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ASPETTI TEORIC

1.2. L’internazionalizzazione della produzione: un fenomeno “multidimesionale” Esegesi delle teorie

1.2.1. La dimensione microeconomica

1.2.1.1. L’approccio del potere di mercato

A questo approccio è riconducibile quello che è stato riconosciuto unanimemente dall’accademia come la prima teoria sull’internazionalizzazione della produzione, ovvero il lavoro di tesi di dottorato del 1960 a cura di Stephen Hymer, pubblicato postumo nel 1976 e, all’interno del quale, per la prima volta, viene declinato il concetto di investimento diretto estero.

Tale teoria, sviluppata per deduzione, è nata come critica esplicita da parte dell’autore alle teorie neoclassiche del commercio estero (Heckscher, 1919 e Ohlin, 1933) e dei movimenti internazionali di capitale (Ohlin, 1933, Nurske, 1933 e Iversen, 1935)13. Nell’opinione di Hymer (1960) queste teorie non erano in grado di spiegare i motivi per cui, le allora imprese multinazionali - nella fattispecie le imprese

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Come ricorda Ietto-Gillies (2005), la teoria neoclassica sul commercio estero - anche conosciuta come teoria del commercio basata sulle proporzioni dei fattori - elaborata da questi due autori si rifaceva alla teoria classica del commercio. Nella tradizione classica, la specializzazione produttiva di ciascun Paese ed il relativo interscambio di prodotti tra Paesi diversi emergono come risultato di differenze nei costi di produzione (siano questi assoluti come sosteneva Smith (1776) o relativi nell’analisi di Ricardo (1817)). Il contributo offerto dai teorici neoclassici sul tema ha riguardato l’individuazione delle determinanti delle differenze nei costi di produzione. Hecsker (1919) e Ohlin (1933) infatti compresero che sono le differenze delle quantità relative di fattori disponibili in ciascun Paese a determinare le differenze nei costi relativi di produzione. Le teorie neoclassiche sui movimenti di capitale consideravano, invece, gli spostamenti da una posizione di equilibrio ad un’altra ed analizzavano in forma comparativa gli effetti dei movimenti di capitali tra i due equilibri.

51 americane - intraprendessero attività economiche all’estero, cioè effettuassero ingenti investimenti internazionali. L’autore criticava l’ipotesi di base delle teorie neoclassiche, ovvero quella della perfetta concorrenzialità dei mercati, dimostrando su basi sia teoriche che empiriche che sono invece le imperfezioni del mercato a rendere difficoltosa la spiegazione degli investimenti internazionali, fino ad allora investimenti di portafoglio, all’interno della teoria neoclassica. Partendo da questo presupposto, Hymer (1960) ha elaborato una vera e propria teoria delle operazioni internazionali delle grandi imprese, teoria che prima del suo studio non esisteva.

L’originalità dell’analisi di questo autore risiede nell’introduzione della distinzione fra investimento di portafoglio ed investimento diretto che le imprese attuano in ambito extra nazionale. Attraverso tale distinzione Hymer (1960) fu in grado di spiegare, rifacendosi in primis alla teoria dell’impresa e dell’economia industriale, la ragione per cui le imprese si trasferiscono all’estero per avviare un’attività produttiva oltre confine. All’origine del suo ragionamento trova fondamento la tesi secondo la quale l’impresa è da considerarsi come lo strumento per mezzo del quale i produttori hanno la possibilità di incrementare il loro potere di mercato in ambito internazionale.

L’intuizione di Hymer (1960) si basò sull’operazionalizzazione della differenza tra due tipologie di movimenti di capitali privati a lungo termine: l’investimento di portafoglio e l’investimento diretto estero. Ovvero, egli riuscì a dimostrare che, all’atto di un investimento internazionale, l’impresa che effettua l’investimento ha incentivo a controllare l’impresa estera nel Paese in cui tale investimento viene effettuato. In questi termini, la differenza tra investimento di portafoglio e investimento diretto estero si esplica attorno al concetto di “controllo”.

52 L’autore sostiene, infatti, che nel caso di un investimento diretto la motivazione a controllare l’impresa estera non è la prudenza dell’impiego delle risorse al fine di assicurare la sicurezza del proprio investimento14, bensì il controllo giuridico dell’impresa estera, ovvero la partecipazione al capitale produttivo di questa da parte dell’impresa investitrice, è una componente necessaria per eliminare la concorrenza con le imprese di altri paesi su un determinato mercato internazionale.

E’ a partire da questa considerazione che Hymer (1960) ipotizza che se i mercati non sono perfettamente concorrenziali – smentendo quindi l’ipotesi neoclassica – quindi, se esistono situazioni di monopolio od oligopolio, per alcune imprese potrebbe esser redditizio colludere, ad esempio riunendo diverse imprese sotto la proprietà ed il controllo giuridico di un’unica impresa. Motivo per cui, le imperfezioni del mercato costituiscono, nell’ottica dell’autore, una delle principali motivazioni che potrebbero spingere un’impresa ad avere incentivo a controllare altre imprese all’estero. Una seconda motivazione nasce dal fatto che le imprese si differenziano tra loro per la capacità di operare in un particolare settore industriale. Se un’impresa possiede dei vantaggi sulle altre nella produzione di un particolare output nel proprio mercato domestico, quest’ultima potrebbe ritenere proficuo intraprendere tale produzione anche in un paese estero. In questo senso, il movimento di capitale produttivo è in parte necessario ad acquisire una quota dell’impresa estera e ad ottenerne in questo modo il controllo giuridico. Di conseguenza, la motivazione alla base dell’investimento internazionale non è il maggior tasso di interesse che l’impresa

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Questa caratteristica è la ratio dell’investimento di portafoglio. Per la dettagliata

descrizione delle differenze tra investimento di portafoglio ed investimento diretto estero, si veda il contributo integrale di Hymer (1960).

53 riscuoterebbe all’estero, bensì i profitti derivanti dal controllo dell’impresa estera che si otterrebbero tramite IDE.

Queste sono le due principali ragioni per le quali, secondo Hymer (1960), è redditizio per le imprese di un paese controllare imprese in un altro paese, a parte il desiderio di assicurarsi che le risorse vengano impiegate con prudenza. Da qui, focalizzando l’attenzione sulle operazioni internazionali delle grandi multinazionali americane nel periodo post-bellico, l’autore deduce che è il comportamento dell’impresa, ovvero il meccanismo attraverso il quale la multinazionale è in grado di mantenere il controllo delle imprese estere attraverso investimenti diretti al di fuori dei propri confini nazionali, ad essere funzione della struttura del mercato e non viceversa.