• Non ci sono risultati.

Accanto a quelli economici esistono, in Italia, itinerari teorici alla RSI che siano di stampo prettamente sociologico? E se sì, è possibile parlare anche di una fondazione sociologica della RSI, così come in precedenza si è discorso di una sua fondazione economica?

Di approcci sociologici alla RSI certo ve ne sono, ma il loro paesaggio è estremamente composito ed è pertanto difficile restituirne un quadro unitario. Inoltre, le voci più significative si caratterizzano per una forte originalità, la quale ha per conseguenza non solo di rendere le une difficilmente confrontabili con le altre, ma anche di portarle a travalicare i confini disciplinari o a ridisegnarli creativamente. Ciò accade, come vedremo, nel caso di Luciano Gallino che, a partire da una fitta analisi di dati economici e giuridici, elabora la sua proposta in una chiave socio- politica. E accade a maggior ragione nel caso di Giulio Sapelli, che prova a tenere insieme l’apparentemente inconciliabile, ovvero fatti e valori, prospettiva sociologico-manageriale e teoria dei doveri morali. Ancora più eccentrica, infine, potrà apparire la citazione di un non sociologo come Guido Rossi, che vogliamo tuttavia includere in questa sezione per lo sguardo largo con cui si accosta al tema della responsabilità (o meglio, dell’irresponsabilità) dell’impresa ed assimila la materia giuridica, etica ed economica all’interno di un paradigma diagnostico di matrice sociologica.

Con questa situazione complessa occorrerà fare i conti anche nel tentativo di rispondere al secondo quesito di cui sopra. Due delle voci raccolte (Sapelli e Rossi) mostrano un’attitudine spiccatamente descrittiva, ben radicata nell’esame empirico dei fenomeni e aliena dal costruire modelli o concetti normativi della RSI, come succede, invece, nella proposta economica di Sacconi, ma anche in quella di Molteni, con il suo paradigma socio-competitivo, o persino in quella di Zamagni, dove l’impresa civile diventa quasi la meta di un’utopia sociale. Per converso, le altre due voci (Gallino e Butera), benché camminino, ancor più delle prime due, su gambe indubbiamente sociologiche, finiscono per dare spazio ad un certo normativismo, laddove la RSI, come si vedrà, viene da loro tipizzata non tanto per fini conoscitivi, com’è metodologicamente corretto fare nel campo delle scienze sociali, ma per fini ideologici: più che ideal- tipi weberiani, in altre parole, la “impresa responsabile” di Gallino e la “impresa eccellente socialmente capace” di Butera rischiano di risultare entità sociali ideali additate all’approvazione pubblica e all’azione politica (latamente intesa).

In questo senso, se per “fondazione sociologica della RSI” intendiamo l’edificazione di teorie sociologiche che si facciano veicolo di una giustificazione “forte” della RSI, allora qualcosa di simile comparirà, ma solo in questi ultimi contributi. E tuttavia non è forse illegittimo parlare di modelli normativi e di giustificazionismo in campo sociologico? È questo un ulteriore quesito che grava, impercettibilmente, sul dibattito, ma che ci riserviamo di affrontare nelle pagine finali di riflessione e sintesi.

a) Anti-utilitarismo, responsabilità e autonomia sociale dell’impresa

Sebbene profondamente diversi tra loro, gli approcci economici esaminati condividono un medesimo tratto: certo senza mettersi a cantare il ritornello banalizzante, “good ethics is good business”, oggi di gran voga nella letteratura manageriale e nell’etica degli affari, pur tuttavia essi mirano a dimostrare la compatibilità tra responsabilità sociale e finalità economiche dell’impresa - qualcosa di non troppo dissimile, in fondo, da quel ritornello.

Dominante nell’arena pubblica, questa linea interpretativa che trasforma la RSI (e più in generale l’etica) in una variabile economica non può non essere oggetto di critica. In Giulio Sapelli essa ha trovato il suo più noto e severo censore, capace di affermazioni perentorie (spesso liquidatorie27) e, da un’ottica economica, sicuramente paradossali. Eccone una ad esempio:

Naturalmente l’essere socialmente responsabili […] comporta dei vantaggi. Alla reputazione dell’impresa, infatti, si accompagna una valutazione economica se essa opera in una società in cui si reputa conveniente che le imprese assumano un comportamento etico […]. […] però è anche necessario ammettere che la maggior parte dei sistemi sociali non crede che la moralità sia valutabile in termini economici. Pertanto, se l’imprenditore

ritiene che l’impresa deve anche essere etica, deve agire di conseguenza, malgrado non sia conveniente. Sono contrario all’idea di coloro che sostengono che occorra essere etici

perché l’etica è redditizia. (Sapelli, 2004: 100)

Questa, come altre censure (Rossi, 2003), sottintendono ovviamente una precisa opzione filosofico-morale di segno antiutilitarista, che nel caso di Sapelli guarda direttamente a Kant e alla delimitazione della sfera etica come sfera della coscienza personale e dell’autonomia.

27

“Il collegamento tra responsabilità d’impresa e valorizzazione dell’impresa non porta da nessuna parte. Dico di più: teoricamente confondiamo il valore reputazionale dell’impresa con l’etica d’impresa. Il primo è qualcosa di molto serio, di importante e che va perseguito. La responsabilità sociale dell’impresa è, tuttavia, ben altra cosa” (Sapelli, 2003: 55).

Se si pretende, dunque, dall’impresa una responsabilità etica nei confronti della società, non ci si può poi attendere che essa vi soddisfi sulla base di un calcolo di convenienza. Per essere etica, infatti, la sua azione dovrà scaturire da un “impegno morale collettivo”, ossia essere la manifestazione di scelte condivise, ma soprattutto “compiute per convinzione intima e profonda” da parte di “persone morali”, quali sono appunto quelle di cui consta l’impresa in quanto istituzione societaria. Si capisce, allora, come

da queste [le scelte morali] si potranno avere dei frutti sui piani della reputazione e dell’immagine, ma nel lungo periodo e con l’impossibilità di misurarne gli impatti sulle

performance economiche delle imprese medesime. (Sapelli, 2007: 9)

Il che equivale a dire, kantianamente, che se il valore risiede nella coscienza ed è assorbito per intero dall’intenzione all’origine dell’atto, esso è (e rimane) meta-fenomenico: il suo esserci è inosservabile, non desumibile dalle conseguenze dell’azione, né a queste correlabile. Non ha senso, perciò, la propaganda “good ethics is good buisiness”, dato che la moralità delle scelte non solo potrebbe anche non riuscire ad emergere e ad imporsi nell’orizzonte dei fatti (scelgo il bene e me ne viene uno svantaggio), ma - e questo il punto decisivo - il suo rapporto di causalità con gli esiti eventualmente positivi (scelgo il bene e mene viene un vantaggio) è empiricamente indimostrabile.

Guardare all’impresa dalle altezze metafisiche della teoria morale kantiana può dare le vertigini, soprattutto a petto delle bassure a cui ci siamo abituati per il clamore ricorrente dei corporate scandals. Tuttavia Sapelli non vi rinuncia28 ed è pronto, anzi, a disegnare dell’impresa un profilo quasi spirituale, sicuramente anti-riduzionistico, che potremmo definire etico-sociale:

L’impresa è uno specialissimo costrutto sociale a fondamento economico in cui la lotta contro il male deve continuare a impegnare l’umano. (ibidem)

La lotta contro il male, dunque; niente di meno! E però condotta a partire dallo specifico reale, che per l’impresa è di essere un “costrutto sociale a fondamento economico”. Questa formula evidenzia così i due lati di cui il

28

“[…] la Corporate Social Responsibility deve diventare una nuova teoria dei doveri sociali. È in questa luce che dobbiamo rileggere l’etica della responsabilità […] come fondamento di un’integrità personale che si riconosce kantianamente nell’impegno quotidiano (mai perfetto) per costruire un mondo sostenibile per le generazioni future” (Sapelli, 2003: 56).

corpo dell’impresa è formato: il primo, quello interno, che presuppone l’esistenza di una molteplicità di componenti e, dunque, l’esserci di soggetti morali differenziati, coinvolti appunto nella “lotta contro il male”; il secondo, invece, quello esterno, che è il lato attraverso cui l’impresa come soggetto unitario entra in relazione con la società. E una tale duplicità oggettuale, secondo Sapelli, chiama su di sé una corrispondente duplicità teorica: due distinti spazi d’analisi si prospettano.

In primo luogo, lo sguardo sociologico innervato da una peculiare attenzione all’impresa come associazione di persone morali apre lo spazio dell’etica rispetto all’impresa. Qui si esaminano le questioni etiche che nascono dal rapporto tra organizzazione e persona, ossia tra l’omogeneità (almeno parziale) dei valori richiesta a garanzia dell’operatività e coesione organizzativa e il pluralismo dei valori inerente alla particolarità dei singoli. E, sia detto tra parentesi, proprio nella “tensione e conflittualità tra socializzazione comunitaria d’impresa […] e affermazione di una moralità autocentrata […]” è da vedersi, secondo Sapelli, “una costante della storia «morale» dell’impresa moderna” (ibidem: 22-23).

In secondo luogo, lo sguardo sociologico puntato sull’impresa come istituzione in rapporto dinamico con i sistemi sociali in cui è inserita apre lo spazio della responsabilità sociale dell’impresa. Qui “i dilemmi morali scaturiranno dall’interrogazione, in base ai paradigmi prescelti, su ciò che si crede sia «giusto» e «buono» rispetto ai mercati e all’ambiente esterno all’impresa” (ibidem: 16-17). Limiterò, dunque, a questo secondo spazio d’analisi il prosieguo della ricostruzione.

Per Sapelli, una volta che si siano abbandonati gli angoli visuali economici (nel senso del riduzionismo neoclassico, del neo- istituzionalismo, o anche dell’economia civile), da un punto di vista prettamente sociologico l’impresa si presenta come quell’istituzione, basilare in una società fortemente differenziata, a cui nella divisione sociale del lavoro è attribuita la funzione di produrre il sovrappiù. Essa non è dunque né un artificio giuridico - una “catena di contratti”, al cui capo siedano i diritti proprietari e al cui termine sia posta la massimizzazione del valore per l’azionista (shareholder value) - né è soltanto una struttura di governo in grado di ridurre i costi di transazione e gli inconvenienti dell’incompletezza contrattuale, mediante un’equa remunerazione di tutte la parti interessate (stakeholder value). È piuttosto un “soggetto storico bisognoso sempre di legittimazione”, cioè un’istituzione dinamica che, certo sulla base della ricerca del profitto quale metro di misura della sua efficienza funzionale (la produzione del sovrappiù), ma anche attraverso un rapporto transitivo e di innovazione rispetto alla società, quando non

addirittura di devianza29, costruisce la sua legittimità sociale. L’impresa dà e riceve, oppure (o insieme) fuoriesce dagli assetti stabiliti e li scardina, ricostruendo così l’ambiente sociale, almeno parzialmente, a propria immagine.

È in questo quadro che va inscritto il tema della RSI, che Sapelli tende tuttavia ad articolare su due versanti: l’uno, di carattere più generale (e perfettamente sovrapponibile con la trattazione del paradigma della RSI svolta in questa ricerca), che chiama delle responsabilità dell’impresa “intese come contributo che l’impresa dà alla costruzione di società”; l’altro, più specifico, circoscrivibile ad una responsabilità sociale in senso ristretto, annoverata accanto ad una altrettanto particolare responsabilità civile e ad una simile responsabilità politica.

Innanzitutto, è bene precisare che il tema delle responsabilità dell’impresa, nella sua massima latitudine, non è null’altro che una delle incarnazioni possibili della questione del rapporto tra impresa e società. Un momento essenziale della sua comprensione, pertanto, sta nella messa a fuoco proprio della nozione di “ambiente sociale”. E, da un’ottica sistemica aperta e multifattoriale, anziché monocentrica, Sapelli ne suggerisce la seguente definizione:

quella rete di relazioni e di fattori economici, socio-politici e istituzionali, che interagiscono volta a volta con le diverse funzioni dell’impresa in contesti definiti dal suo comportamento e dal suo orientamento strategico. (ibidem: 44)

È fondamentale, come già anticipato, guardare all’ambiente sociale come al polo di una relazione dinamica continuamente riconfigurato dalla relazione medesima, ossia dai modi con cui l’altro polo - l’impresa - si connette ad esso. (Questa idea di una co-determinazione processuale è utilizzata da Sapelli, in altro ambito, anche per leggere il rapporto di coevoluzione tra impresa e ambiente fisico). Di conseguenza, le responsabilità dell’impresa saranno da intendersi come precipua prerogativa del management, individuata dalla “interconnessione consapevole e riflessiva che attraverso di essa si stabilisce tra funzioni d’impresa e ambiente” (ibidem). È il management, in altre parole, ad avere tra i suoi compiti anche quello di portare l’ambiente all’interno delle pratiche di pianificazione e gestione aziendale, giacché internalizzandone i molteplici fattori - non solo quelli economici, ma anche quelli culturali (o

29

“ […] l’imprenditore di Schumpeter è un deviante sociale che affida all’impresa un ruolo che è anche quello di poter migliorare la società. […] Non è affatto vero che […] le imprese sono solo il frutto dei sistemi sociali” (Sapelli, 2007: 113-114).

“socio-politici”) e istituzionali - riuscirà a ridurre le diseconomie esterne e a dissodare il terreno (di mercato e di non mercato) su cui far fiorire la ricerca della legittimità sociale.

In questa prospettiva, allora, per Sapelli è bene guardare alle responsabilità d’impresa non come a fenomeni di eteronomia sociale - doveri derivanti dalla subalternità dell’impresa all’ambiente (società civile, sistema politico-istituzionale) - ma come a manifestazioni di autonomia ed

integrità istituzionale. Va negata, in altri termini, la visione organicistica

che dichiara responsabile l’impresa se sussunta alla struttura sociale; mentre va affermata l’opposta visione per cui l’impresa è responsabile ove capace di autodeterminazione, cioè di decisione indipendente e creativa sui modi della propria funzionalità economica, nella quale, appunto, si compie la sua integrità di istituzione sociale30.

Questo è il cuore della proposta di Sapelli, e per chiarezza espositiva è opportuno ripetere brevemente. L’esercizio di responsabilità con cui l’impresa, nel mentre realizza il surplus necessario alla riproduzione materiale della società, contribuisce alla “costruzione di società” è da pensarsi secondo la categoria kantiana dell’autonomia. (Perciò la tendenza generale all’autoregolamentazione, all’assunzione autonoma di obbligazioni, è da ritenersi del tutto pertinente alla pratica della responsabilità aziendale31). Ciò significa, dunque, due cose: primo, che le responsabilità dell’impresa non sono tali da definirsi per eteronomia, cioè in vista di fini allogeni alla funzione economica32; secondo, che sono responsabilità coincidenti con la pratica dell’autoriflessività, da cui scaturiscono, tra l’altro, specifiche “morali di sostegno” del mercato.

Infatti, riassumendo, l’idea-forza è che le responsabilità dell’impresa si dispieghino, una volta dismesse le illusioni di matrice neo-classica circa la separatezza e l’autosufficienza del mercato, nell’operare attivamente e in

30 “Una teoria economica, sociologica e antropologica dell’impresa rinnovata […] pone al

centro le sue responsabilità autonome, che si configurano come prerequisiti essenziali per riprodurre la stessa impresa come attore economico, anziché negarla nei suoi fondamenti costitutivi […]” (ibidem: 87).

31

Come si vede, si ha qui un potente incrocio con lo spazio d’analisi dell’etica rispetto

all’impresa, giacché le “carte dei valori” o i “codici etici”, i noti strumenti dell’etica

aziendale, sono interpretabili proprio come una delle espressione più chiare della pratica della responsabilità come autodeterminazione ed indipendenza dal controllo socio-politico e socio-istituzionale.

32

“Adriano Olivetti si chiedeva: «Può l’industria avere dei fini?». Indubbiamente. Oltre a quello di produrre plusvalore e merci, l’impresa può avere dei fini extraeconomici, una

volta raggiunti - o nel mentre si lavora per raggiungere - quelli economici” (Sapelli, 2004:

autonomia sull’ambiente per plasmare nuove istituzioni sociali e migliori. In questo modo, esse si risolvono concretamente nella

[…] creazione delle possibilità di agire in ambienti sempre meno imperfetti sul piano competitivo, se sono di mercato, e sempre più civilizzati, pervasi dalla legge, dalla fiducia e dal benessere, se sono non di mercato. (ibidem: 91)

Ora, tra le istituzioni oggetto di questo processo di “costruzione di società” vanno incluse anche le “morali di sostegno” del mercato, tanto necessarie al buon andamento dell’economia (la storia normalmente s’incarica di dimostrarlo), quanto alla riproducibilità sociale dell’impresa stessa. In altre parole, con la sua azione responsabile l’impresa pure preforma abiti cognitivi e diffonde valori essenziali alla sua legittimazione morale. E lo fa su tre fronti particolari: creando “culture antropologicamente coerenti con i principi dell’autoresponsabilità, della libera iniziativa, dell’imprenditorialità diffusa […]”; rafforzando “le aree o le sfere dell’attribuzione di dignità della persona e alla persona in campo giuridico e morale […]”; e presentando se stessa come “istituzione produttrice di ricchezza, d’innovazione tecnologica, organizzativa e di benessere” (ibidem: 87).

All’interno di questa architettura generale, che rappresenta il complesso della proposta teorica di Sapelli sulla RSI, va poi ad inscriversi quella tripartizione delle responsabilità d’impresa in sociale (in senso stretto),

civile e politica, cui si è accennato sopra. Questa classificazione serve a

specificare meglio i settori in cui si esplica la “costruzione di società” operata dall’impresa; ci consente, pertanto, di riflettere sui diversi contenuti di questa attività ove intervenga nell’ambito sociale, ossia nel sistema di relazioni tra attori economici che operano sui mercati; oppure nell’ambito civile, cioè nel sistema di relazioni politico-sociali che esprimono identità collettive, solidarietà e rappresentanza di interessi; o infine nell’ambito politico, ovvero nel sistema delle istituzioni statuali e partitiche.

Tralasciando gli ultimi due, vediamo come di responsabilità sociale in senso ristretto si possa parlare, per Sapelli, solo in riferimento alla “società economica”, dove quella si manifesta come “strategia che, mentre pone le basi per il superamento delle diseconomie esterne […], ha il fine di favorire lo sviluppo diffuso nel territorio” (ibidem: 54). Esemplificando: in una società economica in cui fosse scarsa o degradata la risorsa produttiva costituita dal patrimonio conoscitivo di tipo tecnico e professionale, l’azione di responsabilità sociale si concretizzerebbe nella collaborazione

dell’impresa con le strutture pubbliche per riqualificare il sistema formativo, così da avere “una ricaduta sull’impresa delle opportunità sociali (e non unicamente economiche) in tal modo create” (ibidem: 58). Gli esempi potrebbero essere tanti, ma parlerebbero sempre, comunque, di un simile “circolo virtuoso”, che dall’economico va al sociale e dal sociale torna all’economico.

Sin qui la raccolta e ricostruzione dei principali elementi teorici. La veduta d’assieme non può, però, non suggerire qualche riflessione critica. Sembra, infatti, venire alla luce un’aporia tra orientamento etico deontologico e analisi sociologica della RSI. Ma come? Dichiarando la RSI espressione dell’autonomia istituzionale dell’impresa e assegnandola addirittura in via prerogativa alla competenza strategica del management, non la si fa forse ripiombare nell’aborrito riduzionismo manageriale, in quell’utilitarismo che rende ogni aspetto dell’attività d’impresa subalterno alla sua funzionalità economica? Non c’è forse contraddizione tra l’ispirazione kantiana d’esordio (“se l’imprenditore ritiene che l’impresa deve anche essere etica, deve agire di conseguenza, malgrado non sia

conveniente”) e la formulazione della RSI in termini socio-manageriali33, come nel caso appena esaminato del “circolo virtuoso” che dall’economico penetra nel sociale per riavvolgersi infine sull’economico?

In realtà, s’intravede uno stretto sentiero al di là dell’aporia, che si rivela così solo apparente. Infatti Sapelli sviluppa, sebbene in maniera non sistematica, una nutrita serie di rimandi alla moralità delle persone e all’etica dell’impresa (la condivisione di valori come sostrato della mission aziendale) considerate quali forze propulsive delle azioni di responsabilità. Dunque, l’orientamento morale e quello strategico verrebbero a conciliarsi nel senso che il primo serve da risorsa organizzativa per il secondo, senza che la sua purezza deontologica ne sia intaccata. Perché la RSI finisce sì con l’essere espressione dell’oggettività (co-determinata) del rapporto tra impresa ed ambiente, ma a partire da una scaturigine soggettiva - la “cultura trasformatrice dell’imprenditore e delle persone che agiscono al suo fianco” (Sapelli, 2004: 99) - la quale vuole farsi carico del benessere delle comunità.

Insomma, ciò che consente il superamento dell’inciampo teorico paventato è ancora una volta, in una chiave che potremmo dire socio-etica, la sottolineatura dell’autonomia: dimensione autentica della morale

33

Accanto all’approccio di strategic management elaborato da Ansoff, Sapelli si richiama anche al project planning e persino alla social responsiveness di Ackerman, che, come sappiamo, implica un esplicito rifiuto di qualsiasi lettura etica della RSI (cfr. supra, 2.1).

(interiorità) e, insieme, forza plasmatrice dell’ambiente (esteriorità); ovvero, fonte al tempo stesso sia dell’orientamento morale sia dell’orientamento strategico.

Possiamo così capire anche il senso della dura polemica di Sapelli nei confronti delle prospettive di omogeneizzazione della RSI, in primis di quelle promosse dalle autorità pubbliche, per la definizione di certificazioni, marchi di responsabilità sociale, standard di best practices per l’accesso a gare d’appalto o a concessioni, e quant’altro. A suo avviso, queste porterebbero all’inevitabile soffocamento della soggettività morale e creatrice; e contro un simile esito va affermato con recisione che “l’etica ha bisogno di libertà, non di stato; ha bisogno di autonomia, di comunità, e nega allo stato il diritto di dire ciò che è o non è etico” (ibidem: 106)34. E, ancora, con un accento di vera indignazione Sapelli conclude che

L’etica non si misura. Si possono misurare il bene e il male? Solo un essere privo di