• Non ci sono risultati.

C ARATTERI L INGUISTICI D EL C ORPUS

L’esame linguistico dei trattati di Mazza, meglio, del corpus di exempla oggetto del nostro studio, consente di aggiungere un ulteriore tassello alla ricostruzione storica di usi linguistici (e tipografici) in un periodo in cui il volgare siciliano si avviava verso una toscanizzazione che aveva cominciato a farsi strada già nella prosa del Trecento530. È d’uopo precisare che siffatta analisi

linguistica non può che essere parziale, giacché si limita agli esempi trascritti, pertanto i risultati vanno considerati come meramente indicativi di una tendenza che però andrebbe verificata attraverso una scrupolosa analisi dei trattati nella loro interezza (così, ad esempio, l’occorrenza di talune forme ha qui valore relativo)531.

Pur essendo calabrese, Mazza usa un lingua evidentemente siciliana532. Si vedrà come i nostri testi rechino chiari i segni di

530 La Sposizione del Vangelo della Passione secondo Matteo, opera originale,

presenterebbe forme linguistiche toscane o toscaneggianti, cfr. Lu raxunamentu di l’abbati Moises e di lu beatu Germanu supra la virtuti di la discretioni, a cura di Ferdinando Raffaele, Supplemento 17 al Bollettino del Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani, Palermo 2009, p. 65 nota 230, con relativa bibliografia sull’argomento. Il volgare siciliano ha contrastato il dominio del latino sin dal XIV secolo e vanta già nell’età di Federico III i primi testi letterari, come il Libru de lu dialugu de Sanctu Gregoriu, il Valeriu Maximu, la Istoria de Eneas. Nel corso del XV secolo, poi, la sua ascesa a volgare illustre è continuata a grandi passi sino a imporsi come lingua ufficiale e unica dei documenti pubblici e della produzione letteraria: in siciliano sono scritte opere storiografiche, poetiche, religiose, volgarizzamenti, traduzioni, cfr. Costanzo Di Girolamo, Gaetana Maria Rinaldi, Salvatore Claudio Sgroi, La letteratura dialettale siciliana, in Lingua e dialetto nella tradizione letteraria italiana. Atti del convegno (Salerno, 5-6 novembre 1993), Salerno Editrice, Roma 1996. Ma già nei primi decenni del secolo XVI, il volgare illustre siciliano viene rapidamente scalzato dal toscano. All’inizio vengono coinvolte solo le opere in prosa e i testi a stampa, i testi burocratici. Soprattutto i documenti pubblici e statali, in mancanza di una chiara norma linguistica e ortografica, per primi mostrano una contaminazione. Il processo si concluderà a metà del Cinquecento, relegando il volgare siciliano a una marginale sopravvivenza negli ambiti della poesia e della religione, cfr. Alberto Vàrvaro, Storia politico-sociale e storia del lessico in Sicilia. A proposito del «Vocabolario etimologico siciliano», in «Travaux de linguistique et de litterature» 14, 1976, 1, pp. 85-194, p. 94.

531 Per la Scala, in verità, tale analisi è stata già condotta da Lalomia nella citata

edizione critica, cui si rimanda.

532 Com’è noto, l’area della Calabria meridionale condivide con la Sicilia

numerosi fenomeni linguistici, sicché vengono meno gli abituali confini geopolitici, determinandosi una zona che rappresenta un unicum a partire a Sud dalla linea Diamante-Cassano. Precisa Alberto Vàrvaro, Italienisch: Areallinguistik XII. Sizilien, in G. Holtus - M. Metzeltin - C. Schmitt (a cura di), Lexikon der Romanistischen Linguistik (LRL), Band IV, Max Niemeyer Verlag, Tübingen 1988, pp. 716-31: «l’area di irradiazione di Messina travalica lo stretto e include la Calabria Reggina, onde ancora una volta l’identificazione del limite del sic. con le acque tra Cariddi e Scilla risulta comoda ma non fondata scientificamente. Non va dimenticato che, fino agli ultimi anni, Messina era anche, grazie alle sue università, il centro culturale della Calabria meridionale», ivi, p. 718. Cfr. altresì Gerhard Rohlfs, Grammatica storica dell’italiano e dei suoi dialetti, 3 voll., Einaudi, Torino 1966-1969. Per una panoramica generale sui fenomeni linguistici comuni tra siciliano e calabrese cfr. Giuliano Bonfante, Siciliano, calabrese meridionale e

oscillazioni tra forme di siciliano più o meno toscanizzate e forme di toscano increspato di sicilianismi. Vi è la percezione da parte del nostro frate di appartenere alla comunità di scriventi in toscano? In tal senso mi pare significativo quanto Mazza scrive nel primo dei suoi trattati: «è signo de stulticia cum Calabrisi parlari Castigliano, et cum li femini et simplici parlari paroli ornati, et alligari cosi et ligi et termini philosophice533» p. 56, 30-2. Dunque pare rivolgersi ai

calabresi534, opponendo calabrese e castigliano ed escludendo il

toscano. Il fiorentino, nel suo diffondersi, viene a innestarsi su tradizioni fortemente consolidate e, pur facendosi lentamente strada, inevitabilmente fa i conti con esse, ed è oltremodo arduo stabilire ripartizioni cronologiche nette che non tengano conto delle complesse articolazioni esistenti. La stampa contribuisce alla deregionalizzazione linguistica, giacché impone per il volgare l’uso di una varietà sovraregionale e «tendenzialmente ‘italiana’»535.

salento, in «Bollettino del Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani» 2, 1954,

pp. 280-307; Franco Fanciullo, Il siciliano e i dialetti meridionali, in Tre millenni di storia linguistica della Sicilia. Atti del Convegno della Società italiana di Glottologia (Palermo 25-27 marzo 1983), a cura di A. Quattordio Moreschini, pp. 139-159; per una panoramica sui fenomeni linguistici comuni tra siciliano e calabrese cfr. tra l’altro Rita Librandi, La Calabria, in L’italiano nelle regioni. Lingua nazionale e identità regionali, a cura di F. Bruni, UTET, Torino 1992, pp. 752-54.

533 Il digramma ph si conserva per lungo tempo nei nomi propri, cfr. Bruno

Migliorini, Note sulla grafia italiana nel Rinascimento, in «Studi di filologia italiana» XIII, 1955, p. 267.

534 Cfr. Rita Librandi, La Calabria, cit., pp. 768-69.

535 Ferdinando Raffaele (a cura di), Lu raxunamentu, cit., p. 31. Già con i sovrani

angioini (1266) si ha l’apertura della Sicilia al toscano, anche in ambito letterario, come conseguenza di una serie di attività volte a promuovere e diffondere il volgare toscano, tra cui la sollecitazione di una forte immigrazione di comunità burocratico-mercantili fiorentine e l’incentivazione alla predicazione pauperista in volgare toscano. La diffusione del toscano viene favorita anche durante il periodo aragonese attraverso la promozione di singoli eventi come la ristrutturazione del sistema d’istruzione, che comporta l’arrivo di insegnanti continentali, la formazione di professori siciliani in università del nord, la tendenza delle Compagnie di disciplina a ricorrere a modelli toscani per stipulare i propri statuti e ad attingere a opere etico-didascaliche straniere attraverso traduzioni toscane, cfr. Il «De Agricultura opusculum» di Antonio Venuto. Edizione diplomatico-interpretativa, a cura di Rita Pina Abbamonte, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2008, p. XIII e Gabriella Alfieri, La Sicilia, in L’italiano nelle regioni. Lingua nazionale e identità regionali, a cura di Francesco Bruni, UTET, Torino 1992, pp. 798-860, passim. Il processo di inglobamento della produzione letteraria siciliana verso l’uso linguistico toscano si afferma nel corso del Cinquecento grazie anche alla politica spagnola che fa dell’Italia un teatro di primaria importanza, alla presenza delle accademie, che hanno relazioni a livello italiano ed europeo, nonché al peso avuto dal modello scolastico dei Gesuiti, che si stanziano in Sicilia a partire dal 1547. Naturalmente l’espansione del toscano interessa anche le scritture documentarie. «L’arco cronologico nel quale si realizza l’italianizzazione della comunicazione pubblica in Sicilia appare idealmente compreso tra il 3 aprile 1524, data del primo documento in forma compiutamente toscana redatto in Sicilia, e l’8 ottobre 1652, allorché viene promulgata la prammatica vicereale che impone il ricorso alla lingua italiana negli atti notarili, sebbene già da almeno un secolo gli usi linguistici di tipo amministrativo si fossero saldamente orientati nella direzione del toscano. Del resto, il toscano (divenuto italiano) finisce con il rappresentare per gli scriventi, oltre che un medium di comunicazione sovralocale, il registro linguistico ‘alto’, certamente più fungibile rispetto al altino, a cui, in effetti, riesce a erodere ambiti

Come osserva Ferraù, alla fine del Quattrocento

la maggior mobilità del mercato letterario, determinata dalla introduzione della stampa, imponeva anche in Sicilia con sempre maggiore perentorietà modelli letterari e linguistici più autorevoli. E certamente la stampa è stata uno dei principali tramiti per cui il siciliano veniva degradato da lingua a dialetto, non senza dure resistenze a livello di enunciazione teorica (nel caso dell’Arezzo) e di pratica letteraria, ma che, comunque, hanno condotto solo una battaglia di retroguardia, destinata presto alla sconfitta536.

Si può pensare a un testo in origine scritto in volgare siciliano e semplicemente arricchito di alcuni toscanismi e solo dopo ulteriormente smeridionalizzato in sede editoriale? È noto infatti che nei grandi centri editoriali (Napoli, Firenze, Venezia) i filologi- correttori intervenissero sui testi adattandoli ai canoni linguistico- letterari del primo Cinquecento. La deregionalizzazione era una norma. Migliorini osserva che verso la fine del Quattrocento

ogni trascrizione tende a eliminare le peculiarità troppo dialettali del testo. In proporzioni molto maggiori ciò accade con le opere a stampa, perché gli editori mirano allo scopo che esse siano intese da un pubblico molto largo. Talvolta l’editore ha la precisa intenzione di rimaneggiare il testo che vuol riprodurre e nell’eliminare gli idiotismi per lo più toscaneggia; altre volte lascia correre gli idiotismi dell’originale e ne introduce di propri537.

Si prenderà qui in esame il livello grafico-fonico, morfologico e lessicale dei testi trascritti, segnalando, ove presenti, taluni

di comunicazione sempre più cospicui nel medesimo tempo in cui oblitera definitivamente il ruolo pubblico del volgare siciliano», F. Raffaele (a cura di), Lu raxunamentu, cit., p. 32. Osserva Lo Piparo: «Gli ultimi decenni del Quattrocento e i primi del Cinquecento sono gli anni della rottura e della transizione. In questa fase il toscano non è più lingua straniera ma è ancora vissuto e praticato come idioma volgare alternativo al siciliano: è modello più nobile e più illustre del siciliano», Franco Lo Piparo, Sicilia linguistica, in La Sicilia, a cura di M. Aymard e G. Giarrizzo, Einaudi, Torino 1987, pp. 733-810, p. 735.

536 Giacomo Ferraù, La vicenda culturale, in AA. VV., La cultura in Sicilia nel Quattrocento, De Luca Editore, Roma 1982, pp. 17-36, p. 34. Osserva Migliorini: «finché il libro è manoscritto, è destinato a una o a pochissime persone: quando gli editori cominciano a produrre centinaia o migliaia d’esemplari a stampa, si preoccupano di essere compresi dal loro pubblico, e di non urtarne il gusto. Da principio il tipografo non fa che affidare al compositore un manoscritto che gli capita fra mano; ma poi si manifesta necessaria l’opera dei correttori, e quest’opera assumerà tanto maggiore importanza quanto più il gusto generale prenderà forme precise. Il correttore di tipografia, piuttosto che curare che il libro a stampa riesca conforme al volere dell’autore (preoccupazione che solo modernamente si è affermata), pensa a presentarlo con un aspetto grammaticale corretto e coerente, e con parole largamente intelligibili. Un manoscritto può magari presentarsi con grafie singolari e parole un po’ strane: non così un libro che si voglia vendere largamente. Questa è la via per cui l’industria del libro promosse fortemente l’accettazione di una norma comune, sia nella grammatica che nel lessico», cfr. Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, Le Monnier, Firenze 1960, pp. 229-30.

fenomeni di ipercorrezione, chiaro segno di un dominio imperfetto di uno dei due codici. È d’uopo precisare che ci si limita solo ad alcuni cenni sulla facies linguistica della Lucerna confessionis, di cui - come segnalato già - non si trascrivono testi, rinviando dunque a un successivo contributo l’esame sistematico della sua fisionomia. Dai pochi dati raccolti, non si riscontrano sostanziali novità rispetto all’Amatorium; si rammenti che l’editore è lo stesso, ancorché il Mayr sia deceduto e le redini della tipografia siano passate alla moglie538. Si sono raccolti - ci preme ribadirlo -

solo alcuni indizi che necessitano di una verifica sistematica, ma sufficienti, crediamo, a rendere conto di una relativa continuità rispetto all’Amatorium. Da segnalare un più diffuso uso di segni tachigrafici, alcuni dei quali non presenti nei due scritti precedenti, mentre non si riscontrano novità nel sistema interpuntivo.

Quanto alla scripta539 della Scala540 - come pure dell’Amatorium e

della Lucerna - si segnala come, su un fondo siciliano s’innestano il latino e il toscano. Il volgare della Scala smorza i toni accentuatamente locali a livelli diversi - grafematico, fonetico, morfologico, sintattico e lessicale -. È d’uopo precisare, con Raffaele, che «Tenuto conto del fatto che la ricostruzione dell’effettiva pronuncia del siciliano medievale si fonda su conoscenze provenienti dalla pronuncia moderna e che sulla rappresentatività di alcuni grafemi permangono comunque margini di incertezza, si constata la presenza, in linea con gli usi grafici del tempo, di forme latineggianti, il cui valore appare eminentemente culturale»541. Già a partire dal sistema grafematico, si nota che la

Scala tende ad aderire alla norma toscana, un’adesione già in atto

538 Cfr. supra, p. 125, n. 365.

539 Per la nozione di scripta cfr. Francesco Sabatini, Dalla “scripta latina rustica” alle “scriptae” romanze, in «Studi medievali», 1968, XI, pp. 320-258; Id., Lingua parlata, «scripta» e coscienza linguistica nelle origini romanze, in Atti del XIV Congresso internazionale di Linguistica e Filologia Romanza (Napoli 15-20 aprile 1974), a cura di Alberto Vàrvaro, I, Gaetano Macchiaroli Editore, 1978, pp. 445-53; Alberto Vàrvaro, Storia, problemi e metodi di Linguistica romanza, Liguori, Napoli 1980, pp. 305-316. Si preferisce qui adottare la nozione di scripta, poiché sembra essere maggiormente aderente alle caratteristiche linguistiche rilevate. Spesso si è parlato di koinè, specie a proposito dei testi settentrionali in volgare, e si è utilizzato tale appellativo per cercare di definire la lingua dei testi meridionali. Tuttavia, se koinè può senz’altro essere applicato ai testi, ad esempio napoletani del Tre e Quattrocento, non sempre ciò è possibile per i testi dell’area estrema del Mezzogiorno. Più recentemente infatti Vàrvaro precisa che koinè insiste maggiormente sugli elementi linguistici unificanti creati intenzionalmente e che possono essere rintracciati a vari livelli della lingua; invece il concetto di scripta si adatta meglio al siciliano letterario poiché «caratterizzato da una polimorfia assai ampia e che accoglie forme di origine varia», Koinè in Italia meridionale, in Koinè in Italia dalle origini al Cinquecento. Atti del Convegno (Milano-Pavia, 25-26 settembre 1987), a cura di Glauco Sanga, p. 74.

540 «La Scala, se è […] estranea ai confini geografici della Sicilia, essendo Iacopo

Mazza reggino, non lo è a quelli editoriali e culturali, né a quelli linguistici, per la strettissima affinità tra il calabrese meridionale e il siciliano. Alle soglie del Cinquecento, la lingua di Mazza continua a conservare un grado notevole di sicilianità», cfr. Costanzo Di Girolamo, Volgare e movimenti religiosi in Sicilia nel Quattrocento, in «Bollettino del Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani» 15 (1986), pp. 125-144, p. 142

nella scrittura, ma che subisce una spinta maggiore grazie ai tipografi, lo si è già anticipato. Lo stesso può dirsi per gli altri due trattati. Pertanto le soluzioni grafiche presentano dei fenomeni che in parte sono riconducibili al processo tipografico, ma in parte erano già in atto nella scrittura stessa del tempo, segno evidente di quella lenta e progressiva, ma non lineare, tendenza alla toscanizzazione segnalata da Bruni542. Il sistema grafico non si

presenta coerente e uniforme, sicché grafie di tipo etimologico oscillano con sviluppi popolari di tipo fonetico. Latinismi grafici, propriamente o falsamente etimologici, con un valore verosimilmente culturale, alternano con le forme evolute.

Quanto alla grafia, dunque, in Scala <b> etimologica si mantiene nei derivati con SUB-: subgecti, subiecto, substantia, subvertia, subvertenti, oltre che nelle forme gubernaturi, habi, habiro etc., laborasti; per il resto si hanno forme evolute come havi, haviri, havendolo, havissi, etc. In Amatorium, si mantiene in subgestione, subgiectione, observanza, oltre che nelle forme guberno, gubernava, subto, obtenere; per il resto si hanno forme evolute del tipo: havere, iudicava, etc.

<H> etimologica, nel primo trattato, si mantiene in forme come habitari, habiro, homo, heredi, honesti, honori, humili, etc.; è pseudoetimilogica in: habundano; ipercorretta in hayuto. Nel secondo trattato, <h>543 si mantiene in habia, habito, habile, habituato, havere,

herede, herbe, heremita, heremo, homo, homini, honore, honestà, honorevile, hora, horrore, humana, humiliare, etc.; ipercorretta in alhora, nella preposizione ha («vista ha casu la cosa cum li proprii ochi el patre»). Nella Lucerna <h> etimologica si conserva in havendo, habia, havesse, haveria, homini, honora, humilità, herede, etc.

Nel trattato pubblicato a Messina l’affricata palatoalveolare sorda [t∫] è rappresentata da più allografi. Si rende con il digramma <ch>, «Vera e propria bandiera delle scritture siciliane fino al Cinquecento avanzato», per dirla con Coluccia544: fichiro, dichia,

542 Così si esprime lo studioso: «per quanto alla fine del ‘400 la lingua della

cultura volgare fosse un siciliano meno caratterizzato che in passato, il cammino verso l’italianizzazione fu, oltre che lento, tutt’altro che rettilineo. In altri termini, il passaggio al predominio dell’italiano avvenne piuttosto all’insegna della soluzione di continuità che della graduale evoluzione e del prolungamento di uno stato in uno stato successivo», Francesco Bruni, La cultura e la prosa volgare nel ‘300 e nel ‘400, in Storia della Sicilia, vol. IV, Napoli 1980, Società editrice della Storia di Napoli e della Sicilia, pp. 181-279, p. 264.

543 Osserva Migliorini: «La h etimologica, nelle parole sia popolari sia dotte le

quali coincidono con le latine e le greche da cui sono state tratte, è regolarmente adoperata per gran parte del ‘500 all’iniziale (havere, honore, ecc.) e largamente all’interno di parola (abhorrire, dishonorare, allhora), persino dove sembra creare uno iato [...] e comincerà a cadere solo dopo che la Crusca avrà suffragato con la sua autorità la tendenza all’abolizione. Negli ultimi decenni del ‘500 questa tendenza è ancora poco sentita», cfr. Bruno Migliorini, Note sulla grafia, cit., pp. 268 e 270.

544 Rosario Coluccia, La situazione linguistica dell'Italia meridionale al tempo di Federico II, in «Medioevo Romanzo», 20, 1996, pp. 378-411, p. 24. Lo stesso Coluccia rileva che l’uso della grafia ch per l’affricata alveopalatale sorda, «lungi dall’essere peculiare alla Sicilia, si rivela impiantata nell'intero meridione (non solo a Napoli), già in epoche precedenti la dominazione aragonese», cfr. Rosario Coluccia, Il contributo meridionale alla diffusione degli iberismi in Italia e il caso di “attillato”, in Id., «Scripta mane(n)t». Studi sulla grafia dell’italiano, Congedo editore,

pachi, medichi, medichini, felichi, iudichi, rachina, induchiri, nochiri, vinchiri, vuchi, cruchi, loche, meritrichi, porchi, dichadocto, amichicia, simplichimenti, etc. Tuttavia per lo stesso suono si ricorre alla scrizione <(c)c>, destinata ad affermarsi nel siciliano moderno545: cità (ma anche

chitati), amicicia, felicità, celo (ma anche chelo), contradicia, occisilo, facia, cento, principio, certo, officio, sacerdoti, accidenti, ocidano (ma anche ochidino), invincibili, principi (ma anche prenchipi/princhipi), acceptandola, excediri, sollicito, sacerdoto/-u, aceto, celo, ocello, noticia, etc. <Ch> rappresenta inoltre la postpalatale semplice e lunga [kj]: chamao, chamata (ma anche chiamata), vecho, chusa, chudi, vecheça, etc. Rende altresì l’occlusiva velare sorda semplice [k] - sostituendo dunque <k> - e lunga [kk]: saccheto, che, merchanti, riccheça/richeça, antichi, etc.546. La scomparsa di <k> porta all'utilizzo di forme quali quilla,

quillo, quilli, quinto, quisto, in cui <qu> rappresenta, con tutta probabilità, la forma grafica colta dell’occlusiva velare sorda [k] che in molti testi del Trecento e del Quattrocento è rappresentata con <k> (ancorché non vi sia certezza della pronuncia labiovelare547).

Anche nell’Amatorium la rappresentazione dell’affricata palatoalveolare sorda [t∫] è soggetta a polimorfismo: <c> è la scrizione maggioritaria: dice, sagace, ficeno, facessi, cessato, celebrare, sacerdoto, recercava, incendio, certo, piaceri, cacia, surici, cità, cibo, vicinanzo, incitava, etc. Il digramma <ch>548 si rileva in medichi, fachie, cachiò,

sfachiata, publichi, affachiata, etc.; decisamente minoritario, rende sia la scempia che la doppia. <Ch> qui non rappresenta la

Galatina 2002, pp. 45-56, p. 49. Sulla polivalenza di <ch> cfr. Enzo Mattesini, Sicilia, in Storia della lingua italiana, a cura di Luca Serianni e Pitero Trifone, vol. III, Le altre lingue, Einaudi, Torino 1994, pp. 406-432 424-25, Alberto Vàrvaro, Südkalabrien uns Sizilien, in Lexikon der Romanistischen Linguistik, vol. II/2, 1995, pp. 228-238, p. 231; Mario Pagano, La vita di S. Onofrio e qualche osservazione sulla scripta siciliana medievale: esiti di un sondaggio, in Atti del XXI Congresso Internazionale di Linguistica e Filologia Romanza, Centro di studi filologici e linguistici siciliani - Università di Palermo (Palermo 18-24 settembre 1995), a cura di Giovanni Ruffino, vol. VI, Edizione e analisi dei testi letterari e documentari del medioevo. Paradigmi interpretativi della cultura medievale, Niemeyer, Tübingen 1998, pp. 391- 401, pp. 393-95 (quest’ultimo ha rilevato la sostituzione di <k> davanti a vocale palatale, prevalente nel 500, con <ch> avente valore velare).

545 Cfr. Alberto Vàrvaro, Italienisch: Areallinguistik XII. Sizilien, in Lexikon der Romanistischen Linguistik, vol. IV, 1988, pp. 716-731, p. 718.

546 La sparizione di <k> - prima utilizzato per rendere il suono velare [k] - è già

in atto nel Quattrocento; nella Scala scompare del tutto, tranne nel titolo del capitolo ottavo, cfr. Iacopo Mazza, De la arti supra de beni moriri. Capitulo vicesimo

Documenti correlati