo di guerra proprio grazie all’intervento dello Stato che, da una parte, era diventato il loro maggior cliente – nell’agosto del 1945 i depositi della Midland Bank, ad esempio, erano costituiti per l’82% da titoli governativi –;
e dall’altra ne indirizzava le attività con istruzioni precise su come impiegare le proprie risorse.
Come negli Stati Uniti, tuttavia, il volume d’affari della borsa di Londra si ridusse enormemente, contraendosi circa dell’80% tra il 1939 e il 1941, per poi riprendersi, in parallelo con Wall Street, dal 1942 in poi. I corsi azionari infatti seguirono le vicende belliche, toccando il punto più basso nel 1940 quando la città era sotto i bombardamenti tedeschi e circa un terzo della City era in rovina.
Con il lento volgere della guerra a favore degli Alleati, anche i titoli azionari recuperarono il proprio valore, con l’indice industriale che passò da 79,7 alla fine del 1941, a 93,7 nel 1942 ed infine a 103,1 registrato il 31 dicembre 1943, con un guadagno sul prezzo minimo toccato nel 1940 pari al 60%.
Tra le grandi piazze finanziarie mondiali la situazione più drammatica era, per le ripercussioni delle vicende belliche e l’invasione tedesca, sicuramente quella di Parigi. Dopo l’occupazione delle truppe naziste, i pagamenti a cui la Francia era stata imposta venivano gestiti dalla Banca di Francia e dal suo governatore Yves de Boisanger, che aprì un conto presso la Reichskreditkasse sul quale il Tesoro era costretto a versare ogni dieci giorni una rata di 4 miliardi di franchi. Fino all’aprile del 1942 timide trattative vennero portate avanti per tentare di ridurre tale cifra: questi tentativi, però, cessarono del tutto quando Pierre Laval ridivenne Primo ministro di Vichy, appunto nell’aprile del 1942, inaugurando una politica pienamente collaborativa con gli occupanti, senza nessuna preoccupazione per le possibili tendenze inflazionistiche, che portò ad un aumento dei prezzi pari all’88% di quelli registrati prima del conflitto. L’inflazione, però, contribuì d’altro canto a sostenere le attività della borsa di Parigi che, grazie all’abbondanza di liquidità, vide crescere le operazioni in maniera vertiginosa a partire dal 1941, quando si registrò un aumento dei prezzi medi delle azioni del 300%.
Le grandi banche attraversarono, come del resto in tutti gli altri paesi, un periodo di grande difficoltà, a causa della diminuzione delle operazioni di cambio e del finanziamento del commercio internazionale, che si fece decisamente scarso. In questo contesto, in Francia, cominciò a diffondersi l’abitudine di saldare le diverse transazioni in contanti, colpendo in tal modo le operazioni di sconto. Come altrove, crebbe il volume delle obbligazioni del Tesoro – che in Francia doveva, come ricordato, anche sostenere l’onere degli enormi pagamenti verso la Germania – , crescendo parallelamente anche la percentuale delle obbligazioni possedute dalle grandi banche: ad esempio, nel 1945, il Crédit Lyonnais aveva un portafogli costituito per il 90% da obbligazioni del Tesoro. Tra le banche private, seguendo una politica inaugurata nella Germania nazista, quelle di proprietà ebraica furono quelle che subirono maggiormente dell’occupazione tedesca e, in particolar modo, delle
politiche anti-semite che il governo di Vichy perseguiva. Il Comité d’Organisation des Banques, nel 1940, identificò 30 case bancarie come ebraiche, chiudendole, come nel caso della Lazard Frères, arianizzandole oppure, come accadde alle proprietà dei Rotschild, confiscandole.
La situazione delle istituzioni finanziarie italiane durante la guerra è una delle più peculiari nell’intero panorama mondiale, soprattutto per via delle vicende belliche. Nella prima fase della guerra, ovvero tra il 1939 e il 1942, la politica monetaria e finanziaria condotta dal governo e dalla Banca d’Italia ricalca sostanzialmente quelle degli altri paesi, orientandosi verso il finanziamento della guerra e mettendo in campo strumenti finanziari per tentare di mantenere quanto più possibile una stabilità dei prezzi, che crebbero del 52%, cioè in media con gli altri paesi europei tranne, come s’è visto, la Francia, e in realtà la Germania, dove un ferreo controllo dell’economia e lo sfruttamento dei territori occupati aveva permesso un’inflazione pari solamente al 6,4%.
Il drastico andamento della guerra italiana e i bombardamenti alleati dell’autunno del 1942 fecero però sì che il paese entrò in una vera e propria crisi, inaugurando una situazione che divenne drammatica quando, con l’armistizio dell’8 settembre del 1943, il paese si spezzò in due, perdendo praticamente la propria autorità monetaria sul territorio. Sia nei territori sotto il governo alleato al sud, che in quelli sotto il controllo tedesco al nord, si sperimentarono forme inflazionistiche: da una parte, al sud, esse erano dovute all’emissione delle cosiddette «am-lire» e alla totale assenza di qualsiasi controllo monetario su gran parte del territorio, dove i combattimenti distruggevano anche gran parte delle attività produttive e delle infrastrutture; al nord, invece, la Banca d’Italia, ancora formalmente autonoma sotto il governatorato di Vincenzo Azzolini, era costretta a stampare moneta per pagare le forze di occupazione tedesche. Come conseguenza, tra il 1942 e il 1945, la circolazione monetaria complessiva, sia al nord che al sud, aumentò di 4,9 volte, mentre i prezzi all’ingrosso furono maggiori di 13,5 volte e il costo della vita aumentò di 14,7 volte. Tra il settembre del 1943 e la liberazione di Roma del giugno 1944, ma in realtà fino alla conclusione del conflitto e la caduta di Hitler, la situazione italiana rimase molto difficile e caratterizzata da una enorme inflazione.
Tra le piazze finanziarie che videro accrescere la propria importanza nel corso del conflitto ci fu certamente la Svizzera, soprattutto in virtù del fatto che la sua valuta, il franco svizzero, fu l’unica tra quelle europee che rimase convertibile in oro per tutta la durata della guerra, facendone una moneta molto ricercata. La Germania nazista, ad esempio, usava la piazza finanziaria svizzera per vendere oro contro franchi, impiegando poi questi ultimi per
rifornirsi di materie prime di primaria importanza per la conduzione delle operazioni militari, come il petrolio e il tungsteno, dai paesi neutrali quali la Spagna, il Portogallo o la Turchia.
L’accresciuto controllo politico delle attività finanziarie determinò, anche in Svizzera, una diminuzione delle attività e quindi dei profitti delle banche. Tuttavia, le banche svizzere continuarono a fornire servizi creditizi a molte aziende e banche tedesche:
importante erano infatti i rapporti tra la Crédit Suisse e la Deutsche Banke e tra la Société de Banque Suisse e la Dresdner Bank, ma non possono essere trascurate anche le quote di investimenti svizzeri in grandi imprese come la già citata I.G.
Farben. 2
3. Regolamentazione e crescita
Il sistema monetario post-bellico cominciò a nascere dalla stessa esperienza del conflitto, tanto che già durante il medesimo Stati Uniti e Gran Bretagna iniziarono a porre i primi mattoni di quell’edificio finanziario internazionale che sarebbe stato formalizzato a Bretton Woods nel luglio del 1944. Con la firma della Carta Atlantica nell’agosto del 1941 e il Mutual Aid Agreement del febbraio del 1942, le autorità inglesi e americane si accordavano infatti su alcuni principi di base che avrebbero poi costituito le basi su cui costruire i futuri accordi: se, da una parte, gli inglesi accettarono di ripristinare la convertibilità della sterlina e di rinunciare alle preferenze tariffarie imperiali fissate dalla conferenza di Ottawa del 1932; dall’altra gli americani promisero di continuare gli aiuti finanziari da destinare alla ricostruzione anche dopo la cessazione delle ostilità, nonché a rispettare la priorità che le autorità britanniche, nella ormai piena accettazione delle teorie keynesiane, davano alle politiche del pieno impiego.
Risulta essenziale sottolineare, però, come vedremo a breve, che il quadro di accordi che prese vita a Bretton Woods non funzionò, in realtà, secondo le modalità decise nel luglio del 1944, ma fu orientato in maniera progressiva dagli Stati Uniti a favorire un processo di socializzazione, orientato in due modalità: nella forma esterna di cooperazione istituzionale internazionale e in vincoli normativi scaturiti da questi incontri; e nella forma interna di omogeneizzazione dei diversi settori dei sistemi economici raccordati in schemi di contabilità nazionale. Il sistema dell’egemonia statunitense entrò progressivamente in vigore negli anni Cinquanta, culminando con la fissazione delle parità tra le valute aderenti al sistema decisa nel 1958, ed iniziando la sua crisi dagli inizi degli anni Sessanta in seguito ai mutati equilibri produttivi e commerciali tra i maggiori paesi industrializzati.
La cultura economica e finanziaria delle autorità americane e inglesi che gestirono i negoziati e determinarono le specifiche del
sistema monetario internazionale del secondo dopoguerra – guidate da un lato da Harry D. White e dall’altro da John M. Keynes, che furono anche gli estensori dei due piani su cui si fondarono le trattative – era profondamente influenzata dalle vicende che avevano caratterizzato gli anni tra le due guerre mondiali, con particolare riferimento all’esperienza degli anni Trenta. La percezione degli errori commessi nel periodo precedente al 1939 portò alla consapevolezza di dover costruire un edificio internazionale che garantisse stabilità nei tassi di cambio, pieno impiego all’interno delle economie nazionali e cooperazione internazionale. Gli errori commessi nel periodo tra le due guerre, che avevano impedito la crescita economica internazionale, erano riconducibili ad una triade di elementi: il gold exchange standard; i tassi di cambio variabili e le svalutazioni competitive; infine, il ruolo dello Stato nell’economia.
Il gold standard, nella nuova forma che esso aveva preso a partire dalla conferenza di Genova, era durato, di fatto, solamente sei anni, a partire dal ritorno alla parità aurea della sterlina nel 1925 fino alla sospensione della medesima nel 1931. Esso era giudicato adesso come un sistema obsoleto: un meccanismo farraginoso perché troppo rigido e non adatto a sostenere la nuova organizzazione economica e produttiva mondiale. Soprattutto, come si è visto, il gold exchange standard permetteva un’allocazione asimmetrica delle riserve auree: gli Stati Uniti e la Francia, da soli, avevano accumulato nel 1924 il 53% dell’oro mondiale, mentre la continua fuoriuscita di oro dalla Gran Bretagna aveva costretto quest’ultima, per poter rimanere in regime di parità, a contrarre la propria offerta monetaria. La libera fluttuazione dei cambi secondo le forze di offerta e domanda si era dimostrata altrettanto decisiva nell’instabilità economica mondiale degli anni Trenta, permettendo il perseguimento di politiche monetarie definite di beggar-thy-neighbour, mirate quindi ad ottenere un vantaggio competitivo mediante svalutazioni competitive, come ad esempio quella serie inaugurata dalla svalutazione della sterlina nel 1931. I cambi fluttuanti, inoltre, lasciavano un ampio spazio ai flussi di capitali speculativi, che si muovevano tra le valute al solo scopo di trarne un vantaggio, appunto, speculativo, come insegnava la vicenda del franco nel periodo 1922-1926.
L’ultimo elemento, la concezione del ruolo dello Stato, dipendeva molto dalle teorie keynesiane, ora in fase di piena affermazione, e dall’esperienza bellica, che nuovamente, come nella Prima guerra mondiale, funzionò quasi come esempio virtuoso di gestione finanziaria. Si postulava così, a Bretton Woods, il passaggio dell’intervento statale da un piano microeconomico ad un piano macroeconomico, con notevoli conseguenze sulla politica monetaria e soprattutto sul ruolo delle banche centrali all’interno di un complesso sistema politico di gestione dell’attività economica. Se in
precedenza, in funzione del gold standard e poi nella speranza di un suo ripristino, la banca centrale aveva svolto il ruolo centrale di operatore di una politica monetaria che doveva essere indipendente al potere politico centrale, ora, dato che la stessa politica monetaria si inseriva in un quadro più ampio di iniziative nel quale, ad esempio, la parte maggiore veniva svolta dalla politica fiscale, anche la banca centrale si trovava in una posizione di comprimaria, subordinata al resto delle scelte di politica economica del governo.
In questo modo, seguendo un trend in corso fin dagli anni Trenta e che prosegue negli anni post-bellici, si va incontro ad un’ampia nazionalizzazione degli istituti bancari centrali: tra il 1936 e il 1945 vengono nazionalizzate le banche centrali di Danimarca, Canada e Nuova Zelanda; dopo la conclusione della guerra, è il turno dei maggiori paesi industrializzati, come la Francia, la Germania, il Regno Unito e i Paesi Bassi. Le uniche banche a non essere nazionalizzate tra i paesi più importanti furono la Fed americana e la Banca d’Italia, anche se entrambe nei loro statuti, incorporavano già forti elementi di indirizzo nel perseguimento del benessere collettivo: la Fed aveva ricevuto questo indirizzo fin dalla sua fondazione nel 1913, mentre la Banca d’Italia si era vista rafforzare le caratteristiche di istituto con finalità di interesse pubblico con la legge bancaria del 1936, che, senza alterare l’assetto proprietario, aveva trasformato l’istituto in un ente di diritto pubblico con divieto di avere rapporti creditizi con una clientela non bancaria.
Questo processo di nazionalizzazione delle banche si inseriva in un contesto di cultura economica sorretto da una idea, largamente condivisa, secondo la quale la politica del tasso di sconto, che era stata il principale strumento di politica monetaria della banche centrali fino a tutta la Prima guerra mondiale, dispiegasse i propri effetti sulla domanda aggregata con troppo ritardo. Assumendo un ruolo ancillare, quindi, gli istituti centrali avevano il compito di mantenere i tassi ai livelli minimi in compatibilità con l’equilibrio esterno, mentre sarebbe stata la politica fiscale a controllare l’andamento della domanda. In questo contesto, anche gli strumenti a disposizione delle diverse banche centrali stavano cambiando, seguendo un processo già in corso fin dagli anni Trenta che si dispiegò poi pienamente nel secondo dopoguerra. Un breve salto indietro nel tempo aiuta a comprender lo sviluppo dell’utilizzo dei banchieri centrali delle operazioni di mercato aperto e, in seguito, della regolamentazione della riserva obbligatoria quali strumenti volti al controllo della base monetaria.
Fin dall’inizio del Novecento le operazioni di sconto presso le banche centrali erano andate esaurendosi, soprattutto in conseguenza del processo di concentrazioni bancaria che aveva dato vita a grandi istituti strutturalmente liquidi, in grado di soddisfare le esigenze della clientela senza ricorrere allo sconto
delle cambiali presso la banca centrale. Con la Prima guerra mondiale si affermò, poi, un nuovo strumento finanziario, ampiamente utilizzato proprio per finanziare, come visto nel capitolo precedente, le necessità belliche: il buono del Tesoro.
L’abbondanza di questi titoli di Stato, che le banche centrali erano state costrette ad acquistare per finanziare il conflitto, fecero si che nel primo dopoguerra ci fu una certa sfiducia in operazioni di mercato aperto, nelle quali gli istituti centrali vendevano e compravano titoli direttamente sul mercato, portando all’inserimento negli statuti ad esempio della Reichsbank e della Banca di Francia del divieto di effettuare tali operazioni.
Tuttavia, operazioni di mercato aperto furono sperimentate con successo dalla Fed all’inizio degli anni Trenta con lo scopo primario di accrescere la liquidità di un sistema bancario in grande difficoltà. Queste pratiche vennero adottate, nello stesso periodo, anche dalla Banca d’Inghilterra e, su questi esempio, si verificò un’inversione di tendenza: in questo senso i divieti ad intraprendere questo tipo di operazioni furono rimossi dai regolamenti della Reichsbank nel 1933 e della Banca di Francia nel 1938, portando gli acquisti e le vendite sul mercato aperto a diventare, già alla fine della Seconda guerra mondiale, uno dei principali strumenti per controllare la liquidità dei sistemi bancari.
Il livello di riferimento adottato per calcolare la base monetaria, e quindi per regolare le varie operazioni di compravendita sul mercato aperto da parte delle banche centrali, era il livello delle riserve delle banche. Regolamentando con un’apposita normativa, inaugurata nel 1933-1935 negli Stati Uniti e poi applicata anche in altri paesi, la riserva obbligatoria delle banche, che doveva essere versata dalle medesime nelle casse della banca centrale, questa diventava uno strumento di politica monetaria. Negli anni subito precedenti e immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, tali principi vennero recepiti dalle normative bancarie di un gran numero di paesi: prima della guerra si affermarono in Messico, Svezia, Austrialia, Nuova Zelanda, Ecuador e Costa Rica;
in Italia essa venne introdotta da Luigi Einaudi nel 1947, mentre nel Regno Unito, tradizionalmente refrattario ad una regolamentazione scritto, il nuovo strumento fu applicato con un tipico comunicato della Banca d’Inghilterra che annunciava un accordo interbancario in materia.
In questo modo le banche centrale nazionalizzate venivano inserite, con nuovi meccanismi d’intervento, all’interno di una pletora di strumenti economici e monetari nelle mani delle autorità politiche. Veniva istituzionalizzato, nel secondo dopoguerra, uno dei concetti chiave del nascente sistema di Bretton Woods:
l’indipendenza della conduzione della politica economica nazionale, con il fine ultime di perseguire la crescita economica e il pieno impiego, in un quadro di cooperazione monetaria basato su una regolamentazione internazionale. Questa regolamentazione fu il
frutto, come accennato, di un negoziato tra i due principali paesi usciti vincitori dalla guerra: gli Stati Uniti, ormai esplicitamente la maggiore potenza industriale del mondo, e il Regno Unito.
Una asimmetrica mediazione tra i due progetti presentati da Keynes, in rappresentanza britannica, e da White per gli americani, che tendeva comunque a favorire la visione degli Stati Uniti, presero una prima forma nel Joint Statement by Experts on the Establishment of an International Monetary Fund, che divenne la bozza di lavoro principale per la stesura degli Articles of Agreement of the International Monetary Fund siglati il 22 luglio del 1944. Due erano le nuove istituzioni che venivano fondate: il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo, nota in seguito come Banca Mondiale.
Gli obiettivi principali del Fondo, come dichiarato dall’Articolo I (Purposes), dovevano essere: la promozione della cooperazione monetaria internazionale; la facilitazione della crescita economica e del raggiungimento del pieno impiego, nel rispetto dell’autonomia macroeconomica dei paesi aderenti; il mantenimento di tassi di cambio stabili al fine di evitare svalutazioni competitive, che avrebbero depresso il commercio internazionale; la creazione di un sistema di pagamenti multilaterali e la rimozione di barriere doganali o flussi di commercio discrezionali.
Se i piani di Keynes e White prevedevano, da una parte, il ripristino di un sistema di cambi variabili e, dall’altra, la costruzione di una struttura a cambi fissi, l’accordo che venne raggiunto fu quello di un sistema di cambi fissi all’interno del quale venivano però previsti degli aggiustamenti anche sostanziali. Il riferimento monetario internazionale diveniva il dollaro, la moneta del paese vincitore e della maggiore economia mondiale, unica valuta convertibile in oro alla parità in vigore il 1 luglio del 1944, ovvero di 35 dollari per oncia, il valore, cioè, a cui era stato ancorato il dollaro nel 1934. L’articolo IV degli accordi di Bretton Woods (Obligations Regarding Exchange Arrangements) prevedeva che, su questa base di riferimento, le altre valute avrebbero dovuto dichiarare il proprio tasso di cambio con il dollaro e mantenerlo nel corso del tempo con un margine di variazione dell’1% al di sopra o al di sotto del livello stabilito.
Tuttavia, gli accordi prevedevano un ampio margine di manovra per le autorità monetarie dei vari paesi aderenti, in quanto si concedeva, come dettato dall’Articolo XX (Final Provisions), la facoltà di cambiare la parità stabilita fino al 10% del valore originale in caso di squilibrio fondamentale della bilancia dei pagamenti. Tale modifica poteva essere applicata senza ricorrere all’approvazione diretta da parte del Fondo, che sarebbe stata invece decisiva nell’approvare modifiche maggiori del 10%. Se, quindi, all’apparenza Bretton Woods sembra essere un sistema di cambi fissi tra le valute aderenti, esso nasconde invece degli
accordi secondo i quali le valute potevano, come detto, fluttuare, portando l’architettura monetaria decisa nel 1944 ad assomigliare più ad una griglia di cambi fissi aggiustabili pensati per divenire un momento di coordinamento delle future fluttuazioni valutarie.
Inoltre, è interessante sottolineare come in tutti i trentuno articoli che componevano gli accordi d’istituzione del Fondo Monetario Internazionale non vi era mai specificato cosa gli estensori del piano intendessero per «squilibrio fondamentale»; anzi, come ricordato in seguito dallo stesso White, vi fu un generale accordo circa l’impossibilità di enunciare una definizione soddisfacente di tale dicitura. La mancata definizione dei parametri che avrebbero consentito una svalutazione valutaria rispondeva alla necessità di non fissare delle rigidità che avrebbero poi ristretto i margini di manovra delle autorità monetarie nazionali in caso di necessità di modifiche delle parità valutarie pattuite.
Un altro tassello, quindi, andava a costruire l’edificio di Bretton Woods come struttura di regolamentazione sovranazionale di autonomie nazionali. Contemporaneamente, un ulteriore elemento veniva introdotto al fine di segmentare maggiormente le economie nazionali: partendo dal presupposto che le autonomie politiche dei paesi membri non sarebbero potute risultare efficaci se si fosse lasciato libero corso alla mobilità internazionale dei capitali e alle conseguenti azioni speculative destabilizzanti, vennero attribuiti controlli sulle transazioni valutarie, come prescritto dall’Articolo IV.3 (Surveillance Over Exchange Arrangements). Vale la pena ricordare che se prima della crisi del 1929 e della conseguente Grande depressione tali controlli sarebbero stati considerati una violazione delle regole fondamentali del gioco economico, sull’esperienza degli anni Trenti tali controlli diventarono la regola, formalizzata, appunto, dalla conferenza di Bretton Woods.
Quello che venne disegnato fu quindi un assetto monetario in cui l’ammontare del circolante delle diverse valute, ad eccezione del dollaro, non avrebbe più dovuto essere determinato dalla quantità di oro posseduta. Per quanto il secondo dopoguerra sia stato il periodo di maggior sviluppo e benessere economico mai registrato dalle economie occidentali, va sottolineato che tale successo non può essere attribuito all’ordine monetario deciso a Bretton Woods per il semplice motivo che il sistema che prese forma nel periodo successivo fu ben diverso da quello immaginato dagli architetti inglesi e americani nel luglio del 1944.
Il sistema di Bretton Woods era stato originariamente costruito per essere la cornice normativa sovranazionale all’interno della quale si sarebbe sviluppato un nuovo sistema di commercio internazionale multilaterale. Al termine del conflitto, tuttavia, il ripristino dei flussi commerciali era fortemente limitato dalle drammatiche condizioni in cui versava gran parte del continente europeo e dell’Asia: intere regioni furono spopolate e devastate;
oltre diciassettemila città e settantamila villaggi furono distrutto, del tutto o parzialmente, insieme a ponti, strade, linee ferroviarie, ospedali, biblioteche, scuole e ovviamente fabbriche e aziende agricole. La stessa spina dorsale produttiva di molti paesi era quindi in ginocchio. Questa situazione, insieme alla quasi completa autosufficienza statunitense, portava all’impossibilità di ripristinare nell’immediato quel commercio internazionale che si reputava vitale per la crescita economica mondiale: impossibilitati a produrre merci competitive sul mercato internazionale e bisognosi di ogni genere di prodotto, i paesi europei sperimentavano un deficit in quel momento strutturale della bilancia commerciale che non permetteva un rapido ripristino delle parità tra le valute o la sospensione dei controlli sul commercio: queste restrizioni, infatti, sarebbero potute essere abolite senza creare ulteriore deficit, o senza portare ad una svalutazione monetaria, solamente se fosse stata ridotta la spesa interna dei paesi. Politicamente, questo sarebbe stato un peso non facilmente sostenibile.
L’immediata fornitura di aiuti alle popolazioni e ai governi degli stati europei venne gestita dall’Ambasciata americana di Londra in cooperazione con i dipartimenti governativi britannici. Nella visione americana, che permeò poi l’azione delle Nazioni Unite, si doveva seguire un percorso per tappe, che avrebbe portato prima al soddisfacimento dei bisogni primari delle popolazioni, con cibo e vestiario; poi alla riabilitazione di medio periodo, con la ricostituzione degli stock prodotti primari; infine alla ricostruzione industriale vera e propria. Con queste idee era stata fondata il 9 novembre del 1943 la United Nations Relief and Rehabilitation Administration, che aveva precisamente il compito di gestire i primi aiuti ai territori liberati. La prima tranche consisteva in beni del valore complessivo di 2,6 miliardi di dollari. Di tale cifra, il 72% era fornito dagli Stati Uniti, il 12% dal Regno Unito, il 6% dal Canada, il 2% dall’Unione Sovietica e il resto da altri paesi. Nell’agosto del 1945 venne concordata una seconda tranche di aiuti. Il Canada si ritirò e la sua quota, pari al 6%, venne assunta dagli Stati Uniti, che stipularono un patto unico con tutti i paesi europei, sperimentando per la prima volta un sistema che sarebbe stato poi ripetuto e implementato con il Piano Marshall.
Gli sviluppi e le dinamiche che presero vita tra il 1946 e il 1947 resero evidente come il sistema immaginato un paio di anni prima a Bretton Woods avrebbe avuto una lenta applicazione, e soprattutto sarebbe stato attuato con deviazioni sostanziali da quanto stabilito nel luglio del 1944. A questo processo contribuirono alcuni problemi strettamente connessi tra loro: la permanenza di accordi commerciali bilaterali e il lento e sostanzialmente deludente progresso di accordi commerciali multilaterali; la permanenza dei controlli sul commercio e sui cambi, ai quali i paesi europei erano praticamente obbligati dalla disastrosa condizione post-bellica;
infine, la scarsità di dollari in Europa.
Alla fine della Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti erano il paese con la produzione industriale maggiore al mondo. Alla fine degli anni Quaranta, ad esempio, le aziende statunitensi producevano quasi il 50% dei beni manifatturieri mondiali e la produzione industriale registrata nel 1947 era superiore a quella di dieci anni prima del 42%. D’altro canto i paesi dell’Europa continentale e dell’Asia, che avevano subito enormi distruzioni durante la guerra, non erano in grado di pagare le importazioni necessarie di beni, né quelli di prima necessità, né quelli necessari alla ripresa industriale. Nel 1947, i paesi europei nei quali si concentravano le aree distrutte dal conflitto, importarono merci per un ammontare di 20,2 miliardi di dollari, mentre le esportazioni e le altre entrate correnti furono pari a 13,1 miliardi di dollari, determinando un deficit della bilancia dei pagamenti di 7,1 miliardi di dollari e portando alla scarsità di dollari.
In questo contesto caotico vennero inaugurati i progetti tendenti alla liberalizzazione commerciale proprio con l’idea di risolvere le strozzature esistenti mediante un coordinamento della riduzione delle tariffe. Questi progetti andarono incontro ad un sostanziale fallimento ma, sorprendentemente, finirono per dar vita ad un accordo, il GATT, che, sebbene lontana da quella immaginata e con regole a volte anche macroscopicamente violate dai partecipanti, ebbe un notevole successo sul lungo periodo. Già nel dicembre del 1945, gli Stati Uniti resero noto un piano per istituire un’organizzazione internazionale del commercio, la International Trade Organization (ITO), invitando gli altri paesi, compresa l’Unione Sovietica, a unirsi ai negoziati che sarebbero iniziati con un primo incontro nell’ottobre del 1946 a Londra, per discutere la stesura di una carta del commercio internazionale sulla base di un lavoro preparatorio di un comitato internazionale sorto nel febbraio dello stesso anno. I negoziati proseguirono per tutto il 1947 ed infine, a marzo del 1948 durante la conferenza dell’Avana, venne stilata la cosiddetta Carta dell’Avana, ovvero il Final Act of the United Nations Conference on Trade and Employment.
L’ITO, però, non entrò mai in funzione in quanto non venne mai ratificato dal Congresso americano, anche per via delle forti pressioni britanniche che riuscirono a far inserire nel trattato l’adozione in una molteplicità di circostanze di discriminazioni commerciali e restrizioni quantitativa. Il fallimento dell’ITO è anche legato al successo ottenuto dalla prima sessione del General Agreement on Tariffs and Trade, che si era tenuta a Ginevra nell’aprile del 1947. Fondato su due principi fondamentali – un approccio multilaterale e non discriminatorio e la condanna di restrizioni quantitative al commercio, il GATT venne ratificato da 23 paesi nell’ottobre del 1947, che diedero vita, dopo il primo round di negoziati, a 123 accordi su 45.000 voci daziarie, che rappresentavano all’incirca la metà del commercio mondiale.
Nonostante persistessero differenze di prospettive tra americani e britannici, che si ripeterono durante i successivi round, il sistema proseguì, come proseguirono le preferenze commerciali del Commonwealth perseguite dal Regno Unito.
Nello stesso periodo di tempo, un altro evento si accompagnò alle vicende dei trattati commerciali del GATT, finendo per dare linfa vitale all’inaugurazione del Piano Marshall, senza il quale la ripresa della produttività industriale europea, e quindi i relativi flussi commerciali internazionali, sarebbe stata difficile. Fu, infatti, il ritorno alla convertibilità della sterlina nell’estate del 1947 – convertibilità subito sospesa dopo poco più di un mese – che rese evidente le reali difficoltà della ripresa industriale europea e le necessarie azioni da intraprendere.
All’interno dell’accordo anglo-americano American Loan Agreement, siglato il 15 luglio 1946 per rimpiazzare il Lend-Lease, conclusosi il 2 settembre del 1945, il Regno Unito aveva accettato, in cambio di prestito americano pari a 3,85 miliardi di dollari, di tornare alla convertibilità della sterlina entro un anno. Questo percorso era coerente con quanto stabilito a Bretton Woods nell’ottica di un rapido ripristino di un sistema commerciale internazionale funzionale all’egemonia americana, che prevedeva, oltre il ritorno alla convertibilità, la fine delle preferenze commerciali imperiali del Regno Unito con i paesi del Commonwealth. La convertibilità della sterlina, scambiata con 4,03 dollari, fu così ripristinata precisamente il 15 luglio del 1947. Le settimane di convertibilità furono un vero e proprio disastro finanziario: la Banca d’Inghilterra vide diminuire molto rapidamente le proprie riserve – si calcola che perse un miliardo di dollari nel giro di appena un mese – e fu costretta a sospendere la convertibilità già il 20 agosto.
Gli Stati Uniti ottennero così, da una parte, l’indebolimento dell’uso della sterlina quale valuta di riserva internazionale, il cui prestigio minava i progetti dell’egemonia del dollaro; e dall’altra, una minor pressione sulla domanda internazionale di valuta statunitense. Quest’ultima condizione, favorendo, insieme al contemporaneo Piano Marshall, un rilancio dell’attività produttiva europea, gettò le basi per la creazione di quella domanda di beni che sarebbe poi stata soddisfatta dal settore industriale americano negli anni successivi.
Il problema della scarsità di dollari si manifestò nel biennio immediatamente successivo alla conclusione della guerra. Già agli inizi del 1947 un Comitato di coordinamento inter-ministeriale di alti funzionari statunitensi degli Esteri, della Marina e della Guerra avvisarono il governo che le esportazioni statunitensi del biennio 1946-1947 sarebbero potuto essere assorbite dal resto del mondo solamente per altri 12 o 18 mesi. Il credito internazionale era