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5.1. Il Fondo Monetario Internazionale

L’istituzione del Fondo Monetario Internazionale fu certamente una delle risultanti più innovative che scaturirono dagli accordi di Bretton Woods del 1944. Per un verso il nuovo organismo aveva, almeno in nuce, alcune caratteristiche che sembrano avvalorale l’interpretazione che lo vede come un primo abbozzo di banca centrale sovranazionale: si veda, a tal proposito, in particolar modo l’articolo I degli Articles of Agreement, dove il Fondo viene indicato

come fornitore di risorse con adeguate salvaguardie ai paesi membri in temporanea situazione di squilibrio delle bilance dei pagamenti.

Se, nella teoria, questo rimaneva, a prescindere dalle differenze tra le proposte di Keynes e di White, un punto fermo delle politiche del Fondo, insieme al tentativo di mettere in campo tutti gli strumenti necessari per scoraggiare i movimenti di capitali speculativi; la concreta messa in pratica degli accordi si scontrò, prima e dopo la conferenza di Bretton Woods, con una forte opposizione portata strenuamente avanti dal settore finanziario americano.

Le preoccupazioni del mondo finanziario statunitense nei confronti del nascente sistema di Bretton Woods possono essere racchiuse in tre elementi fondamentali. Il primo di questi era legato alla posizione dominante che gli Stati Uniti avevano ottenuto dopo la Seconda guerra mondiale e che tutti si attendevano continuassero ad occupare anche negli anni seguenti: tale posizione di forza, si temeva avrebbe generato una quota eccessiva di oneri finanziari e macroeconomici su un solo paese, appunto gli Stati Uniti.

In secondo luogo, una parte della finanza americana, quella più legata all’attività produttiva, era preoccupata dalla cosiddetta possibilità di moral hazard che il sistema avrebbe potuto generare mercati finanziari che avrebbero catturato risorse invece di destinarle alla produzione e, per l’altro verso, avrebbero potuto creare squilibri inflattivi che si sarebbero ripercossi sulla stabilità del sistema. Queste preoccupazioni suscitarono interventi istituzionali per aumentare i controlli valutari, per questa via scoraggiando gli afflussi e i deflussi di capitale su Wall Street, che avrebbe visto in tal modo tarpate le proprie ambizioni di diventare la piazza finanziaria del mondo, scalzando in questo modo Londra.

Sull’onda di questi timori, dietro le quinte dei negoziati ufficiali tra i delegati di Stati Uniti e Gran Bretagna, che portarono agli accordi di Bretton Woods, si svolsero intense manovre e attività lobbistiche tutte all’interno del mondo finanziario e politico statunitense, che ebbe l’effetto di portare ad un notevole ridimensionamento del peso del Fondo rispetto ai piani originari. Più che nell’assetto generale e nei principi di fondo, le spie di questo ridimensionamento sono da ricercare nei dettagli, in alcuni espedienti tecnici che avevano lo scopo di andare incontro alle necessità e alle preoccupazioni del settore finanziario americano appena richiamate. In conclusione, più che una banca centrale sovranazionale, il Fondo nacque più che altro come un’agenzia dei governi senza alcun potere proprio di creazione di liquidità internazionale.

Gli stratagemmi inseriti tra le maglie degli articoli del Fondo riguardavano alcuni dei temi più scottanti, quali i movimenti di capitale, la vigilanza internazionale e la struttura di governo del nuovo organismo. Il principale accorgimento per tutelare il mondo finanziario americano si trova all’articolo VI dello Statuto, dove viene fatto divieto al Fondo di prestare risorse per contrastare i deflussi di capitale, quale che ne fosse la causa. Inoltre, il settore privato statunitense riuscì nel suo intento lobbistico anche sulla questione dei controlli sui movimenti di capitali, un tema essenziale nella geometria del potere finanziario internazionale. Sempre nell’articolo VI degli accordi si trova, infatti, soltanto la facoltà dei governi, e non più l’obbligo, a cooperare per contenere i movimenti internazionali di capitale. Cadeva contestualmente anche l’ipotesi di concedere al Fondo il potere di imporre ai paesi membri il controllo sui flussi di capitale.

In secondo luogo, il linguaggio utilizzato nell’intero accordo era un linguaggio estremamente tecnico e complesso, con lo scopo di rendere il meno agevole possibile la comprensione dei meccanismi profondi del Fondo, allontanando l’idea che potesse essere assimilato ad una banca sovranazionale. In tal senso, scomparvero anche nel disegno finale tutti i riferimenti a strumenti di vigilanza e regolamentazione internazionale a scopo prudenziale.

Anche la struttura di governo del Fondo rifletté l’avversione del mondo finanziario americano alla nascita di una struttura finanziaria sovranazionale. Se, infatti, il piano di Keynes e del Tesoro britannico desiderava istituire un governo indipendente di esperti, gli americani fecero pressioni, coronate infine da successo, per la creazione di un consiglio di amministrazione, il Board of

Directors, formato da funzionari a nomina governativa, che

avrebbero dovuto lavorare nella sede di Washington a tempo pieno. È facilmente intuibile come questa scelta poneva dei limiti alla discrezionalità delle scelte del Fondo, in quanto la nomina governativa dei suoi direttori prestava il fianco al controllo politico dell’organismo da parte dei diversi governi nazionali, facendo tramontare definitivamente l’idea di avere un’istituzione forte di un’irreprensibile autorevolezza tecnica.

Nonostante gli scarti tra i piani e le realizzazioni concrete, il Fondo Monetario Internazionale fu comunque un’innovazione che non aveva precedenti nella storia, che andò ad occupare un posto di rilievo all’interno del panorama finanziario internazionale. Tuttavia, nei primi quindici anni di attività la domanda di finanziamenti fu piuttosto scarsa, portando il Fondo a non avere un ruolo ben definito, anche per la concomitanza del Piano Marshall che forniva ai paesi europei tutti i fondi di cui essi avevano bisogno per la ricostruzione post-bellica.

L’anno chiave per il Fondo, che gli conferì un ruolo davvero cruciale, fu il 1958, con il ripristino della convertibilità valutaria dei maggiori paesi europei, i quali, contestualmente, furono obbligati al rispetto delle prescrizioni dell’articolo VIII dello Statuto. Da quel momento, il sistema si trasformò in un insieme interagente di Stati-nazione, regole e mercati valutari e dei capitali in crescente espansione. Proprio il ripristino della convertibilità dei paesi europei era, d’altronde, stato possibile in seguito ad un costante disavanzo della bilancia dei pagamenti americana: se nel biennio 1956-1957 il saldo era ancora in sostanziale equilibrio, il deficit cominciò a crescere dal 1958, arrivando a 4 miliardi e crescendo poi a 6 miliardi nel 1959. Proprio nel 1959 le passività esterne degli Stati Uniti eguagliarono, per la prima volta, le riserve in oro, per poi superarle costantemente nel corso degli anni successivi a fronte di persistente deficit annuale della bilancia dei pagamenti.

Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, quindi, il Fondo Monetario Internazionale si trovò al centro di un sistema internazionale, dopo la ripristinata convertibilità del 1958, in cui però due nuovi elementi – gli squilibri prodotti dal disavanzo statunitense e l’aumento della mobilità di capitali – contribuivano a creare un effetto potenzialmente destabilizzante.

Il centro dei problemi, che si riflette anche in un aumento delle discussioni in merito a partire proprio dall’inizio degli anni Sessanta, era certamente la questione della liquidità internazionale. Tuttavia, tale questione nascondeva in realtà al suo interno almeno tre diverse problematiche, che intrecciavano tra loro i propri effetti, riguardando la quantità e la qualità delle risorse del Fondo e, soprattutto, il ruolo che il dollaro era andato assumendo all’interno del panorama finanziario internazionale.

Il primo problema riguardava, appunto, le risorse del Fondo, che non erano più adeguate a sostenere l’aumentato volume dei commerci internazionali. Questa difficoltà ebbe una soluzione relativamente facile, che venne raggiunta grazie all’aumento delle quote dei rispettivi paesi alle risorse ordinarie del Fondo, attraverso un aumento del 50% nel 1959 e del 25% nel 1966. Questi aumenti, però, rivelavano anche il secondo problema circa le riserve del Fondo. Quest’ultimo, infatti, non avevano una proprio capacità di creazione monetaria e dipendeva esclusivamente di risorse conferite dai paesi membri in valuta nazionale. In caso di emergenza, quindi, difficilmente il Fondo avrebbe avuto le disponibilità necessarie a risolvere i possibili problemi dei paesi più grandi, come ad esempio gli Stati Uniti e la Gran Bretagna.

Una risposta parziale a quest’ultima problematica venne dalla creazione del cosiddetto G-10: i dieci paesi più industrializzati siglarono, nel 1962, i General Arrangements to Borrow (Gab), un accordo parallelo al Fondo, al fine di costituire una scorta di risorse

utilizzabili aggirando i macchinosi procedimenti del Fondo. In particolar modo il controllo politico di queste risorse pose alcune questioni di non secondaria importanza circa l’autorità a cui dovesse essere demandata la decisione finale: si arrivò, infine, ad un accordo che prevedeva un meccanismo cosiddetto «a doppia chiave»: l’accesso ai fondi del Gab doveva essere quindi accordato dal Board dell’Fmi, dalla maggioranza dei paesi aderenti, nonché dai tutti i paesi la cui valuta fosse inserita nel prestito.

Il terzo problema inerente la questione della liquidità internazionale, certamente il più difficile da risolvere e che, a ben vedere, fu una delle cause principali del crollo di Bretton Woods, riguardava il dollaro, ed in particolare il suo utilizzo come principale fonte di liquidità internazionale conseguentemente ai persistenti disavanzi nella bilancia dei pagamenti statunitense verificatesi dalla fine degli anni Cinquanta in poi.

In questo senso, il sistema monetario internazionale si era evoluto in una particolare tipologia egemonica: il cosiddetto dollar

standard. Il difetto centrale del sistema era che la disponibilità di

liquidità a livello mondiale, posto il dollaro come valuta di riserva internazionale e strumento di pagamento nei flussi commerciali, finiva per dipendere dalle scelte di un paese in cui vigeva un regime di fiat standard, ponendo così enorme pressione sulle scelte di politica monetaria del paese perno del sistema, dalle quali derivava, in sostanza, la fiducia generale.

Ci si trovava di fronte, quindi, al già richiamato dilemma Triffin. Gli Stati Uniti potevano, da una parte, correggere gli squilibri della propria bilancia dei pagamenti, costringendo però il resto del mondo a subire gli effetti deflazionistici di tali politiche e rinunciando contestualmente al ruolo egemonico che gli veniva conferito dall’emettere la valuta di riferimento a livello internazionale. Oppure, le autorità americane avrebbero potuto, come fecero, alimentare la domanda mondiale di liquidità in dollari fino al punto che un evento di qualsiasi natura sopraggiungesse a far crollare la fiducia nel dollaro, scatenando una nuova corsa alla convertibilità come accadde nel 1931.

Se la soluzione più immediata e logica al problema sarebbe stata la creazione di una qualche forma di moneta sovranazionale, l’effettiva messa in pratica di questa soluzione andava incontro a problemi difficilmente sormontabili: da una parte, infatti, gli Stati Uniti si schierarono contro il progetto per tema di perdere la posizione egemonica derivante dalla posizione del dollaro; dall’altra parte, garantire la fiducia di una moneta sovranazionale senza nessuna autorità preposta a questo compito sarebbe stato un compito decisamente difficile da portare a termine.

Nel corso degli anni Sessanta, per le motivazioni già richiamate, le posizioni cominciarono a cambiare, anche in conseguenza, da un lato, delle ventilate minacce portate avanti dal governo francese di dare istruzione alla Banca di Francia di convertire in oro i dollari detenuti in eccesso; dall’altro, dell’aumento del prezzo dell’oro sul mercato libero, che superò il prezzo di 35 dollari all’oncia, segnalando una crescente sfiducia dei mercati nella forza del dollaro.

Da questa problematica scaturirono, a ben vedere, le novità introdotte tra la seconda metà degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta. Se i già citati Gab costituivano il riconoscimento del ruolo dell’Fmi, ma rimanevano strumenti molto limitati, l’introduzione, nel 1969, dei Diritti Speciali di Prelievo (Dsp) costituiva la prima istituzione di una forma di moneta sovranazionale: la loro attuazione, però, era stata inserita in un quadro così dettagliato di disposizioni limitative che ne rese l’impatto concreto piuttosto limitato. Dopo la sospensione della convertibilità del dollaro nell’agosto del 1971, infine, venne approvata nel 1976 quando venne sospeso l’obbligo del mantenimento dei cambi fissi.

5.2. I grandi centri finanziari mondiali

Lo sviluppo dei grandi centri finanziari mondiali, nel periodo che va dal 1945 al 1976, non deve essere confuso con la storia del sistema monetario internazionale, anche se i meccanismi di funzionamento di quest’ultimo ebbero certamente un’influenza notevole nell’orientare scelte e decisioni. Inoltre, le piazze più importanti ebbero un’evoluzione che fu solo in parte uguale a quella del progresso economico e politico delle rispettive nazioni. Wall Street, ad esempio, pur in posizione di indiscussa forza, non lo fu mai in maniera così predominante come lo fu, invece, il peso dell’economia americana a livello mondiale; di converso, la City di Londra, la cui storia post-bellica fu certamente caratterizzata da un evidente declino, non perse mai del tutto la propria influenza, ed anzi recuperò molta della strada perduta a partire dagli anni Sessanta, quando divenne il centro del mercato degli eurodollari e delle eurobbligazioni, andando ad occupare un posto nella finanza mondiale neanche lontanamente paragonabile al peso specifico dell’economia britannica.

a. Wall Street e il sistema bancario statunitense

Alla conclusione della Seconda guerra mondiale New York era certamente emersa quale centro finanziario più importante a livello globale, anche in conseguenza del ruolo degli aiuti finanziari statunitensi alla ricostruzione europea. Numerosi fattori contribuirono a rinsaldare, con gli anni Cinquanta, la posizione di

Wall Street come centro finanziario del pianeta. In primo luogo, il ruolo del dollaro era fondamentale, in quanto la valuta americana rappresentava il mezzo di pagamento e la valuta di riserva a livello internazionale, senza alcun rivale all’orizzonte, essendo anche l’unica moneta convertibile in oro; inoltre, gli Stati Uniti potevano avvalersi, da una parte, di un’enorme quantità di riserve auree, accumulate durante la guerra, dall’altra di un’istituzione, la Federal Reserve Bank of New York, che ricopriva un ruolo decisivo nelle questioni monetarie sia sul mercato interno che a livello internazionale.

Tra la fine degli anni Quaranta e negli anni Cinquanta, New York sviluppò un vivace ambiente bancario e finanziario. Le banche commerciali newyorchesi erano diventate le più grandi del mondo, superando di gran lunga le corrispettive londinesi con risorse complessive che ammontavano nel 1954 a 32,3 miliardi di dollari, contro i 19,8 miliardi degli inglesi. Gli affari internazionali venivano molto curati, con uffici dedicati ad attività come la compravendita di valute estere, il finanziamento dei commerci e i prestiti ad istituti bancari stranieri. Inoltre, nel 1955, sette banche statunitense possedevano filiali all’estero, mentre, di converso, erano ventuno le banche straniere, appartenenti a dodici diverse nazioni, che avevano delle filiali sulla piazza di New York, svolgendo per la maggior parte attività di compravendita valutaria, specialmente in relazione alla valuta del paese di provenienza.

Le banche di investimento, insieme a broker e mediatori in cambi esteri, società di gestione dei conti connessi al commercio estero, spedizionieri doganali, rappresentanti di import-export, case d’accettazione e di sconto – anche se non sviluppate ed efficienti come a Londra – ; tutte aziende specializzate erano presenti contemporaneamente sul mercato newyorchese, fornendo una vasta e completa gamma di servizi finanziari. Contestualmente, il New York Stock Exchange riprese a crescere fin dai primi anni Cinquanta, in parallelo con la fase espansiva dell’economia statunitense: il volume delle transazioni aumentò vertiginosamente, passando da una media di 312 milioni annui investiti in titoli della fine degli anni Quaranta, fino ai 667 milioni del 1959 e portando anche alla crescita del numero degli investitori individuali, segno di una crescente democratizzazione della borsa americana. Più o meno nello stesso arco di tempo, l’indice Dow Jones sperimentò una notevole crescita complessiva, corrispondente al 240% per il periodo 1953-1960: pari a 260 punti nel dicembre del 1953, il Dow Jones raggiunse quota 386 nel dicembre dell’anno successivo, oltrepassando per la prima volta il picco più alto toccato nell’agosto del 1929, e raggiungendo 650 al termine del 1960.

Alcune problematiche, tuttavia, permanevano, facendo di New York un centro certamente egemone a livello mondiale che, tuttavia, non poteva dirsi né unico, né completo ed efficiente in

ogni settore finanziario. I titoli negoziati sul mercato newyorchese, ad esempio, erano ancora titoli quasi esclusivamente statunitensi: gli anni Cinquanta testimoniarono, a tal proposito, una nuova fase di espansione delle multinazionali americane, come ad esempio la General Electric, la Standard Oil Co. of New Jersey, o l’IBM. Sebbene alla contrattazione dei titoli delle imprese americane partecipassero mediatori provenienti da tutto il mondo, rendendo giustizia quindi al ruolo internazionale di Wall Street, l’emissione di titoli esteri era ancora troppo costosa, limitando così i prestiti internazionali, con qualche significativa eccezione, come quella del finanziamento della CECA.

Anche la legislazione vigente negli Stati Uniti per il settore bancario e finanziario poneva non pochi ostacoli al pieno sviluppo delle potenzialità degli istituti americani. In particolare, le banche commerciali ebbero diverse difficoltà nel reperire i fondi necessari per soddisfare le necessità di credito che un’economia in grande fase espansiva offriva. Se, durante gli anni Cinquanta, la domanda dei prestiti raddoppiò, la raccolta dei depositi bancari aumentò solamente del 50%. Principale indiziato di questa situazione era, nuovamente, la Regulation Q, la quale, impedendo alle banche di offrire alti interessi sui depositi, limitava di fatto l’appetibilità dei depositi stessi. Escluso, quindi, lo strumento del tasso di interesse come metodo per attrarre fondi, le banche newyorchesi cominciarono un’intensa attività di fusioni che servivano ad incrementare le risorse da mettere a disposizione della crescente domanda creditizia proveniente dal settore dell’economia reale. Fu, in questo modo, che si realizzò la fusione nel 1955, tra la Manhattan Bank, la National City Bank e la First National Bank; quella tra la J.P. Morgan e il Guarantee Trust, nel 1959; infine, quella, del 1961, tra la Central Hanover Bank e il Manufacturers Trust.

Tuttavia, sebbene le banche commerciali diventarono, in questo modo, le più grandi al mondo, la loro possibilità di crescita era tutt’altro che illimitata, soprattutto per via della legislazione vigente che impediva l’apertura di filiali in altri Stati. Fu così che sorsero nuovi strumenti finanziari pensati proprio per accrescere le risorse delle varie banche. Il principale di essi fu il certificato di deposito che, lanciato nel 1961, per la prima volta, dalla First National Bank, poteva essere scambiato anche su un mercato secondario appositamente creato in precedenza.

Anche se le banche newyorchesi dovettero superare gli ostacoli posti dalla legislazione americana e da diverse misure prese dal governo federale per limitare l’esportazione di capitale statunitense, nonché una rinascita della City legata al mercato delle eurobbligazioni, esse rimasero comunque in una posizione di dominio circa la finanza internazionale, anche se la piazza in cui operavano poteva non sempre essere quella di New York.

Proprio gli anni Sessanta determinarono il momento in cui vi fu la prima grande espansione multinazionale degli istituti bancari americani. Segno più evidente di tale sviluppo fu la crescita del numero delle filiali delle banche statunitensi all’estero, le quali passarono dalle 131 del 1950, a 899 nel 1986, concentrata in larghissima parte nei paesi industrializzati e nelle piazze finanziarie più importanti. Il luogo preferito era, ovviamente, l’Europa, dove si contavano, nel 1975, 113 filiali – di cui 58 solo a Londra – e 29 uffici di rappresentanza delle otto maggiori banche americane.

Nel corso degli anni Sessanta, inoltre, con sempre maggiore intensità le banche statunitensi spostarono le loro attività in Europa, con il fine ultimo di aggirare una legislazione bancaria che negli Stati Uniti si era fatta sempre più restrittiva, con le restrizioni agli investimenti diretti delle multinazionali del 1965 e l’aumento dei tassi ufficiali di interesse nel 1966 e poi nel 1969, che tuttavia non eliminarono il massimale previsto dalla Regulation Q. A tal

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