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L A B IBLIOTECA D I M AZZA

Le parole dei molti poeti sono come gli asciugamani dei molti coscritti, in camerata, che il tuo di oggi è il mio di domani e viceversa376.

La filologia dell’assenza.

La nostra ricerca è partita dal tentativo di rintracciare nella scrittura del frate reggino le fonti a cui si è abbeverato, di individuare quali siano state le sue letture, come queste abbiano agito su di lui, se la sua biblioteca conteneva esclusivamente libri liturgici o comprendeva altresì letture laiche. E però non si vuole qui sostenere una ricerca positivistica delle fonti, quasi queste fossero un feticcio. Se è vero che un testo va collocato in un contesto, in un cronotopo direi, esaurire in esso l’analisi e vedere il testo come un derivato senza tenere in considerazione la sua specificità risulta limitante. Occorrerebbe forse distinguere tra fonte e modello narrativo377. Spesso è a quest’ultimo che bisogna

376 Carlo Emilio Gadda, Il tempo e le opere. Saggi, note e divagazioni, a cura di Dante

Isella, Adelphi, Milano 1982, p. 194

377 Precisa Segre: «si parla di fonti in senso tradizionale quando il dialogismo del

linguaggio […] non mette l’autore a contatto con intenzioni, come dice Bachtin, anonime, collettive, non induce il lettore a ‘virgolettare’ idealmente parole di provenienza ideologica generica, ma mette a contatto con intenzioni, e induce a ‘virgolettare’ espressioni, dal chiaro e individuale marchio di fabbrica, quello d’un altro scrittore». E continua: «Lo studio tradizionale delle fonti […], facendo centro sul contatto ‘dimostrabile’, lascia poi sfumare le rassomiglianze e congruenze più generiche verso le sfere della poligenesi, le riporta al lavoro collettivo di cui il linguaggio, il linguaggio letterario, è il risultato. Bachtin propone di capovolgere il quadro: parole ed espressioni sono quasi sempre ‘di seconda (terza, quarta, ennesima) mano’, e noi possiamo al massimo attribuirle alla sottolingua di origine. La fonte non costituisce altro che un sottogenere (quantitativamente minimo) del fenomeno: che s’impone quando il materiale di riuso è attribuibile in parte consistente a un testo preciso, la fonte appunto. La fonte è dunque una specie di condensatore, che dopo aver realizzato una prima sistemazione (personale) della pluralità linguistica, offre il suo prodotto al nuovo autore, che potrà a sua volta utilizzarlo, ma conservando in tutto o in parte i risultati del precedente riuso. […] nel caso della fonte il testo si richiama a un altro testo, in quello del dialogismo generale il testo si richiama ad altri enunciati non firmati, o di cui non è nota la firma», cfr. Cesare Segre, Intertestuale- interdiscorsivo. Appunti per una fenomenologia delle fonti, in AA. VV., La parola ritrovata, a cura di Costanzo di Girolamo e Ivano Paccagnella, Sellerio, Palermo 1982, pp. 15-28, pp. 17, 18 e 19. Di Girolamo e Lee distinguono tra testo-fonte (quando è possibile rintracciare l’antecedente diretto di un testo) racconto-fonte (qualora la fabula di un testo coincida con quella di uno o più testi, senza che sia possibile dimostrare una conoscenza diretta di questo/questi); distinguono ancora temi- fonti «a loro volta riconducibili a testi-fonti o a racconti-fonti, quando non si tratti piuttosto di topoi». Distinguono altresì un genere-fonte «ove si verifichi la condizione che la novella [del Decameron] in questione faccia riferimento, in negativo o in positivo (vale a dire seguendone il canone o rovesciandolo in parte o in tutto), non a un testo o racconto particolare ma a un genere narrativo preesistente». E continuano: l’«amore ostacolato […] fa riferimento a un genere- fonte che potrebbe essere adeguatamente rappresentato dal lai», cfr. Costanzo

pensare, piuttosto che a un preciso testo, per non cadere in quella filologia dell’assenza, della traccia, per dirla con Antonio Pioletti378.

Non è sempre possibile risalire a rapporti di parentela, visto che i testimoni dei racconti sono tanti; spesso è impossibile rintracciare eventuali varianti, per l’esiguità dei racconti. Quanto ampio e differenziato è il bacino di raccolta di Mazza? Ha veramente accesso a tutti i testi, classici e medievali, che cita? Si discosta dalla prassi abituale nel Medioevo della citazione indiretta? Usa riferimenti bibliografici che aiutano a localizzare il passo? Quando non cita la fonte e però si tratta della stessa auctoritas da cui trae altri exempla, è possibile pensare che non conoscesse le origini del testo e dunque non avesse davanti la fonte diretta? Bisognerebbe valutare caso per caso prima di giungere a formulare generalizzazioni. Diciamo subito che i luoghi d’approvvigionamento sono molteplici e per ogni exemplum sono necessari controlli multipli; inoltre occorre distinguere tra fonte prossima e fonte diretta. Ma ci porremo ancora altre domande (cui in parte si è già risposto allorché si è analizzata la modalità della riscrittura operata dal frate): come viene ri-utilizzato un motivo o un testo? Le differenze sono attribuibili alla memoria o al deliberato tentativo di riscrivere e/o abbellire il testo? Anche quando la cronologia tra i testi è chiara, chi riscrive - Mazza nel nostro caso - legge o ha sentito la storia? E se legge, ha il testo davanti o cita a memoria379?

Come vedremo più da vicino, Mazza utilizza fonti sia pagane, sia cristiane380; ricorre alla storia sacra ma anche a quella profana.

Verosimilmente il pubblico non religioso - codestinatario delle sue opere - ha influito sulla scelta del materiale. D’altra parte il peso del destinatario non è certo cosa nuova. Come osserva Gurevič, «La letteratura della Chiesa, dal momento che si rivolge alla massa dei semplici analfabeti, i quali vivono al di fuori della letteratura scritta, è orientata verso la loro coscienza e risente della fortissima influenza da loro esercitata»381.

Di Girolamo, Charmaine Lee, La nascita della novella, in «Nuova Secondaria» 8, 1986, pp. 29-33, p. 30.

378 Faccio mie le parole dello studioso, le cui preziose lezioni sono state - e sono

- fonte inesauribile di spunti e riflessioni.

379 Sul problema cfr. Costanzo di Girolamo e Charmaine Lee, Writers and reworkers. Forms of intertextuality in medieval narrative, in Formation, codification et rayonnement d’un genre médiéval. La nouvelle. Actes du Colloque International de Montréal (McGill University, 14-16 octobre 1982) publiés par Michelangelo Picone, Giuseppe Di Stefano et Pamela D. Stewart, Montréal 1983, pp. 16-24.

380 Scrive Pietro Boitani: «Lo scrittore del Medioevo volgare si trova [...] stretto

fra due paradigmi ideologici, immaginari e stilistici: quello offerto dall’antichità classica e quello presentato dagli autori cristiani. [...] sin dai suoi inizi, essa [la cultura medievale] è dominata dalla confluenza delle due tradizioni». Lo studioso rileva quei luoghi testuali - dal Perceval a Chaucer, passando per la Commedia - che ben rappresentano tale confluire di cultura pagana e cristiana, cfr. Pietro Boitani, Tradizione classica e tradizione cristiana, in Id. Letteratura europea e Medioevo volgare, Il Mulino, Bologna 2007, pp. 21-43, per la citazione pp. 21-22.

381 Aron Ja. Gurevič, Contadini e santi, cit., p. 9. Lo studioso si riferisce qui all’alto

Medioevo e alla costante osmosi tra cultura ecclesiastica e folklore popolare: «Una serie di generi della letteratura medievale e il folklore quasi confluivano uno nell’altro, in una costante interazione. Nelle pagine dei testi medievali

Mazza conosce verosimilmente più libri di quanti ne possiede. Occorre distinguere tra opere e/o autori menzionati e opere realmente consultate. Attinge a tutti i testi che cita frequentemente? o a pochi testi? o a uno soltanto? Difficile dirlo con sicurezza. Certo è che non è pensabile che nel basso Medioevo esistessero delle biblioteche come quelle che oggi abbiamo a nostra disposizione nelle università o nelle grandi capitali382. In età

medievale la citazione indiretta è prassi abituale; è comune non il lavoro del creatore ma quello del compilatore383. L’età di mezzo ha

una vivissima coscienza degli auctores. Per lo scrittore medievale è essenziale che la sua materia possegga un livello letterario garantito e il ricorso a un modello assicura la dignità letteraria, diversamente da quanto vale per noi produttori e lettori di oggi, per i quali il concetto di originalità, di nuovo, di inedito si è definitivamente sostituito a quello di codice o di imitazione; il nostro intendere la poesia - e la produzione letteraria (ma anche paraletteraria) e artistica in genere - è condizionato dalla rivoluzione del Romanticismo, per cui noi, con la nostra individualità, ci poniamo di fronte al mondo (e però ha ragione Julia Kristeva quando rileva che ogni testo si configura come un mosaico di citazioni384).

Osserva Maria Corti:

Vi sono epoche, come il Medioevo, in cui venendo a vanificarsi per motivazioni ideologiche il concetto di paternità e proprietà letteraria, donde il grande numero di opere anonime, si crea una sfera di indifferenza intorno all’emittente: ciò permette di plagiarlo, di proseguirne l’opera, di inserirne brani in altra opera senza che il fantasma

indirizzati ad un vasto uditorio si svolge un costante dialogo tra la dottrina ufficiale e la coscienza folklorica, dialogo che porta ad un loro avvicinamento, ma non alla fusione. [...] Indipendentemente dal fatto che gli autori lo volessero o che ciò accadesse malgrado le loro intenzioni, questi testi sono “inficiati” dal folklore. […] L’influenza dell’ideologia ufficiale sulla concezione popolare del mondo non può certo essere vista come un processo unilaterale che vede introdurre nuove idee e credenze in una “terra vergine”: tra l’ideologia della Chiesa e la cultura popolare precristiana (o, per meglio dire, extracristiana) avveniva un’interazione. Nel processo di questa complicata e contraddittoria reciproca influenza venne formandosi quel complesso culturale-ideologico che si potrebbe chiamare “cristianesimo popolare”, “cattolicesimo parrocchiale”», ibidem.

382 Rileva Trovato: «Si può dire […] che tra gli Osservanti del tempo [XV

secolo] il latino fosse una lingua per pochi (guardiani, sacerdoti, lectores ecc.). Ma di quei pochi erano, in generale, anche la capacità di leggere e quella, ancor meno diffusa, di scrivere, anche solo la propria firma in volgare. Non dobbiamo aspettarci quindi, nemmeno nelle sedi maggiori, biblioteche ricche di testi in volgare. […] Il sostanziale accordo dei dati non si altera neppure riunificando idealmente questi manoscritti con gli incunaboli presenti nelle biblioteche Osservanti alla fine del ‘400», cfr. Paolo Trovato, Circolazione di libri, cit., p. 281.

383 E il prologo della Disciplina clericalis ne dà un chiaro esempio: «Dixit Petrus

Alfunsus, servus Christi Ihesu, compositor huius libri», p. 2. Come precisa Cristiano Leone, «Il termine compositor è inusuale nella letteratura mediolatina. Sembrerebbe che Pietro Alfonsi abbia designato se stesso attraverso il corrispettivo latino del termine arabo mu’allif, che indica proprio l’attività del mettere insieme, del compilare», p. 2, nota 2.

384 Julia Kristeva, Word, dialogue and novel, in The Kristeva Reader, a cura di Toril

dell’autore turbi la pace del rifacitore: ciò che veramente conta è solo un grande processo collettivo di comunicazione testuale. Nel Quattrocento dell’emittente è quotato il carattere di faber o artifex, è rilevata soprattutto la tecnica, l’eccellenza del mestiere e una raffinata capacità di imitare piuttosto che l’individualità o originalità in assoluto, che comincia a polarizzare l’attenzione nel Cinquecento385.

Dicevamo, non possiamo immaginare la biblioteca di un monastero sul finire del Quattrocento ricca di volumi come lo sono le nostre moderne biblioteche, ancorchè il frate reggino si situi sul liminare del Medioevo, quando comincia a farsi strada una coscienza umanistica386, quella tendenza verso l’accumulazione

libraria durante la quale riappaiono numerosi classici latini (ma si tenga presente che in Sicilia l’Umanesimo tarda a manifestarsi387).

385 Maria Corti, Principi della comunicazione, cit., pp. 54-55.

386 Sul rapporto tra francescanesimo e umanisti, Trisoglio osserva che il

problema della valorizzazione della persona affrontato da classicismo e cristianesimo nel Quattrocento portò a «uno scontro […] complesso: non a ranghi serrati, con nette scelte di campo. Ci furono compenetrazioni, nella brama di salvare e di comporre entrambe le positività. […] Gl’intransigenti che scelsero con esclusività non acquisirono un peso determinante ed il più delle volte, mentre condannavano gli antagonisti, ne adottavano, almeno parzialmente, le armi. Umanisti paganeggianti e religiosi integralisti? Ci furono anche questi; ma non molto significativi. Assistiamo invece all’intreccio degli schieramenti […]. Vediamo emergere litterati dalla schietta e forte sensibilità cristiana ed asceti che individuavano nell’elevazione culturale la realizzazione più genuina della loro vocazione. […] Dominava un’oscillante ricerca di solide fondazioni morali, in un periodo di grandi mutamenti e di corrispondenti corrosive inquietudini. Si cercava una coerenza, mentre si intuiva di poggiare su contraddizioni: i litterati avvertivano le precarietà di quelle loro pretese di battezzare il paganesimo e di difendere la loro autonomia mentre mendicavano favori dai principi, e gli spirituali percepivano l’incoerenza di svilire il corpo mentre facevano appello a tutte le sue energie per imitare le virtù dei santi […]. Gli umanisti consideravano gli studia humanitatis come rivelazione della divinità ed elevazione dell’umanità, però si rendevano conto che essi non bastavano a rendere migliore la gente […]: di qui i contributi che parecchi di essi diedero alla religiosità e lo sforzo di raggiungere in se stessi una composizione che fosse coniugazione di tutti i pregi naturali e soprannaturali. Il coordinamento era impresa ardua, perché l’insito fermento di libertà di coscienza nell’ambito religioso non trovava ancora un terreno preparato a riceverlo: svariati atteggiamenti non erano al coperto dall’equivoco», cfr. Francesco Trisoglio, recensione a Remo L. Guidi, Gli studia humanitatis e una diversa definizione morale dell’uomo nel ‘400, in «Rivista di Storia e Letteratura Religiosa» XXVIII, 1992, pp. 437-39, p. 438.

387 Invero nel Quattrocento si riannodano i rapporti con il meridione della

penisola, specie con Napoli, vivace centro culturale. Alfonso d’Aragona (1443- 58) svolse il ruolo di mecenate rinascimentale, impegnandosi tra l’altro nella costituzione di una biblioteca reale, «una vera biblioteca di ‘stato’, strumento nello stesso tempo ‘di cultura per la cerchia di dotti riunita intorno al signore, o regnante, e di gloria per quest’ultimo e la sua dinastia’». Il re riunì intorno a sé umanisti italiani e spagnoli, con i quali amava discutere di letteratura, di classici come pure di latino. Incentivò la letteratura in lingua volgare, che giunse a maturazione sotto il regno di Ferrante. La fine del regno aragonese comportò però una repentina diminuzione dei rapporti culturali tra Napoli e le altre regioni, cfr. Nicola De Blasi e Alberto Varvaro, Napoli e l’Italia meridionale, in Letteratura italiana. Storia e geografia, II, L’età moderna, Einaudi, Torino 1988, pp. 237-290, per la citazione p. 241. A proposito poi della cultura umanistica, Andrea Ghinato rileva: «L’umanesimo imperante in questo secolo non poteva

Peraltro, come suggerisce María Jesús Lacarra388, l’exemplum è un

genere utilitaristico ed è inverosimile che uno scrittore ricorresse a una fonte diretta per citare un esempio; è probabile che si servisse di due o tre raccolte esemplari che erano a disposizione. Di uno stesso testo esistevano svariate fonti di approvvigionamento, per cui si rendono necessari controlli molteplici per ciascun exemplum. Nel Quattrocento d’altra parte è noto il fondamentale ruolo dell’Osservanza nel promuovere la circolazione di materiale letterario, proveniente dalle diverse regioni della penisola e in tal senso marcato anche linguisticamente389. Mazza è debitore della

cultura latina e mediolatina? in quale misura attinge? è un volgarizzatore?

La Scala viene data alle stampe nella città dello stretto390;

verosimilmente composta durante il soggiorno a Lipari, è da inserire dunque all’interno della cultura siciliana - intesa come produzione che accoglie, fa sue e ripropone, trasformando o imitando - le letture del nostro frate391. Si tratta di cercare di

non influenzare almeno remotamente […] anche i nostri predicatori, spesso curiosi del sapere. E questo spiega i richiami storici e letterari, anche se di repertorio e non di accostamento diretto, alle fonti classiche, che vengono considerate utili in non pochi elementi dello stesso san Bernardino […]. Singolare invece la fortuna di Dante […] tra i nostri predicatori. […] Il loro influsso non dev’essere del tutto estraneo alle fortune del Poeta in quel secolo, anche se non molto stimato dagli Umanisti. Le biblioteche spesso notevoli accumulate nei conventi Osservanti […] ci testimoniano della passione per i libri […]. Il carico dei libri accompagnava dovunque i predicatori, e il somarello era più spesso necessario per portare il prezioso carico che per trasportare i pellegrini apostolici», Alberto Ghinato, La predicazione francescana nella vita religiosa e sociale del Quattrocento, in «Picenum Seraphicum» X, 1973, pp. 24-98, per la citazione pp. 61-62. Sulle biblioteche francescane in Sicilia cfr. Tommaso Guardì, I Francescani e i classici, in Francescanesimo e civiltà siciliana nel Quattrocento, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Palermo, Carini, Gibilmanna 25-31 ottobre 1992), a cura di Diego Ciccarelli e Armando Bisanti, Officina di Studi Medievali, Palermo 2000, pp. 115-121, le cui notizie trovano parziale riscontro nella biblioteca - che con certa approssimazione si è tentato di ricostruire - di Iacopo Mazza, come si vedrà più avanti.

388 Desidero qui ringraziare la professoressa Lacarra per la grande disponibilità e

i preziosi suggerimenti.

389 Cfr. Francesco Bruni, Appunti sui movimenti religiosi e il volgare italiano nel Quattro- Cinquecento, in «Studi linguistici italiani» IX, 1983, pp. 3-30.

390 Osserva Costanza: «la tipografia siciliana risulta un fatto limitato, inteso a

soddisfare un bisogno assai contingente e circoscritto, e legato strettamente a certe esigenze occasionali; mentre la richiesta della cultura isolana si rivolgeva al prodotto della più progredita industria del Continente. […] Inoltre, l’arte tipografica siciliana risulta tecnicamente un fatto di retroguardia […] le edizioni risultano assai scorrette, perché certamente, salvo qualche caso, mancava alle spalle del tipografo quel «correttore» il cui ufficio editoriale veniva sul Continente, [sic] ad essere esercitato anche da studiosi di buona levatura […]. Infine, i caratteri introdotti in Messina dallo Alding saranno i soli ad essere presenti in loco, adoperati anche dai successivi editori, e solo alla fine del secolo lo Schomberger apportava delle innovazioni che miglioravano la situazione», cfr. Calogero Costanza, Il libro a stampa, in AA. VV., La cultura in Sicilia nel Quattrocento, De Luca Editore, Roma 1982, pp. 153-188, p. 155.

391 Ormai è ampiamente riconosciuto che ogni opera è sempre in relazione con

altri testi che costituiscono la memoria poetica dell’autore. Sull’intertestualità cfr. tra l’altro Andrea Bernardelli, Intertestualità, La Nuova Italia, Milano 2000. Mi piace qui ricordare Macrobio, che nei Saturnaliorum convivia, VI, 1, 2, così

ricreare quel laboratorio in cui Iacopo scrive i suoi trattati, individuare le scelte fatte e scorgere in controluce le sue idiosincrasie letterarie. Quello che Mazza ri-usa è un patrimonio anonimo e collettivo che non reca una firma d’autore e per il quale, per dirla con Segre, è opportuno parlare di interdiscorsività392. Lo

studioso distingue tra gli influssi che derivano da un singolo testo e la natura dialogica dell’opera, ovvero il suo dialogare appunto con un generale contesto culturale in cui l’opera stessa nasce393. Un

rapporto interdiscorsivo, si diceva, data la natura anonima e collettiva di tale serbatoio. Il ricorso a tale tradizione ha una funzione stabilizzante. C’è poi una tendenza più intertestuale, un riferimento a un corpus specifico di autori/opere che destabilizza i tradizionali modelli retorici ed espressivi 394.

Quali i volumi che Mazza ha a disposizione? Le biblioteche dei conventi francescani siciliani sono andate quasi tutte perdute e solo pochi libri (almeno del Quattrocento e Cinquecento) si sono potuti raccogliere nell’odierna biblioteca francescana di Palermo. Mancano inventari relativi ai secc. XIII-XVI per cui è difficile ricostruire le biblioteche dei singoli conventi. Per il Quattrocento abbiamo solo poche sparse notizie ricavate da atti notarili e testamenti in cui si lasciano in eredità ai conventi un certo numero di classici ad esempio. Per il Cinquecento e il Seicento i dati presentano maggiore precisione perché la necessità di comunicare alla Congregazione dell’Indice i libri posseduti e utilizzati dai frati durante la predicazione permette di accedere all’interno delle biblioteche conventuali. Questi inventari sono conservati nella

scriveva: «dum ostendere cupio quantum Vergilius noster ex antiquiorum lectione profecerit et quos ex omnibus flores vel quae in carminis sui decorem ex diversis ornamenta libaverit, occasionem reprehendendi vel imperitis vel malignis ministrem, exprobrantibus tanto viro alieni usurpationem nec considerantibus hunc esse fructum legendi, aemulari ea quae in aliis probes, et quae maxime inter aliorum dicta mireris in aliquem usum tuum opportuna derivatione convertere; quod et nostri tam inter se quam a Graecis et Graecorum excellentes inter se saepe fecerunt» [«mentre desidero mostrare il profitto tratto dal nostro Virgilio dalla lettura dei predecessori, i fiori colti da tutti e gli ornamenti desunti da diversi autori per abbellire la sua poesia, temo di offrire alle persone ignoranti o malevole lo spunto per criticarlo. Potrebbero infatti accusare di plagio un sì grande poeta, senza considerare che il vantaggio prodotto dalla lettura sta appunto nel cercar di uguagliare ciò che si approva in altri e volgere opportunamente a proprio uso ciò che soprattutto suscita ammirazione nell’opera letteraria degli altri. Così hanno fatto spesso i nostri scrittori sia fra di loro sia desumendo dai Greci, così pure i migliori dei Greci fra

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