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Appaiono evident

163 PICCOLI P., “L’avamprogetto di convenzione sul trust nei lavori della conferenza di diritto internazionale privato

de L’ Aja ed i riflessi di interesse notarile”, in “Rivista del notariato “, 1984, pag. 844 ss.

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Il trust affonda le proprie origini nel mondo giuridico anglosassone. Il diritto inglese è, fin da tempi assai risalenti, caratterizzato dalla dicotomia Common law/Equity. Queste due sfere giuridiche da sempre convivono in maniera piuttosto conflittuale, dando vita a tribunali distinti ma con pari giurisdizione, rispettivamente le tre Corti di Common Law e la Corte di Chancery, ed a regole di giudizio proprie ed esclusive. Le ragioni di tale dualismo affondano nella storia del diritto anglosassone. E’ noto che il sistema di Common Law nacque come sistema ancorato a forti poteri dei giudici, un vero e proprio sistema di diritto giudiziale, teso a valorizzare il ruolo del magistrato a tal punto da attribuirgli un potere non solo giurisdizionale ma anche legiferante (judge-made-law). Esso si distaccò dalla tradizione giuridica continentale ed affondò le proprie radici non nel diritto romano bensì nelle consuetudini locali e nelle reali necessità sociali. Per dirla con un’espressione carica di icasticità, la Common Law può definirsi come” il prodotto del senso comune giuridico applicato ai bisogni mutevoli della società’. Tuttavia, pur offrendo le ampie garanzie accenate, la Common Law si rivelò presto inadeguata a fornire effettiva tutela ai consociati. Le ragioni furono, principalmente, le seguenti. In primis, l’inefficienza del sistema. Uno dei maggiori limiti stava nel fatto che nessuna azione poteva essere intentata senza che fosse stato in precedenza proposto un writ al convenuto: dunque occorreva che le circostanze concrete del caso potessero rientrare in una delle azioni tipizzate previste, un writ appunto, pena la assenza di strumenti di tutela (prevaleva dunque la logica del brocardo”ubi remedium,ubi ius” e non quella più immediata del “ubi ius,ubi remedium”). In secundis, l’eccessivo formalismo giuridico. La procedura delle corti di common law era molto formale, e spesso la tutela veniva negata per ragioni non di merito bensì meramente tecniche.In definitiva, il sistema giudiziario era caratterizzato da un fortissimo formalismo, non temperato da alcun fattore di elasticità. Le conseguenze erano piuttosto gravi: sovente si verificava un diniego di giustizia benché l’interesse giuridico da tutelare fosse meritevole di tutela. Fu così che, a partire dal XVI° secolo, i consociati, delusi nelle proprie aspettative, ricorsero all’espediente di rivolgere delle petizioni al Re, petizioni che, non potendo essere trattate dal sovrano in persona, vennero deferite al magistrato di rango più elevato:il Cancelliere. La peculiarità del giudizio svolto presso la Cancelleria regia era costituita dalla emissione, a favore dell’attore, di un “writ” per ogni controversia che obbligasse il convenuto ad una dichiarazione giurata e ad un esame a viva voce, passaggi questi fino ad allora sconosciuti alle dinamiche processuali inglesi. Finalmente venivano superate le rigidità cristallizzate dalla Common Law a favore di meccanismi più agili, di una giustizia resa “in personam”. Inoltre, a partire dal 1600, l’esercizio della giurisdizione di Equity, per evitare che la discrezionalità del Cancelliere sfociasse nel mero arbitrio, si venne caratterizzando per il rispetto dei precedenti giurisprudenziali (in sintesi una pronuncia pregressa aveva pressappoco l’autorità di una nostra odierna fonte normativa): si parla a questo riguardo di “sistema di diritto giurisprudenziale” o “case law”. L’ Equity non può essere rappresentata come una struttura completa ed autosufficiente. Più semplicemente, essa può configurarsi come un supplemento rispetto al più vasto, ma lacunoso, sistema di Common Law, una integrazione la cui funzione è porre rimedio alle eventuali falle riscontrate in seno al sistema giuridico “concorrente”, senza però sconfessarne i principi (“Equity follows the law”); la storiografia giuridica ha ben sintetizzato i termini di tale relazione descrivendo l’Equity come “ una serie di glosse apposte alla common law”. Per il giurista contemporaneo sarebbe, tuttavia, errato un approccio al diritto inglese sulla base di considerazioni che tengano conto di un unico ordinamento giuridico animato,ancora oggi, da spinte contrastanti: questa antinomia è stata infatti risolta sin dal 1873, anno in cui è stato

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emesso il“Judicature Act”. Esso ha posto le basi per una nuova organizzazione del sistema giudiziario, unificando i tribunali di Equity e di Common Law e statuendo che per entrambi possano essere adoperate le medesime regole di diritto sostanziale. I risultati di questa opera di integrazione del tessuto normativo sono stati di enorme portata. All’Equity va addebitata la nascita di nuovi istituti concezioni (tra cui il trust), la modifica di norme antiquate o inadeguate ( si pensi alla disciplina della frode), la creazione di nuovi rimedi come l’adempimento specifico (specific performance) e l’ingiunzione (injunction). Il Trust deve i propri natali alla continua opera creativa ed integrativa dell’Equity: non a caso è stato sostenuto che ”di tutte le realizzazioni dell’Equità, la più grande ed importante è l’invenzione e lo sviluppo del trust”. L’ Inghilterra di Guglielmo il Conquistatore, e dunque successiva al 1066, si presenta, sotto un profilo socio-politico, caratterizzata dal sistema feudale. Nella moderna “law of property” sono in buona parte state conservate non solo una terminologia, ma anche categorie concettuali di derivazione feudale: tuttora sopravvive la concezione secondo cui la proprietà della terra appartiene al re ed il suo trasferimento avviene mediante un atto formale unilaterale posto in essere dal venditore, dato che il precedente contratto stipulato con il compratore va considerato non come produttivo di un effetto traslativo bensì obbligatorio. Alla base del sistema feudale inglese c’era la “free tenure”, ossia il rapporto giuridico nascente tra il re ed un nobile attraverso cui, servendosi di un atto unilaterale, il sovrano (“Lord”) infeudava in un fondo gli aristocratici locali (“tenants”) senza determinare a loro favore alcun trasferimento immobiliare ma solo l’attribuzione di un ampio potere di usare e godere. I “tenants”, a loro volta, avevano facoltà di cedere lo stesso potere su parte dei propri possedimenti ad altri soggetti subordinati, creando una serie piramidale di rapporti identici. La “free tenure” veniva attribuita per una durata variabile: poteva essere a vita (“life estate”), poteva essere a vantaggio del beneficiario e di tutti i suoi eredi (“fee simple”), poteva essere a vantaggio del beneficiario e di altri soggetti determinati (“fee tail”). La concessione della “free tenure” implicava che, come contropartita, il “tenant” avesse degli obblighi verso il proprio Lord: i cosiddetti”incidents”. Tra questi i più ricorrenti erano l’obbligo di riconoscere la supremazia del Lord (“homage”), l’obbligo di fedeltà (fealty”), l’obbligo di fornire aiuto e sostegno personale al proprio Lord (“aids”), l’obbligo di versare un canone annuo (“socage”) o di fornire un certo numero di soldati (“military tenure”), l’obbligo di versare a titolo di tributo una somma di denaro nel caso di successione mortis causa ab intestato della “tenure”(“relief”), rimanendo invece preclusa la successione testamentaria (preclusione che verrà abolita solo nel 1540 con lo “Statute of Wills”). Fu proprio allo scopo di aggirare il divieto di testare relativo ad un diritto di “free tenure” che si diffuse una pratica che in molti considerano quale predecessore del trust: lo “use”. In sostanza, se il “tenant” (cosiddetto “feoffor”) intendeva aggirare il divieto di testare in ordine al suo “estate” sulla “land”, poteva trasferire il proprio “estate” a Caio (“feoffee”) specificando che, durante la vita del “feoffor”, il “feoffee” avrebbe dovuto attribuire le rendite del fondo al primo e che, dopo la morte del medesimo “feoffor”, il “feoffee” avrebbe dovuto trasferire il c.d. “estate” al soggetto previamente indicatogli. Lo “use” era particolarmente vantaggioso per il “tenant” poiché permetteva di evitare tutte le preclusioni ed i limiti rappresentati dagli “incidents”. Le corti di Common Law non tardarono a palesare la propria ostilità dinanzi all’espansione di una fattispecie implicante la separazione del godimento sulla “land” dalla titolarità del “legal estate”. Fu negata qualunque tutela al titolare dello “use” nell’evenienza in cui il “feoffee” non adempiesse all’obbligo pattuito in sede negoziale col “feoffor”, giacché titolare del “legal estate”(cioè della proprietà secondo la terminologia anglosassone)era da considerarsi il solo “feoffe”. A supplire il deficit di tutela intervennero, a partire dal XV° secolo, le corti di Equity che riconobbero in capo al beneficiario dello “use” un “equitable interest”, condannando i “feoffees” infedeli al rispetto dell’accordo precedentemente stipulato. Nel 1535, il re Enrico VIII promulgò lo “Statute of use”, con cui si cercò di porre un freno alla pratica dello “use”, parificando la figura del “feoffee” a quella del “tenant” e, dunque, onerandolo di tutti gli obblighi propri della “free tenure”. Decisiva fu, a riguardo, la posizione dei giuristi specializzati nel trasferimenti del diritto di proprietà (i cosiddetti “conveyancers”) che escogitarono lo stratagemma dello “use upon a use”. Esso consisteva in una ripetizione del meccanismo proprio dello use: in sostanza, se Tizio intendeva trasferire il suo “estate” a Caio per l’uso di Mevio, si creava un doppio uso, trasferendo a Caio per l’uso prima di Sempronio e poi di Mevio. Sebbene anche tale pratica fosse stata strenuamente avversata dalle corti di Common Law, prevalse l’instancabile opera della Cancelleria che nel 1643 sancì il principio per cui anche lo “use upon a use” meritava una tutela, determinando conseguentemente la totale inoperatività dello “statute” del 1535. Fu proprio a partire dal XVII secolo che lo “use” mutò la propria denominazione in trust. Tra i due istituti, vi è tuttavia un divario non solo cronologico: il moderno ”trust” può contare su un oggetto più ampio, esteso ai beni più disparati e non unicamente a beni immobili, e su un apparato normativo più solido. In argomento: CHESHIRE G.C., “Il concetto del trust secondo la Common Law inglese”, Torino, 1998 , pag. 3-20; MAITLAND F.W., “L’Equità” (trad. It. “Equity. A course of lectures

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i legami tra queste precisazioni e l’essenza dell’istituto. Nel suo schema generale, il trust implica

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