• Non ci sono risultati.

Benché nella sua odierna vulgata, di cui sono buoni esempi i principali documenti delle istituzioni internazionali3, la RSI stia ad indicare l’aprirsi dell’impresa verso un orizzonte non più meramente economico dove integrare nella gestione un’attenzione nuova per le conseguenze sociali ed ambientali del suo agire, è importante notare come diversi autori si siano invece impegnati a dimostrare, ciascuno con motivi peculiari e convincenti, che essa non allontana affatto le imprese dalla sfera dell’agire economico, ma anzi consente loro di risolvere una serie di impegnativi problemi che proprio su questo terreno normalmente si presentano. Possiamo parlare in questo senso di approcci che militano per una

fondazione economica della RSI, anche se in un caso (Sacconi) questa

viene affiancata da una complementare fondazione etica, mentre, in un altro caso (Zamagni), ad essere messa in opera è una concezione dell’economia essenzialmente aliena dal mainstream neo-classico e, sulle orme di A. Sen (1988, 2007), critica della riduzione della razionalità economica a massimizzazione dell’interesse personale.

a) Razionalità economica e teorie dell’impresa

Tra i pionieri della business ethics in Italia4, Lorenzo Sacconi disegna un approccio, da un parte, fortemente radicato nell’ambito della teoria economica dell’impresa e, dall’altra, orientato nondimeno ad una giustificazione normativa del modello di governo dell’impresa proposto. Proverò, dunque, a ripercorrere in breve entrambi i versanti dell’approccio e a riflettere, infine, sul senso della loro compresenza.

Innanzitutto Sacconi sviluppa una puntuale messa a fuoco sia degli errori delle teorie finanziarie, riconducibili alla matrice della agency theory, sia dei difetti (correggibili) di quelle neo-istituzionaliste, arrivando infine a presentare il paradigma della RSI come il deus ex machina idoneo a garantire efficienza e stabilità all’organizzazione. L’impresa non viene così

3

Si vedano ad esempio: Linee guida per le imprese multinazionali - Ocse (2000), Global

Compact -Onu (1999), Libro verde: Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale dell’impresa - Ue (2001).

4

È del 1991 un suo ampio saggio, intitolato giustappunto Etica degli affari, che ricostruiva a beneficio del lettore italiano i problemi e i principali orientamenti teorici maturati in vent’anni di business ethics.

richiamata verso oneri di natura extra-economica, ossia verso una missione sociale rispondente ad esigenze etiche, ma è ricondotta alla RSI come all’unico autentico modello di governo capace di soddisfare le esigenze della razionalità economica. L’autore resta, insomma, nei confini dell’analisi economica delle istituzioni e si serve dichiaratamente del bagaglio concettuale della rational choice e della teoria dei giochi per risolvere i complicati rebus che spesso sono moltiplicati anziché risolti dai fautori di questo tipo di analisi.

Il suo primo approdo, perciò, è ad una

nozione di CSR [RSI] come «allargamento» della struttura di diritti, doveri e obbligazioni che definiscono la governance dell’impresa, volto a «completare» l’impresa come

istituzione di governo unificato delle transazioni. (Sacconi, 2005a: 106)

La RSI compare, in altre parole, come la forma compiuta del governo

dell’impresa; la forma con cui si giunge a colmare le numerose falle che

normalmente si aprono in un’organizzazione costituita da relazioni tra molteplici agenti (azionisti, manager, lavoratori, fornitori, clienti), portatori ciascuno, pur in vista di una finalità comune (produzione di un

surplus), di interessi singolari, dati dagli investimenti specifici la cui

remunerazione attesa è a rischio. Sono le “falle” ben note dell’azione opportunistica (free-rider), già scoperta dai teorici dell’impresa come “catena di contratti”, ma, secondo Sacconi, nient’affatto colmate mediante il ricorso, da costoro suggerito, alle relazioni contrattuali incentivanti, compendiate nella fondamentale relazione contrattuale incentivante che lega i manager alla proprietà e che, mirando ad un allineamento tra gli interessi dei primi e dei secondi, consentirebbe di sciogliere il nodo della relazione tra principale ed agente, sita alla base della produzione di squadra e del suo governo, cioè dell’impresa stessa5.

Vi è poi un’altra “falla”, per continuare nella metafora, che Sacconi scorge invece nelle teorie neoistituzionaliste, formulate proprio in contrasto con le semplificazioni indotte dalla teoria dell’agenzia. In quelle, infatti, si ripristina giustamente la visione dell’impresa come sistema complesso di controllo delle transazioni e dunque si pongono i problemi dell’allocazione dell’autorità e della gestione del potere; tuttavia si continua a non dare una risposta soddisfacente al rischio dell’opportunismo, che rimane reale a causa dell’inevitabile incompletezza

5

Per una disamina dettagliata dei rilievi critici mossi alle teorie del nexus of contracts e dell’agenzia si veda: Sacconi, 2005a (pp. 95-100).

dei contratti, e, soprattutto, non si offrono sufficienti rimedi al rischio di abuso che sempre accompagna l’esistenza e l’esercizio dell’autorità6.

Ora, sono precisamente questi due fronti - l’azione opportunistica e l’abuso di autorità - che Sacconi intende presidiare con armi più affilate, poiché essi minano l’efficienza e la stabilità dell’impresa con il loro diffondere nel tessuto organizzativo defezione, sottoinvestimento e, più in generale, crisi di legittimità interna, oltre che l’indebolimento della fiducia degli stakeholder esterni nei confronti dell’organizzazione medesima. Le nuove armi sarebbero appunto quelle della RSI, la cui prestazione stabilizzatrice deriva dalla previsione di “doveri fiduciari” a protezione dei soggetti non controllanti, contro i rischi di abuso d’autorità del soggetto controllante.

La definizione di RSI nella sua interezza suonerà pertanto così:

un modello di “governance” allargata dell’impresa, in base al quale chi governa l’impresa ha responsabilità che si estendono dall’osservanza dei doveri fiduciari nei riguardi della proprietà ad analoghi doveri fiduciari nei riguardi in generale di tutti gli stakeholder. (Sacconi, 2005b: 114)

La RSI è insomma un modello di governo incardinato su tre pilastri: a) i

diritti proprietari (“diritto di decisione residuale”), che è necessario

attribuire ad un preciso stakeholder per ovviare all’incompletezza dei contratti e alla conseguente esigenza che vi sia un’autorità titolata a prendere decisioni ex post in merito ai casi imprevisti e alle aree d’intervento che residuano scoperte rispetto alla fase convenzionale iniziale; b) i doveri fiduciari di chi effettivamente governa l’impresa (di solito, gli amministratori e i manager a cui è delegata la gestione) nei confronti dei proprietari; c) i doveri fiduciari allargati, cioè la responsabilità fiduciaria, in capo agli stessi soggetti di cui sopra, anche verso gli stakeholder non controllanti, in quanto portatori di quegli investimenti specifici da cui dipende la produzione del surplus che dà senso alla cooperazione nell’impresa e la cui distribuzione finale motiva gli stessi investimenti idiosincratici ex ante.

Come si può vedere, mentre i primi due principi appaiono in linea con quelli che nelle teorie finanziarie assegnano il primato all’interesse dell’azionista (shareholder value), il terzo è in aggiunta e serve a completare e consolidare l’equilibrio organizzativo mediante l’attribuzione di pari valore a tutte le parti coinvolte, anche a quelle non controllanti

6

Per un puntuale riscontro delle obiezioni levate nei confronti delle teorie neoistituzionaliste dell’impresa, si veda sempre: Sacconi, 2005a (pp. 103-106).

(stakeholder value). La RSI tende in questo modo a identificarsi, per Sacconi, con la prospettiva del governo multi-fiduciario dell’impresa, oggi ampiamente presente nella letteratura manageriale ed organizzativa (Freeman, Goodpaster, Clarkson)7.

È da notare però, ancora una volta, come qui, a differenza che nel multi-

stakeholder model di Freeman evolutosi in senso normativo sotto il segno

della deontologia kantiana (Evan, Freeman 1988), un ancoraggio etico appaia pleonastico. I diritti fiduciari degli stakeholder non sono diritti morali (aventi valore in sé), ma strumenti utili all’esistenza e al successo dell’organizzazione. Infatti, il ragionamento che guida al loro riconoscimento non si appoggia su un valore morale (solo di passaggio l’autore segnala il problema dell’iniquità nella distribuzione del surplus quale realistico esito di un eventuale abuso dell’autorità in seno all’organizzazione), bensì si appoggia in modo decisivo sul fatto che “l’iniquità distributiva attesa a sua volta rende instabile la soluzione istituzionale (cioè l’impresa stessa)” (Sacconi, 2005a: 106). Ciò che è in gioco è una conseguenza, non un principio, e dunque è la razionalità economica (ipotetica), non la razionalità morale (categorica), a tenere banco: se non si statuiscono i doveri fiduciari allargati, allora i soggetti non controllanti o non entreranno in quella struttura di relazioni gerarchiche che è l’impresa, oppure, una volta entrati, saranno sempre alla ricerca di occasioni favorevoli per compensare surrettiziamente gli svantaggi patiti. Il nodo cruciale, insomma, è quello degli effetti: lo scenario, prevedibile, attraversato da opportunismo, propensione a sotto- investire o a disinvestire, generalizzata sfiducia, precarietà organizzativa.

Fin qui il primo versante della proposta di Sacconi. Ma se ne apre un secondo. Infatti, mirando a respingere le obiezioni sollevate dagli avversari del multi-stakeholder model (Jensen, Sternberg) grazie alla forza di un diverso statuto delle argomentazioni, egli ritiene di dover offrire anche un sostegno normativo al modello. Prova quindi a giustificarne su basi etiche i principi strutturali (in particolare, quello dei “doveri fiduciari allargati”), così come la necessità razionale dell’insorgenza. In breve, dovrà dimostrare:

a) quale sia l’estensione legittima dei doveri fiduciari verso ciascuno stakeholder e quale debba essere, pertanto, il giusto equilibrio reciproco tra

i correlativi diritti degli stakeholder;

b) che l’impresa governata secondo il multi-stakeholder model è quella

che risolve in modo equo i problemi derivanti dai costi di contrattazione e

7

dai costi di governo (ossia, i problemi per superare i quali nasce l’impresa stessa come istituzione), e dunque si identifica con l’impresa giusta.

Come si vede, sia in a) sia in b), sono poste questioni normative (relative a legittimità, equità, giustizia), che Sacconi affronta però con i medesimi strumenti concettuali - la rational choice e la teoria dei giochi - impiegati in precedenza nell’ambito dell’analisi economica dell’impresa. L’oggetto d’analisi restano infatti le scelte individuali, assunte come motivate dall’interesse personale e guidate dal calcolo razionale, e il loro coordinarsi (e confliggere) per il raggiungimento di un vantaggio comune (il surplus frutto della cooperazione, o produzione di squadra). Ma la prospettiva ora può dirsi etica, e non più meramente economica, perché ciò a cui si mira è la definizione dell’“insieme dei criteri imparziali per la presa di scelte collettive”; ed è questo il senso in cui “l’etica […] entra in gioco quale parte della governance e della gestione dell’impresa” (Sacconi, 2005b: 119).

La formula della “imparzialità dei criteri” ne richiama alla mente subito altre, tipiche dell’etica razionale, come quella dell’universalità della legge morale (Locke, Kant), dello “spettatore simpatetico imparziale” (Smith), del “principio di universalizzazione” (Habermas), della “posizione originaria” (Rawls). Essa richiede però di essere precisata meglio.

Sacconi pensa che alla definizione dei “criteri imparziali per la presa di scelte collettive”, ossia, per esempio, di un criterio in grado di stabilire un corretto equilibrio tra gli interessi degli stakeholder - vedi la questione a) -, si possa arrivare solo attraverso un processo di contrattazione tra gli tutti gli stakeholder (o i loro rappresentanti), tale che sia libero da costrizione, frode o manipolazione e in cui gli attori compaiano su un piano di parità, con il solo intento di valutare l’utilità per sé e per gli altri di ciascuna ipotesi di accordo8, fino a scoprire qual è l’esatta intersezione dei termini di accordo accettabili per ciascuno “dal suo particolare punto di vista”. In questo senso, benché il processo di contrattazione sia delineato in nome di principi morali (libertà e eguaglianza), il suo obiettivo, ossia il conseguimento di una soluzione distributiva “reciprocamente vantaggiosa”, rivela il sostrato individualistico e utilitaristico della prospettiva etica così delineata. A decidere dell’equità dell’equilibrio raggiunto tra gli stakeholder non è infatti la mera equità della procedura contrattuale seguita, bensì la constatazione dell’utilità o vantaggio comune derivatone.

8

“[…] - ciascuno mette a turno se stesso nella posizione di ogni altro, e nella posizione di ciascuno accetta o rifiuta le alternative soluzioni contrattuali […]” (Sacconi, 2005b: 121).

Siamo, pertanto, all’interno di un quadro teorico in cui si disegna certo, á

la Rawls, il profilo di un processo di contrattazione ideale, ovvero di un

“contratto sociale” come pietra di paragone su cui misurare l’equità o meno dei processi reali di contrattazione e gestione strategica (Sacconi parla di “contratto sociale tra gli stakeholder dell’impresa”). Tuttavia, l’attenzione agli esiti, oltre che alla procedura, come parametro dell’equità mi pare spinga Sacconi al di fuori della deontologia, in direzione di un contrattualismo consequenzialista (o realista), com’è quello di derivazione hobbesiana, molto vicino per altro, nei suoi tratti di fondo, alla morale neo- utilitarista di John Harsanyi9.

Questa lettura sembra trovare conferma, poi, anche nel recupero che Sacconi fa della tradizione classica del contratto sociale, mediante la costruzione di una storia razionale ed ipotetica dell’impresa, a partire da uno “stato di natura” precedente ogni istituzione, di chiara ascendenza hobbesiana. Attraverso questa strada, a suo avviso, si comprendono bene la caoticità e l’irrazionalità (elevatissimi costi di contrattazione e opportunismo) di uno stato dove gli stakeholder abbiano mere relazioni bilaterali al di fuori di vincoli reciproci istituzionalizzati; viene così a giustificarsi in via normativa, ma su basi utilitaristiche, la nascita di un’associazione, l’impresa, entrando nella quale ogni stakeholder si impegna a produrre il massimo surplus possibile e ad accettare la sua equa distribuzione (pactum unionis). Soprattutto, però, grazie alla successiva constatazione dell’inefficienza di questo primo contratto in mancanza di un’autorità che ne sanzioni le molte violazioni possibili, si può dedurre la necessità di un secondo contratto che crei un’autorità legittima di governo, e vedere perciò giustificata, sempre in via normativa, l’impresa come struttura gerarchica (pactum subjectionis). Su questo sfondo emerge, infine, anche la necessità razionale di una “clausola fiduciaria estesa”, con la quale si statuiscono i doveri fiduciari verso tutti gli stakeholder come argine contro gli abusi di autorità. Ecco così soddisfatta la questione posta alla lettera b).

Come si nota, le questioni normative evidenziate in a) e in b) non hanno richiesto per la loro soluzione altro che un coerente uso dei concetti di interesse personale e ragione strumentale: l’etica, dunque, come espressione della razionalità economica? È questo un interrogativo che qui,

9

Cfr. J. Harsanyi, Moralità e teoria del comportamento razionale, in Sen A., Williams B. (a cura di), Utilitarismo e oltre, Il Saggiatore, Milano, 2002.

come per il neo-contrattualismo realista di Gauthier o Buchanan, o per il neo-utilitarismo di Harsanyi, è lecito formulare10.

Verso la razionalità economica, e addirittura verso un suo uso virtuosistico derivato dalla teoria dei giochi, Sacconi inclina poi anche in un’altra importante zona della sua proposta, laddove cerca di spiegare come nel paradigma della RSI, ovvero del governo multi-fiduciario, a pieno titolo l’equilibrio tra gli interessi di tutte le parti coinvolte possa rappresentare la funzione-obiettivo dell’impresa. Egli intende così replicare alla denuncia di indeterminatezza e equivocità della funzione- obiettivo mossa dai critici dello stakeholder value, i quali ritengono che soltanto lo shareholder value rivesta invece quei caratteri di oggettività e determinatezza in grado di vincolare la discrezionalità manageriale ad un

benchmark per la valutazione delle performance d’impresa. In questo

quadro, dunque, viene avanzato un modello matematico di gioco cooperativo di contrattazione (desunto dalle teorie di Nash, Harsanyi e Zeuthen), che consente di calcolare la soluzione del gioco di contrattazione tra diversi stakeholder e di sostituire la massimizzazione della funzione che assegna quella soluzione alla tradizionale massimizzazione della funzione di profitto, o alle altre formule con cui si è soliti misurare le

performance orientate alla crescita del valore per l’azionista.

Per concludere, la posizione di Sacconi appare come una delle più rilevanti della scena italiana, sia per l’ampio ventaglio di questioni affrontate (in un brillante confronto con le principali teorie contemporanee dell’impresa), sia per la duplice linea di riflessione, economica ed etica, battuta come a segnalare la sostanziale convergenza di due differenti campi disciplinari, quello dell’analisi economica delle istituzioni e quello della teoria normativa del contratto sociale, verso uno stesso punto di fuga: la RSI quale forma compiuta del governo dell’impresa. E, se l’interpretazione qui suggerita è corretta, il senso di una tale convergenza si appoggia su un assunto teorico “forte”, ancorché non detto e, anzi, in parte oscurato dall’evolversi in parallelo e in autonomia delle due linee di riflessione: l’assunto, cioè, secondo cui la razionalità economica è la razionalità tout court ed è in grado, pertanto, di fornire allo stesso modo prestazioni analitico-descrittive (teoria economica dell’impresa) e prestazioni prescrittive (teoria normativa dell’impresa).

10

Cfr. D. Gauthier, Morals by Agreements, Clarendon Press, Oxford, 1987; J. Buchanan,

b) Competitività, attese sociali e strategia aziendale

Nell’ambito delle scienze economiche, soprattutto a motivo della curvatura neopositivistica da esse assunta a partire dagli anni ’30 del secolo scorso, l’etica è stata concepita a lungo come un territorio straniero, delimitato da un chiaro confine (Robbins, 1953). E nonostante sia ormai stato denunciato da tempo l’errore dogmatico alla base dell’asserita estraneità tra economia ed etica (Sen, 1988), resta tuttora radicata l’idea del salto epistemologico che separerebbe la prima, scienza dei puri mezzi, dalla seconda, riflessione (non scientifica) sui fini. Con il corollario che ogni indicazione relativa ai fini dell’agire, tale che pretenda di influenzare o addirittura guidare la scelta dei mezzi al di fuori del calcolo del loro impiego ottimale, appare all’economista un’invasione di campo indebita e ingiustificabile. È, dunque, del tutto normale che costui veda in una qualunque lettura morale della RSI (in specie, se di matrice deontologica) l’espressione di “criteri etici estrinseci alla vita dell’azienda, percepiti come vincoli per le decisioni e le conseguenti azioni” (Molteni, 2004: XII). Mentre, dal suo punto di vista,

[…] l’assunzione di una responsabilità sociale […] diventa interessante quando nel concreto si dimostra conveniente, nel senso etimologico di con-venire, cioè di incontrarsi, di ‘essere in armonia con’ le esigenze poste dagli obiettivi di competitività ed economicità dell’impresa. (ibidem)

In altre parole, se concepita in termini etici (deontologici) la RSI finisce per essere una costruzione moralistica, intessuta di doveri e limitazioni, che la rendono astratta e inapplicabile alla realtà economica. Viceversa, essa diventa degna di attenzione ove dimostri la sua “convenienza”, ossia la sua fungibilità economica, la sua idoneità a inscriversi “nella strategia d’impresa sì da tendere a costituire una fonte di vantaggio competitivo” (Molteni, 2004: 15). E, come s’intuisce, l’idea di un “con-venire”, cioè di un accompagnarsi o integrarsi spontaneo (perché vantaggioso) dell’atteggiamento socialmente responsabile con i tradizionali obiettivi della performance economica, è un’idea attraente, soprattutto per la promessa di realismo che pare connotarla, a confronto con l’idealismo dell’etica dei doveri.

In questo paragrafo, quindi, scendendo dal piano generale delle teorie dell’impresa scandagliato in precedenza al piano operativo delle strategie di direzione aziendale, proveremo a guardare un po’ più da vicino la tesi “realistica”, di cui sopra, servendoci del contributo di Mario Molteni, che

ha proposto una stimolante interpretazione della RSI secondo la chiave detta della “sintesi socio-competitiva”.

Il postulato iniziale, sulla falsariga dell’ormai ben nota definizione del Libro Verde della Commissione Europea del 2001, è che

per RSI si intende la tensione dell’impresa – e dunque in primis dei vertici aziendali – a soddisfare in misura sempre crescente, andando al di là degli obblighi di legge, le legittime attese sociali e ambientali, oltre che economiche, dei vari portatori di interesse (o

stakeholder) interni ed esterni, mediante lo svolgimento delle proprie attività. (ibidem: 4)

Molteni precisa però subito come in questa formulazione le “legittime attese sociali e ambientali” siano da considerarsi soltanto aggiuntive e non superiori alle normali attese economiche. Dunque, nell’espressione “oltre a quelle [le attese] economiche” non è da vedersi il segno di un progetto di spostamento dell’attività aziendale verso obiettivi di natura “trans- economica” capaci di riqualificarla nel suo complesso come socialmente responsabile11. Bensì è da vedersi il monito con cui si ricorda che le nuove dimensioni dell’attività aziendale si sommano alle vecchie, le quali mantengono tuttavia il loro primato, poiché l’impresa deve prima operare per assicurarsi condizioni di esistenza e di sviluppo (performance reddituali), così da potere poi curarsi delle legittime aspettative degli

stakeholder.

Sto qui forzando un poco la lettera per arrivare meglio allo spirito del testo di Molteni, che vorrebbe, da un lato, mantenere sullo stesso piano vitalità economica e orientamento sociale dell’impresa, ma che, dall’altro, è portato a privilegiare comunque il primo elemento, come mostrano a

contrario gli esempi da lui stesso addotti (la crisi di un’impresa importante

per la prosperità di un determinato territorio può avere conseguenze negative anche sulla coesione del suo tessuto sociale; oppure, la mancanza di valide imprese che assicurino lavoro e reddito nelle aree sottosviluppate