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Aquí se contiene una disputa o controversia entre el obispo don fray

Bartolomé de Las Casas o Casaus [...] y el doctor Ginés de Sepúlveda[...], luglio 1552-gennaio

1553

399

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Proemio

Qui è contenuta una disputa o controversia tra il vescovo frate Bartolomé de Las Casas, o Casaus, Vescovo della città reale del Chiapas, che si trova nelle Indie, nella parte della Nuova Spagna [Messico], e il dottor Ginés de Sepúlveda, cronista dell’imperatore nostro signore. Al riguardo, il Dottore sosteneva che la conquista delle Indie contro gli indigeni fosse lecita, mentre il Vescovo, al contrario, sosteneva e affermava che essa era stata – ed era impossibile che non lo fosse – tirannica, ingiusta e iniqua. Tale questione fu dibattuta e disputata alla presenza di molti letterati, teologi e giuristi, in una Commissione che Sua Maestà ordinò di riunire nell’anno mille cinquecento cinquanta nella città di Valladolid. Dato nell’anno 1552.

Argomento della presente opera

Il Dottor Sepúlveda, cronista dell’imperatore nostro signore, informato e persuaso da alcuni spagnoli riguardo ad altri che erano i principali rei e colpevoli delle distruzioni e stragi fatte presso le genti delle Indie, scrisse un libro in forma di dialogo, in un latino molto elegante, secondo le leggi o le regole o l’eleganza retorica – essendo egli molto dotto ed eminente in lingua latina –, il quale conteneva due conclusioni principali.

La prima è che le guerre fatte dagli spagnoli contro gli indios furono giuste dal punto di vista della causa e dell’autorità che le comandò, e che, in generale, si possono e si devono fare contro di essi. La seconda è che gli indigeni sono obbligati a sottomettersi per essere governati dagli spagnoli, così come sono tenuti a farlo i meno capaci nei confronti dei più saggi; e qualora quelli non lo volessero, egli afferma che si può muovere guerra contro di loro.

Queste sono le due cause della perdita e della morte di sì innumerevole gente e dello spopolamento di oltre duemila leghe di terra. Il motivo per cui quella gente è morta e quelle terre sono state spopolate per mezzo di nuovi e diversi atti di crudeltà e disumanità da parte degli spagnoli nelle Indie, risiede in quelle che essi chiamano le conquiste e le concessioni, che si è soliti chiamare ripartizioni.

Il detto Dottor Sepúlveda presentò il suo trattato, rendendone pubblico l’intento di giustificare il titolo legittimo per il quale i Re di Castiglia e di León detengono il dominio e il potere supremo e universale sulla terra degli indios, al fine di occultare meglio la dottrina che egli voleva diffondere nei nostri Regni e in quelli delle stesse Indie. Il Dottore presentò questo suo libro al Consiglio Reale delle Indie, chiedendo insistentemente e in modo importuno, che ne fosse data licenza e autorizzazione per stamparlo – licenza che fu negata per molte volte, essendosi già considerato il sicuro scandalo e il danno che, pubblicandolo, ne sarebbe provenuto.

E, visto che per il tramite del Consiglio delle Indie non poteva mandarlo in stampa, egli cercò, grazie agli amici che risiedono presso la Corte dell’imperatore, di ottenere un decreto di Sua Maestà da inviare al Consiglio Reale di Castiglia, dove non si era a conoscenza delle cose che avvengono nelle Indie.

Al tempo in cui questo decreto fu emanato, mentre la Corte e il Consiglio risiedevano a Aranda de Duero, nel 1547 giunse dalle Indie il vescovo della città reale di Chiapas, frate Bartolomé de Las Casas o Casaus. Questi, venuto a sapere del trattato del Dottor Sepúlveda, comprese la materia che vi si affrontava e la cecità pericolosissima verso gli irreparabili danni quali esso sarebbe stato causa. Egli vi si oppose con tutte le sue forze, rivelando e chiarendo il veleno del quale essa era pieno e le

sue vere intenzioni.

I membri del Consiglio Reale di Castiglia, uomini saggi e giusti, dal momento che la materia trattata era prevalentemente di pertinenza della teologia, concordarono di inviarlo alle Università di Salamanca e Alcalá, incaricandole di visionarlo, esaminarlo e stabilirne la licenza di stampa. Le due Università, dopo molte e puntigliosissime dispute, conclusero che non dovesse essere stampato, in quanto contenente una dottrina insana.

Il Dottore, che già in precedenza era rimasto insoddisfatto del parere delle due Università, decise, malgrado i molti rifiuti che entrambi i Consigli Reali avevano opposto, di inviare il trattato ai suoi amici di Roma, affinché lo facessero pubblicare, magari sotto la forma di un’Apologia scritta per il Vescovo di Segovia. Questi, infatti, avendo visto il suddetto libro, lo aveva fraternamente corretto in una lettera, come si fa tra amici e solidali.

L’imperatore, informato della stampa del libro e dell’Apologia, fece inviare il suo decreto reale, affinché venissero ritirati e non fossero pubblicati tutti i libri o le loro traduzioni. E così si comandò di andare a sequestrarli per tutta la Castiglia. E, poiché il detto Dottore aveva fatto una sintesi in volgare [spagnolo] del suo libro, affinché potesse essere diffuso in tutto il Regno e ne fruissero la gente comune e tutti quelli che ignoravano il latino, essendo la materia gustosa e gradevole a tutti quelli che desideravano e cercavano di diventare ricchi e di acquisire – senza costi propri, ma con il sudor, l’oppressione e anche le morti altrui – una condizione che mai avevano tenuto essi stessi e i propri antenati, [per quanto detto] il suddetto Vescovo del Chiapas decise di scrivere un’Apologia, anch’essa in volgare, contro il compendio del Dottore e in difesa degli indios, impugnando e annullandone i fondamenti e rispondendo agli argomenti e a tutto quello che il Dottore adduceva a suo favore, e dichiarando al popolo i pericoli, gli scandali ei danni che quella dottrina conteneva. Dopo che furono accadute molte altre cose, lo scorso anno 1550 Sua Maestà ordinò di costituire, nella città di Valladolid, una Commissione di letterati, teologi e giuristi che si riunissero assieme al Consiglio Reale delle Indie, per discutere e determinare se si poteva, in modo lecito e fatta salva la giustizia, muovere delle guerre – quelli che tutti chiamano conquiste – contro le popolazioni di quei Regni, senza che avessero commesso altre colpe se non quelle relative alla loro mancanza di fede. Convocarono il Dottor Sepúlveda, perché esponesse il suo parere in merito alla questione. Egli partecipò alla prima sessione e disse tutto quello che riteneva. Di seguito convocarono il Vescovo che, per cinque giorni di seguito, lesse l’intera sua Apologia. E, poiché essa era molto ampia, tutti i signori teologi e giuristi della Commissione domandarono a uno di loro, l’egregio Maestro e Padre, frate Domingo de Soto, confessore di Sua Maestà, dell’Ordine dei Predicatori, che ne preparasse un compendio e ne facesse tante copie quanti erano i signori che l’avrebbero avuto, in tutto quattordici, affinché questi, studiando il caso sulla base del sommario, ne dessero un parere secondo quanto Dio suggeriva loro. Il detto Padre e Maestro, nel suo sommario, espose le ragioni del Dottore e quelle che contro di lui scrisse il Vescovo.

In seguito, il Dottore richiese che gli si fornisse una trascrizione per por rispondere, e da essa estrasse dodici obiezioni alle quali diede altrettante risposte. Contro queste ultime, il Vescovo fece dodici repliche. E questa è la ragione e il motivo di tutta la trattazione seguente.

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