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L’arte della guerra

1. La politica della guerra.

La Cina è stata sovente identificata con la patria naturale della sta-bilità e dell’armonia. Nel corso dell’ampio arco storico durante il qua-le essa ha esercitato un ruolo di primo piano negli equilibri geopolitici dell’Asia è effettivamente riscontrabile una pronunciata inclinazione verso la negoziazione e l’esercizio della persuasione, fondate, entram-be, sulla ferma convinzione che gli avversari dovessero capitolare, pri-ma ancora che sul campo di battaglia, sul fronte dell’eccellenza cultu-rale e della virtú.

Le antiche opere letterarie accentuano spesso l’incompatibilità tra colui che si distingue per esemplarità morale e nobiltà d’animo, ovvero il junzi, e l’uso delle armi (bing), come leggiamo in questo emblematico brano tratto dal Laozi Daodejing (Classico della Via e della Virtú di Lao-zi, o semplicemente LaoLao-zi, Vecchio Maestro):

Son, l’armi, nefasti strumenti che gli esseri son soliti aborrire.

Nell’armi, dunque, non indugia chi la Via possiede. Nella sua magione, l’uomo d’animo nobile onora la sinistra, in battaglia, la destra.

È questa la ragion per cui l’armi non son dell’uomo nobile d’animo gli strumenti. Nefasti strumenti son l’armi,

di cui servirsi solo se costretti.

Non v’è cosa migliore d’un quieto distacco, e guai ad ammirarle,

che se belle ci paressero, gioiremmo allor dell’uccisione altrui.

E nel gioir di ciò, non troveremmo luogo in cui poter realizzar le nostre ambizioni. Sicché, in occasione di eventi fausti si onora la sinistra,

nel lutto, la destra.

Il Comandante in seconda tiene la sinistra, il Supremo Generale, la destra,

il che vuol dir che si dispongono secondo il rito funebre.

Di fronte allo sterminio delle genti, si omaggino le salme con mesto dolore e alle disposizioni del rito funebre sottostia il vincitor della battaglia. (Laozi 31; Andreini 2004a, p. 151).

Le fonti riconducibili alla tradizione confuciana hanno sicuramen-te contribuito a rafforzare la convinzione che il ricorso alla forza e allo scontro bellico fosse una misura inappropriata per il junzi. Questi, in-fatti, si contraddistingueva per l’elevato profilo morale, che lo rendeva degno di assumere incarichi amministrativi e di ricoprire alte cariche di governo nel rispetto delle prassi etico-cerimoniali ereditate dal passato (li). In particolare, il junzi forgiava il proprio carattere secondo gli inse-gnamenti ispirati alle «Sei arti» (liuyi): riti, musica cerimoniale, scrittu-ra, aritmetica, tiro con l’arco, guida della biga. Risulta evidente come le ultime due pratiche avessero però un’attinenza diretta con le discipline militari, a dispetto di quanti tendono a rimuovere dai principî di auto-coltivazione propri della tradizione confuciana la componente marziale. A ben vedere, l’atteggiamento di Confucio (551-479 a.C.) che traspare dal Lunyu (Dialoghi) è, sí, fortemente improntato a un pieno riconosci-mento nella definizione del junzi della priorità dell’impegno politico e civico (wen) rispetto all’elemento marziale (wu), per quanto non man-chino richiami alla necessità di preparare adeguatamente gli uomini ad affrontare lo scontro (Lunyu 13.30, Mengzi [Maestro Meng] 6B.8). La stessa ambivalenza è riscontrabile nel Mengzi, opera rappresentativa del pensiero di Meng Ke (Mencio, 390-305 a.C.), che dà voce alla posizio-ne «ortodossa» in seno ai confuciani sul tema della guerra ribadendo

quanto Confucio aborrisse chiunque avesse arricchito sovrani che non avessero pro-mosso politiche di governo ispirate a principî di umanità, figurarsi la sua reazione nei confronti di chi avesse incitato alla guerra per il proprio tornaconto! Conquistare nuove terre con la guerra causa tanti morti da riempire intere campagne, conquistare nuove città con le armi causa tanti morti da riempirle di cadaveri. Questo si chiama «divorare carne umana pur di conquistare nuove terre», è un crimine che nemmeno la morte può espiare. Ecco perché gli esperti nell’arte della guerra dovrebbero essere condannati alle pene piú severe, seguiti da coloro che tessono alleanze strategiche tra i nobili che governano gli stati, e infine da coloro che mettono a coltura terre incolte obbligando i contadini a lavorarle (Mengzi 4A.14; Scarpari 2013a, n. 56). Gli uomini d’arme appena chiamati in causa vengono definiti, sem-pre da Mencio, «grandi criminali» (Mengzi 7B.4), essendo incapaci di promuovere un governo fondato sulla benevolenza. Tuttavia, pur affer-mando che «se ognuno desiderasse correggere se stesso, non ci sareb-be bisogno della guerra» (Mengzi 7B.4; Scarpari 2013a, n. 70), il testo precisa come, in casi estremi, la guerra sia necessaria, anzi, auspicabile. Nel corpus classico, le misure di aggressione sono espresse ricorrendo ai termini gong e fa, mentre l’intervento armato punitivo era associato a

zhu e ad altre due parole omofone, zheng «governare» e zheng

«soggio-gare, allestire una campagna militare punitiva», entrambe derivate dalla radice semantica zheng «correggere, rettificare». Mencio,

appellando-si proprio a zheng, riteneva che una campagna militare fosse opportuna nel caso in cui il Cielo si fosse pronunciato attraverso il conferimento di un legittimo mandato affinché l’esercito intervenisse per ripristinare legalità e giustizia e ponesse fine alle vessazioni nei confronti del popo-lo. È proprio sulla base dell’avallo del Cielo e del consenso del popolo a sostegno dell’intervento che la guerra, da atto deprecabile e violento, diviene «giusta» (Scarpari 2003b e 2010a, pp. 240-53). Non sempre, tuttavia, i limiti tra aggressione immotivata e aggressione motivata erano ben discernibili, come dimostra l’atteggiamento altalenante di Mencio nei confronti della politica militare del re Xuan di Qi (r. 319-301 a.C.) ai danni dello stato di Yan, la cui invasione era stata in un primo tempo appoggiata in nome di una palese violazione del legittimo principio di successione al trono verificatasi in quel regno, salvo poi criticarla affer-mando che Xuan, divenuto ormai una minaccia per gli stati confinanti, avrebbe in realtà agito senza che gli fosse stato conferito il mandato da parte del Cielo. Un simile atteggiamento riflette la delicatezza con cui il tema veniva trattato, non solo in ambito confuciano, ma anche presso altre tradizioni di pensiero. I discepoli di Confucio erano, ovviamente, piú inclini a non appoggiare in modo conclamato l’uso delle armi, in no-me di un’aderenza a un pacifismo o, no-meglio, di un’esaltazione dell’idea-le cividell’idea-le che, nonostante gli sforzi, non poteva comunque prescindere dal pragmatismo necessario che imponeva decisioni drammatiche nei momenti cruciali della vita politica. I confuciani si rivelarono sostan-zialmente riluttanti a una tematizzazione esplicita delle ragioni a soste-gno dell’impiego delle armi, con l’eccezione, forse, di Xunzi (c. 310-215 a.C.), che a questo tema dedicò un’intera sezione dell’opera a lui attri-buita, il Xunzi (Maestro Xun), ovvero l’undicesimo capitolo, intitolato

Yibing (Dibattito sui principî della guerra), dove il pensatore si espose

a sostegno di operazioni militari motivate solo dal fine di migliorare le condizioni del popolo.

I moisti produssero alcuni tra i piú veementi scritti contro l’allesti-mento di spedizioni militari di aggressione, in primo luogo avanzando un’obiezione di carattere religioso. Essi sostenevano che il Cielo, nel rispetto di un criterio retributivo inappellabile, premiasse i virtuosi e punisse i criminali, e la guerra altro non era che il piú grave dei crimi-ni, come leggiamo nell’opera compilata dai discepoli di Mozi (Mo Di, c. 480-390 a.C.), il Mozi (Maestro Mo, in particolare capp. 17 e 28). Al di là del peso assunto da considerazioni etico-religiose, il Mozi si oppo-ne alla guerra anche da un punto di vista strettamente utilitaristico (li), ritenendola contraria al benessere dello stato. L’opera, infatti, insiste nell’evidenziare i costi economici e di vite umane richiesti dalle

campa-gne militari di aggressione (Mozi 18 e 19). Nel tentativo di dissuadere i potenti dall’adottare misure tanto drastiche, i moisti sostennero che solo raramente la guerra portasse benefici: nella maggior parte dei casi, essa era una medicina che, tra migliaia di malati, ne avrebbe curati solo un numero esiguo.

L’ammissibilità della guerra era limitata ad azioni di carattere puni-tivo, oppure a missioni aventi finalità civilizzatrici, come risulta dagli esempi che emergono dal brano che segue:

Anticamente il regno dei tre Miao si trovava in uno stato di gran disordine, tanto che il Cielo ne decretò l’annientamento. Il sole sorse allora portentosamente durante la notte, piovve sangue per tre giorni di fila, dei draghi apparvero nel tem-pio ancestrale ed enormi cani ulularono senza posa nelle piazze dei mercati. Gelò d’estate, la terra si squarciò fino alle viscere, i cinque tipi di cereali subirono delle mutazioni, il panico si diffuse tra il popolo.

Fu allora che Gao Yang ricevette il comando nel Palazzo Misterioso e che il Cielo, intenzionato a punire il principe dei Miao, consegnò il simbolo del potere al Grande Yu. Mentre una tempesta di fulmini infuriava con violenza in ogni dove, apparve un essere sovrannaturale dal volto di uomo e il corpo di uccello, reggendo un bastone di giada. Una freccia colpí a morte il principe dei Miao e il suo esercito fu subito allo sbando. Dopo la vittoria sui tre Miao, Yu fissò la giusta distanza tra monti e fiumi, separò le cose che dovevano stare in alto da quelle che dovevano sta-re in basso, riordinò gli stati fino agli eststa-remi confini affinché gli esseri sovranna-turali e gli uomini non commettessero piú azioni criminose e tutti potessero vivere in pace. Questo fu il modo in cui Yu promosse una spedizione punitiva (zheng) nei confronti del principe dei Miao.

Anche nel caso di Jie, l’ultimo sovrano dei Xia, il Cielo fece conoscere il suo vo-lere. Il sole e la luna non comparvero al momento giusto, le stagioni fredde e calde si susseguirono alla rinfusa, i cinque tipi di cereali seccarono e morirono, gli spiriti gemettero lamentosi ovunque e le gru non smisero di gracchiare per piú di dieci not-ti. Fu allora che nel Palazzo Biao il Cielo investí Tang del comando, ordinandogli di far proprio il Mandato Solenne che era dei Xia. Tang si mise allora a capo delle truppe e si diresse ai confini del regno Xia. L’Augusto nei Cieli inviò piogge pau-rose e venti furiosi per abbattere le mura della capitale. Dopo un po’ apparve uno spirito che disse: «La virtú dei Xia è caduta in grande disordine, va’ e attacca, farò in modo che tu riporti una grande vittoria. Ho appena ricevuto l’incarico dal Cie-lo». Il Cielo ordinò dunque a Zhurong di incendiare la parte nord-occidentale della capitale dei Xia. Tang poté cosí avere la meglio sull’inetto sovrano dei Xia, avendo dalla sua persino il favore delle truppe di Jie e della popolazione. Riuní quindi a Bo i nobili per render loro manifesto il mandato del Cielo, che fece diffondere ovunque, e nessuno di loro rifiutò di sottomettersi. Questo fu il modo in cui Tang puní Jie.

Anche nel caso di Zhou, l’ultimo sovrano degli Shang, il Cielo rigettò il suo di-ritto a regnare. I sacrifici venivano officiati nei momenti sbagliati; a Bo, la notte, per dieci giorni di fila piovve fango, piú volte i nove tripodi [scil. simbolo del po-tere reale Zhou] furono portati in luoghi diversi, con le tenebre apparvero spettri mostruosi e si udirono i gemiti lamentosi dei fantasmi, una donna si trasformò in uomo, piovve carne e le strade dell’intero paese si coprirono di rovi. Il sovrano, del tutto indifferente a queste manifestazioni di irritazione da parte del Cielo, si fe-ce ancora piú dissoluto. Un ucfe-cello rosso calò allora sull’altare dei Zhou sul monte

Qi, tenendo nel becco un bastone di giada sul quale erano incise le seguenti parole: «Il Cielo ha decretato che il re Wen dei Zhou attacchi il sovrano degli Yin [scil. gli Shang] e si impossessi del suo regno». Numerosi segni di auspicio si manifestarono all’istante. Quando Wu salí al trono fu visitato in sogno da tre spiriti che gli dis-sero: «Abbiamo immerso il depravato sovrano degli Shang nel vino, va’ e attacca, faremo in modo che tu riporti una grande vittoria». Allora Wu andò ad attaccarlo, mise i Zhou al posto degli Shang e il Cielo lo premiò donandogli lo Stendardo Reale dell’Uccello Giallo. Re Wu, una volta che ebbe sconfitto gli Shang e ricevuto l’in-segna reale, designò i guardiani degli spiriti, istituí le cerimonie in onore dei primi sovrani e stabilí buone relazioni con i barbari che vivevano nei territori al di fuo-ri dei quattro confini. Non vi fu nessuno sotto il Cielo che non si sottomise al suo potere. Continuò l’opera iniziata da Tang. Questo fu il modo in cui Wu puní Jie.

In tutti e tre i casi di sovrani illuminati ora descritti non si può parlare di aggressio-ne, bensí di giusta punizione per volere divino (Mozi 19; Scarpari 2010a, pp. 243-45). Altra caratteristica tipica dell’approccio moista alla guerra fu lo svi-luppo di strumentazioni e strategie difensive (Yates 1980; Needham e Yates 1994, pp. 241-311). Celebre è l’episodio che descrive la visita di Mozi presso la corte di Chu per dissuadere il sovrano dall’attaccare lo stato di Song, dando un esempio dell’efficacia delle proprie misure di-fensive confrontandosi con lo stratega Gongshu Ban in una serie di si-mulazioni di scontro militare: ebbene, per nove volte Mozi la spuntò, finché, umiliato, il suo avversario lo minacciò di morte. A quel punto Mozi rivelò al sovrano di Chu che a nulla sarebbe valsa la sua uccisione, poiché un gruppo di discepoli moisti era ormai giunto a Song per adde-strare l’esercito ad adottare quelle misure difensive che si erano rivelate cosí efficaci (Mozi 13).

Come Xunzi, dunque, anche i moisti non fanno che confermare l’at-teggiamento prevalente che affiora nelle fonti classiche circa la guerra, ovvero un’inconciliabilità di fondo tra l’aspirazione al raggiungimento dell’equilibrio socio-politico promuovendo la virtú e la lucida consape-volezza che tale obiettivo non possa essere centrato senza l’ausilio delle armi. Del resto, nelle narrazioni mitologiche la fondazione stessa della civiltà cinese ebbe luogo in virtú dell’utilizzo da parte dell’Imperato-re Giallo (Huangdi) di risorse militari per impordell’Imperato-re la pace e la stabili-tà; addirittura, come leggiamo nel Lüshi chunqiu (Primavere e Autunni del Signor Lü, c. 240 a.C.), le armi sono state prodotte nella piú remo-ta antichità e i combattimenti mai cesseranno perché, in fondo, nasco-no con l’umanità stessa (Lüshi chunqiu 7.2), dato che l’ingegnasco-no umanasco-no e le armi si alimentano a vicenda, secondo quanto attesta lo Heguanzi (Maestro Heguan, 12).

L’ineluttabilità della guerra, pertanto, sembra dipendere, da una parte, dalla natura ferina e conflittuale dell’uomo e, dall’altra, dalla ne-cessità morale d’intervenire per sanare una violazione perpetrata. Due

opere compilate nel ii secolo a.C., ovvero il manoscritto su seta intitolato

Jing fa (Il canone e la legge) e il capitolo Binglüe (Sull’arte militare) dello Huainanzi (I maestri di Huainan) evidenziano questa duplice tendenza:

Quando il saggio attacca lo stato di un guerrafondaio distrugge ogni sua difesa e i simboli del suo potere, divide e disperde le sue ricchezze e i suoi figli, annulla e ridistribuisce i suoi privilegi e possedimenti: questo modo di agire è denominato successo del Cielo (Jing fa 2; Scarpari 2010a, p. 246).

Nell’antichità, non è che coloro che andavano alla guerra erano mossi dalla sma-nia di conquista o dalla brama di ricchezze. La guerra serviva a preservare qualcosa che si stava esaurendo e a ripristinare la corretta successione al trono. Si voleva cosí porre pace tra i disordini del mondo ed eliminare le gravi difficoltà che affliggevano l’intera popolazione. La maggior parte degli animali che hanno sangue ed energia vitale hanno denti e corna, artigli davanti e aculei di dietro. I loro denti servono a mordere, le corna a infilzare, il veleno ad avvelenare, gli zoccoli a scalciare. Quan-do sono tranquilli giocano tra loro, quanQuan-do sono irritati si colpiscono e feriscono a vicenda: questa è la natura data loro dal Cielo. Cibo e vestiti sono indispensabi-li per l’uomo, ma poiché le risorse sono insufficienti per soddisfare le esigenze di tutti è inevitabile che si creino disparità; l’impossibilità di soddisfare tutti in modo adeguato genera conflitti. Quando c’è conflitto, il forte sovrasta il debole e il co-raggioso ha la meglio sul pavido. L’uomo è fragile di costituzione ed è privo di arti-gli e zanne, per questo motivo taarti-glia il cuoio per farne corazze e forgia i metalli per farne spade. Coloro che con avidità cercavano nuovi piaceri stavano distruggendo il mondo intero e avevano gettato il popolo nell’inquietudine, privandolo di ogni certezza. Fu allora che degli uomini saggi intervennero, per combattere i tiranni e portare pace in un mondo caotico, mettendo cosí fine a quei tempi bui (Huainanzi 15; Scarpari 2010a, p. 241).

I fondatori della dinastia Zhou (1045-256 a.C.), elevati dalla storio-grafia ufficiale al rango di insigni modelli di virtú, sono stati, guarda caso, i sovrani Wen (r. 1099/1056-1050 a.C.) e Wu (r. 1049/1045-1043 a.C.), padre e figlio, che sconfissero gli Shang (c. 1600-1045 a.C.) e get-tarono le basi per la costituzione di un nuovo assetto politico-religioso. È emblematico come le due figure incarnino alla perfezione il connubio tra wen e wu (Needham e Yates 1994, pp. 71-72 e 76-79, e in partico-lare pp. 92-100), categorie opposte ma complementari che, nell’arco di tutta la storia cinese, hanno espresso quella feconda «tensione tra l’a-spetto civile della società, sintetizzato nel termine wen, e l’al’a-spetto mi-litare, sintetizzato nel termine wu. Il primo, intrinsecamente superiore al secondo, si reggeva sulla forza della virtú e della cultura, e si fondava su un sistema di convenzioni e norme di comportamento rigidamente codificate, sull’educazione della persona e sull’erudizione letteraria. Il secondo, invece, valorizzava la fierezza militare, e si basava sulla forza delle armi, sul coraggio e il valore, sul comportamento marziale e altero» (Scarpari 2010a, p. 88). Va colto, in modo particolare, il bilanciamento

dinamico tra i due termini e la necessità d’integrare nell’azione politica entrambe le funzioni. Per comprendere la valenza dell’aspetto marziale non possiamo che guardare all’etimologia della parola wu, contando sul fatto che la scrittura cinese fa spesso risaltare la radice etimologica in tutta la sua tersa evidenza logografica. La forma standardizzata moderna del carattere corrispondente alla parola wu 武 «marziale» ricalca, strut-turalmente, le piú antiche attestazioni del termine ( ), poiché conserva ancora i due elementi costitutivi originari, zhi «bloccare, fermare» e

ge «ascia da combattimento con la lama a forma di becco di corvo»,

la temibile arma impiegata per il corpo a corpo (figura 1). Lo Zuozhuan (Commentario di Zuo [alle «Primavere e Autunni»], c. iv secolo a.C., duca Xuan, anno 12) accompagna la suddetta definizione di wu a una disamina dell’ambito semantico del termine in questione che va ben al di là dell’identificazione dello stesso con la dimensione esclusivamente «militare». Wu, piuttosto, contempla una serie d’interventi che mirano al ripristino di un’armonia violata attraverso la repressione dei crimi-ni, il ricorso a sanzioni penali giuste, l’allestimento di spedizioni milita-ri, ma anche la severa disciplina, il rigore e, soprattutto, la capacità di persuadere l’avversario ad aderire a quel modello di esemplarità morale che s’intende affermare. Ecco perché è sicuramente restrittivo – al di là della forte suggestione logografica del termine wu – limitarsi a dare una definizione che tocca esclusivamente l’ambito militare. Infatti, so-prattutto con l’emergere della cosmologia correlativa, il modo cui wu si contrappone a wen delinea forme di assertività e coercizione che richie-dono certamente di essere esibite, ma non necessariamente intraprese. Il potere della deterrenza è, spesso, ben piú efficace, poiché la vittoria può benissimo risolversi in una non-contesa, come si legge nel Laozi:

Un bravo soldato non ha piglio marziale, un bravo guerriero non è rabbioso,

un bravo vincitore non affronta i suoi nemici,

chi è bravo a utilizzare al meglio gli altri, ad essi sottostà. Ciò si definisce «la Virtú del non contendere»,

«saper utilizzare al meglio gli altri», «essere pari al Cielo»:

ecco la somma vetta cui gli antichi giunsero! (Laozi 68; Andreini 2004a, p. 67). In fondo, il vero modello è il Cielo, poiché, come ribadisce il Laozi, «la Via del Cielo riesce a prevalere senza combattere» (Laozi 73; An-dreini 2004a, p. 77). Questo approccio non si discosta da quanto riscon-triamo in alcuni passi del Sunzi bingfa (L’arte della guerra del Maestro Sun), noto anche come Sunzi (Maestro Sun), il principale testo della tradizione militare cinese: «Non è detto che vincere cento battaglie su

cento sia la cosa migliore; la cosa migliore è, invece, costringere alla

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