C’è l’usanza di indirizzare dei memoriali ai pro-pri superiori al fine di proporre delle misure uti-li al governo.
I miei libri sono della medesima natura di quei memoriali; al pari di essi, non sono che l’espressio-ne scritta di idee che mi stanno a cuore.
Wang Chong, Lunheng 84. Il grande storico della Cina Étienne Balazs osservava che «ogni fi-losofia cinese è eminentemente una fifi-losofia sociale» e che questa a sua volta è «primariamente un pensiero politico» (Balazs 1968, p. 78). Que-sto giudizio si applica particolarmente alle speculazioni sviluppate nel corso delle due dinastie Han (206 a.C. - 220 d.C.), e ancor piú al periodo di formazione dell’impero, allorché le risorse intellettuali e simboliche disponibili furono mobilitate al fine di pensare il potere imperiale e le istituzioni adatte a preservarlo. Per quattro secoli la Cina godrà di una certa stabilità, nel cui corso i pensatori si dedicheranno a concepire isti-tuzioni religiose e politiche ove l’imperatore occuperà il posto centrale, a immagine del Cielo o del dao nei sistemi cosmologici da essi paralle-lamente elaborati. Due sono le grandi correnti che si dividono la sce-na intellettuale, pur con molteplici prestiti reciproci. Da usce-na parte vi è quella degli eredi di Confucio (551-479 a.C.) e dei Classici, e dall’altra vi è la corrente Huang-Lao, denominazione che deriva dal nome dell’Im-peratore Giallo, Huangdi, mitico sovrano dell’antichità, e di Laozi, il presunto autore del Daodejing (Classico della Via e della Virtú), il testo fondativo del daoismo. Questa seconda corrente di pensiero ci è nota non soltanto grazie alle opere storiche che ci sono state trasmesse, ma anche grazie ai manoscritti ritrovati nel 1973, in una tomba datata 168 a.C., a Mawangdui, nell’attuale provincia dello Hunan. Da una parte e dall’altra ricorrono con insistenza i seguenti interrogativi: perché i Qin (221-206 a.C.), che regnarono prima degli Han, hanno perso l’impero? Quali colpe hanno commesso? Come avrebbero dovuto governare gli Han per evitare la sorte dei Qin? Tali questioni offrirono ai pensato-ri Han l’occasione di pensato-riconsiderare la stopensato-ria delle Tre Dinastie (Sandai) – Xia, dinastia leggendaria che avrebbe regnato nella prima metà del II millennio a.C. (c. xxi-xvii secolo a.C.), Shang (c. 1600-1045 a.C.) e
Zhou (1045-256 a.C.) –, generalmente per lodare i loro buoni sovrani e i loro saggi consiglieri e per stigmatizzare la brutale frattura introdotta dai Qin nell’ordine delle successioni dinastiche. Per i letterati confuciani è la sconfessione dei riti e della cultura tradizionale a spiegare la brevi-tà del primo impero. Per gli adepti dell’Imperatore Giallo e di Laozi, ai quali non ripugnava il ricorso a leggi e punizioni, è stata la loro applica-zione troppo severa a provocare la rovina dei Qin.
La maggior parte dei pensatori i cui scritti ci sono pervenuti non fu-rono filosofi chiusi nelle loro torri d’avorio, bensí uomini impegnati, che talora detenevano le piú alte responsabilità; spesso erano consiglie-ri vicini all’imperatore, e quasi sempre funzionaconsiglie-ri dello stato. Allorché uno dei piú celebri fra loro, Dong Zhongshu (195-115 a.C.), risponde nel 134 a.C. alle domande che gli rivolge il sovrano, queste riguardano direttamente la gestione dell’impero e la natura del potere imperiale: co-me hanno governato i saggi sovrani del passato? Perché, malgrado tutto il suo impegno a mettere in pratica i buoni precetti ereditati dai Zhou, l’imperatore non riesce a conseguire prosperità e pace? I metodi impie-gati in passato sono vari; come si può sapere qual è la Via del Cielo? Pur se le risposte di Dong Zhongshu si muovono sul terreno della filosofia, della storia e della morale, il loro senso generale è di fornire all’impera-tore la miglior ricetta per conservare il proprio potere.
Nondimeno, gli Han non hanno ignorato l’individuo e le sue aspira-zioni personali. Sia i corredi funerari finalizzati al benessere del defunto nell’aldilà, sia i culti dell’immortalità che si sono moltiplicati nell’impero mostrano che l’uomo Han si preoccupa del suo destino privato e non è interamente votato al servizio dello stato. Peraltro, il disinteresse per la cosa pubblica andrà crescendo nella seconda metà della dinastia, allorché gli eunuchi e le grandi famiglie monopolizzeranno il potere escludendo sempre piú i letterati; si succederanno allora degli imperatori bambini, marionette nelle mani dei clan dominanti. Ma all’inizio dell’impero, i metodi di governo proposti da entrambe le parti in conflitto sono suscet-tibili di essere applicati poiché il nuovo potere, pur conservando un certo numero di istituzioni della dinastia sconfitta, vuole pensarsi diversamente.
1. Edificare la legittimità.
Liu Bang, l’uomo che conquista il trono imperiale verso la fine del iii secolo a.C., è un guerriero senza pari, ma è un plebeo. La storia del-la successione dinastica come si è sempre presentata prima degli Han è invece quella delle grandi famiglie nobili. Anche se era un reprobo,
il Primo Imperatore dei Qin, Qin Shi Huangdi (r. 221-210 a.C.), era nondimeno il rampollo della potente casata di Qin, che aveva domi-nato il Nord-ovest della Cina a partire dall’viii secolo a.C. Alle oscure origini di Liu Bang, il futuro Gaozu, si aggiungeva uno spinoso pro-blema: un suddito aveva diritto di impadronirsi del trono del Figlio del Cielo senza essere ritenuto un usurpatore? La filosofia cinese ave-va già escogitato in proposito, grazie alla teoria del mandato celeste (Tianming), un espediente consistente nel sostenere che tale mandato poteva essere revocato in ogni momento al sovrano che non si attenes-se alla virtú e il cui comportamento si discostasattenes-se dai sacri doveri ine-renti al suo incarico. La nozione di mandato celeste, forgiata durante la sovranità dei Zhou, serví probabilmente a giustificare a posteriori il rovesciamento violento della dinastia precedente, quella degli Shang. Si spiegò che costoro, a causa del loro comportamento sregolato e cru-dele, avevano perduto il mandato celeste. Tale mandato da allora era legittimamente passato ai Zhou, che ristabilirono la pace. Occorreva in qualche modo giustificare moralmente il rovesciamento di un po-tere stabilito al fine di legittimare i nuovi sovrani senza al contempo accreditare l’idea dell’ammissibilità della ribellione. Un aneddoto rife-rito dallo storico Sima Qian (c. 145-86 a.C.), in un capitolo dello Shiji (Memorie di uno storico) dedicato ai letterati eminenti, ci mostra co-me tale teoria fosse ancora dibattuta all’inizio del periodo imperiale. Un esperto confuciano dello Shijing (Classico delle odi), Maestro Huan Gu, e un interlocutore daoista, Maestro Huang, si confrontano sulla questione della legittimità della transizione dinastica:
Maestro Huang dichiarò: «Tang [il fondatore della dinastia Shang] e Wu [il fon-datore della dinastia Zhou] non avevano ricevuto il mandato; sono dei regicidi». Huan Gu replicò: «Niente affatto. Jie e Zhou [gli ultimi sovrani delle dinastie Xia e Shang] seminavano il terrore e il disordine, tanto che tutti i cuori si volsero verso Tang e Wu. Con unanime approvazione, Tang e Wu uccisero i tiranni, e i sudditi di costoro seguirono di buon grado ai liberatori, che non ebbero altra scelta che sa-lire al trono. Se questo non è ricevere il mandato, che cosa sarebbe mai?» Huang ribatté: «Anche se usato un cappello si porta sulla testa, anche se nuove fiammanti le scarpe si portano ai piedi. Perché? Perché l’alto è distinto dal basso. Anche se Jie e Zhou si erano allontanati dalla dritta via, nondimeno essi restavano dei re; Tang e Wu potevano ben essere dei santi, ma restavano comunque dei sudditi. Allorché il sovrano erra, il rispetto dovuto al Figlio del Cielo [l’imperatore] esige dal ministro che egli inciti con franchezza il suo signore a emendarsi; e invece, egli lo uccide, impadronendosi del suo trono e del governo. Se questo non è un regicidio, che cosa sarebbe mai?» Allora Huan Gu chiese: «Seguendo questo ragionamento, Gaozu [il fondatore della dinastia Han], che ha sostituito il sovrano dei Qin, avrebbe allora usurpato il trono del Figlio del Cielo?» A quel punto l’imperatore si interpose e mi-se fine alla discussione. Da allora i letterati non osarono piú discutere apertamente della distinzione fra mandato e regicidio (Shiji, cap. 121, pp. 3122-23).
Questo aneddoto è per molti versi interessante. Innanzitutto perché mette in scena due letterati (di cui quantomeno uno, il Maestro Huan Gu, occupa una carica di «erudito», boshi, a corte) che dibattono in pre-senza dell’imperatore, una pratica che in seguito darà vita a veri e propri «convegni» che riunivano decine di dotti invitati a pronunciarsi su de-terminate questioni di carattere politico o sull’adozione di un particolare commentario dei Classici. L’aneddoto mostra inoltre che la nozione di mandato celeste fissa un limite al potere assoluto del sovrano. Fin tanto che la sua azione è conforme a quella del Cielo, ossia alla morale, all’e-quità e alla giustizia, l’imperatore conserva la propria legittimità e ha il diritto di ottenere la sottomissione dei propri sudditi. E reciprocamen-te, i sudditi hanno il diritto di ribellarsi contro un sovrano che infranga le norme dettate dal Cielo. Questa libertà, tutta relativa, di rimettere in causa l’autorità allorché questa si discosti troppo dalla via tracciata dal Cielo, non è trascurabile. Dal punto di vista di Maestro Huang, inve-ce, non c’è alternativa a un ordine gerarchico che non abbia a che fare con i valori morali, e per il quale i valori morali siano necessariamente legati alla posizione occupata dagli individui nella società. Infatti, nel-la concezione del potere difesa da Maestro Huang, che appartiene al-la corrente Huang-Lao, il sovrano è un’incarnazione del dao. Egli non ha autonomia o personalità propria; egli governa tramite il «non-agire» (wuwei), che non è una non-azione, o un agire alla propria maniera, ma tutto al contrario, ossia è un agire determinato e interamente regolato dal movimento del dao, al quale il sovrano sacrifica ogni passione egoi-stica. Come ci si potrebbe ribellare contro un sovrano cosí concepito? Sarebbe come volersi ribellare al Cielo!
Di fatto, il problema della successione dinastica sarà affrontato dai pensatori dell’epoca Han da angolature diverse. Alla teoria del manda-to celeste si oppone quella della successione «naturale» delle dinastie in funzione del ciclo dei Cinque Elementi, o Cinque Fasi (wuxing). In questa concezione, ereditata da Zou Yan (305-240 a.C.), non vi è alcuna considerazione morale, bensí è il ciclo inalterabile delle Cinque Fasi che determina e trasforma in uno stesso movimento la natura e le istituzioni umane. Quanto all’intervento perentorio dell’imperatore che pone fine a un dibattito che minaccia il fondamento stesso del suo potere, esso ben ci illustra i limiti entro i quali il dotto può manifestare la libertà di espressione allorché diviene funzionario.
2. La corte dei letterati.
Pur se il numero dei funzionari reclutati tramite concorsi o assegnati a un incarico sulla base del loro sapere rappresentava soltanto una mino-ranza nel corpo dell’amministrazione imperiale, in larga misura compo-sta da individui provenienti dalla nobiltà e dalle potenti famiglie alleate al trono, è nondimeno incontestabile che nella storiografia cinese i colti occupano il proscenio. I loro discorsi, spesso trascritti fedelmente nelle narrazioni storiche, riflettono le nuove problematiche filosofiche e po-litiche dell’epoca. I letterati Han, depositari delle conoscenze elaborate nel corso dei secoli precedenti all’unificazione, procedono innanzitutto a effettuare un’opera di esegesi e di sintesi degli antichi saperi, attuan-done nuove interpretazioni.
La pratica consistente nel reclutare «eruditi» o «dottori» al servizio della corte non datava dall’epoca Han, esisteva già in forma diversa nei grandi stati in lotta tra loro nel periodo degli Stati Combattenti (453-221 a.C.), allorché le corti regali nominavano, sulla base della loro compe-tenza, degli individui a cariche che in altri tempi erano state ereditarie. La corte del Primo Imperatore dei Qin contava settanta eruditi, alcuni dei quali continuarono la loro carriera al servizio dei primi imperatori Han. Fu durante il regno dell’imperatore Wu (r. 141-87 a.C.), nel 136 a.C., che venne istituita la carica di «erudito esperto dei Cinque classi-ci» (wujing boshi) che dava diritto a un salario di 600 picul (il salario piú elevato era di 2000 picul). I Cinque classici sono opere che si costituiro-no a partire dalla dinastia Zhou e di cui, dopo Sima Qian, si attribuiva generalmente la redazione o la compilazione a Confucio. Essi compren-dono l’Yijing (Classico dei mutamenti), manuale di divinazione formato da un testo di base e dai suoi commentari di epoche diverse; lo Shujing (Classico dei documenti), raccolta di dialoghi fra il sovrano e i suoi mi-nistri, di dichiarazioni solenni del re al suo popolo o ai suoi eserciti e di annunci di concessione di privilegi (certe parti della raccolta risalgono all’inizio della dinastia Zhou e costituiscono i testi piú antichi trasmessi dalla tradizione); lo Shijing, costituito da 305 canti, poesie di corte ma anche ballate popolari, riscritte in lingua classica dagli scribi che le ave-vano raccolte nei diversi principati dei Zhou; il Liji (Memorie sui riti), che all’inizio dell’epoca Han raccolse le regole di condotta cui faceva ri-ferimento l’aristocrazia in diverse circostanze (matrimonio, assunzione del berretto virile, gare di arcieri, lutto, udienze a corte, ecc.), i testi che le commentavano e i trattati rituali di epoche diverse, che andavano dal iv secolo a.C. all’epoca Han (va in proposito ricordato che i rituali regali
e dell’alta nobiltà erano andati perduti); e infine il Chunqiu (Primavere e Autunni), brevi annotazioni che ricordavano i fatti importanti dei regni dei dodici duchi di Lu fra il 722 e il 481 a.C. «Queste cinque raccolte furono erette a “canoni” di un’ortodossia ufficiale, a “Classici”, e fu su di esse che si basò l’insegnamento pubblico, organizzato con un siste-ma di esami che apriva agli studiosi la carriera amministrativa» (Dieny 2002, p. 452). Ciascuno di questi testi era studiato e trasmesso da ge-nerazioni di maestri che ne redigevano i commentari, la cui fortuna e il cui riconoscimento variarono nel corso della dinastia.
Gli eruditi erano presenti a corte come consiglieri dell’imperatore ed erano inviati in provincia al servizio di un re o di un governatore. Questo primo reclutamento segnava talvolta l’inizio di una lunga car-riera, come quella di Gongsun Hong (200-121 a.C.), che, provenendo da una famiglia povera, aveva pascolato maiali in riva al mare prima di intraprendere lo studio del Chunqiu; reclutato come erudito all’età di sessant’anni, morí ministro e fu nobilitato con il rango di marchese. La creazione della carica di «erudito dei Cinque classici» è spesso attribui-ta, a torto, a Dong Zhongshu; invece essa fu prevalentemente il risultato di uno sforzo collettivo condotto al piú alto livello. Questa carica, il cui conseguimento dipendeva dalla conoscenza di un testo appartenente alla tradizione confuciana, non fu istituita senza dar luogo a perdite. Non si trattava di nulla di meno che sradicare le dottrine dei legisti e dei daoisti a vantaggio dell’adozione esclusiva dei Cinque classici. Si citano spesso in proposito le seguenti parole di Dong Zhongshu: «Il vostro servitore ritiene che chi si allontana dagli insegnamenti delle Sei arti rivelate da Confucio [i Cinque classici e il Classico, perduto, della musica] debba essere respinto e interdetto» (Hanshu [Storia della dinastia Han (Occi-dentale)], cap. 56, p. 2523).
Una prima offensiva in tal senso fallí, e si concluse con le dimissio-ni obbligate di due midimissio-nistri e il suicidio di due letterati. Questi avvedimissio-ni- avveni-menti ebbero luogo nel 139 a.C., ossia all’inizio del lungo regno dell’im-peratore Wu, allorché l’imperatrice Dou, vedova dell’imdell’im-peratore Wen (r. 180-157 a.C.), dominava ancora la corte e favoriva i daoisti o adepti della corrente Huang-Lao.
3. Gli adepti del «laisser faire».
L’influenza politica della corrente Huang-Lao fu esercitata all’inizio della dinastia tramite svariati personaggi che occuparono posti elevati nell’amministrazione: Cao Can (m. 190 a.C.), originariamente
guardia-no di prigione e compagguardia-no d’armi del fondatore della dinastia Han, di-venne cancelliere del regno di Qi; di origine modesta, Chen Ping (m. 178 a.C.), altro compagno d’armi e consigliere del fondatore della dina-stia, terminò la sua ascesa con il rango di ministro; Ji An (m. 112 a.C.), palafreniere dell’imperatore Wu, fu nominato prefetto della capitale; Zheng Dangshi fu governatore di diverse province e fu nominato mini-stro dell’Agricoltura nel 130 a.C. Tutti, in gradi diversi, governarono secondo i principî della dottrina Huang-Lao. Di Cao Can, il piú celebre, Sima Qian narra che dopo aver conquistato a viva forza due regni e cen-toventidue distretti, si ritrovò cancelliere del principe di Qi e chiese con-siglio sull’arte di governare in tempi di pace ai letterati. Costoro, assai numerosi a Qi, avevano tutti una ricetta diversa, ma nessuna che soddi-sfacesse Cao Can. Fu allora che egli udí parlare di Gaigong, un esperto delle arti dell’Imperatore Giallo e di Laozi, e lo invitò presso di sé al fine di apprendere il suo metodo, che consisteva nel «coltivare la purezza e la calma e lasciare il popolo governarsi da sé». Per nove anni, Cao Can agí secondo tale principio: il popolo di Qi visse in pace, e il cancelliere acquisí una reputazione di grande saggezza. Egli fu in seguito nominato primo ministro dell’impero (193 a.C.), e si distinse sia per la sua politi-ca del non-agire sia per la sua propensione al bere, come Chen Ping, di cui un rivale ebbe a scrivere: «Come ministro, Chen Ping non si occupa di nulla e passa le sue giornate a bere e a corteggiare le donne» (Shiji, cap. 56, p. 2060). Ji An fu consigliere a corte e governatore di provin-cia; in effetti, l’imperatore Wu lo allontanò in diverse occasioni al fine di sottrarsi alle critiche che egli gli rivolgeva sulla sua politica bellicosa contro i Xiongnu, poiché Ji An era fautore della conciliazione e della pace. Ji An fu anche bersaglio dell’ostilità dei primi ministri dell’epoca Tian Fen e Gongsun Hong, che rappresentavano il partito dei letterati confuciani. Di Ji An, Sima Qian scrisse:
Egli studiò le teorie dell’Imperatore Giallo e di Laozi; per dirigere l’amministra-zione come per governare il popolo, egli privilegiava la purezza e la calma e delegava ogni responsabilità ai suoi assistenti. Per dirigere, egli si conformava ai grandi prin-cipî e trascurava il dettaglio. […] Il suo governo riposava interamente sul principio del non-agire; egli considerava le cose in grande e non si preoccupava né di lettere, né di leggi (Shiji, cap. 120, p. 3105).
Le dottrine sostenute da questi diversi personaggi sono state acco-state a quelle esposte nei manoscritti trovati a Mawangdui. Si tratta di quattro testi redatti sullo stesso pezzo di seta, che riportano tra l’altro una delle piú antiche versioni del Daodejing. Di lunghezza ineguale, da 456 a 5000 caratteri, essi non contengono alcun riferimento cronologi-co o geograficronologi-co. Gli esperti non sono cronologi-concronologi-cordi sulla loro natura e sulla
data della loro redazione. Alcuni sostengono che si tratti del Huangdi
sijing (Quattro canoni dell’Imperatore Giallo), poiché un’opera figura
sotto questo titolo nello Yiwen zhi (Trattato bibliografico) dello Hanshu, mentre una specialista cinese afferma che sono stati redatti intorno al 190 a.C. La famosa battaglia fra l’Imperatore Giallo e il ribelle Chi You, descritta in uno dei manoscritti, rappresenterebbe in realtà le guerre di pacificazione condotte da Gaozu (r. 202-195 a.C.) contro i principi vas-salli in rivolta. A dire il vero le teorie Huang-Lao si sono senza dubbio sviluppate nel corso del periodo degli Stati Combattenti, e i testi sco-perti a Mawangdui risalgono certamente alla fine di tale periodo, nel iii secolo a.C. Ma le problematiche che vi si esprimono, e che vertono es-senzialmente sull’arte di governare, sono pur sempre quelle degli Han, ed è utile conoscerne le linee fondamentali per comprendere il panora-ma intellettuale in epoca imperiale.
4. Come governare l’impero?
«Senza fare nulla», rispondono a tale domanda i fautori della corren-te Huang-Lao, ma questo «far nulla» è in realtà tutto un programma, dato che si tratta di modellare perfettamente le azioni umane sul corso naturale delle cose. Al vertice del sistema vi è il sovrano, «al contem-po centro “vuoto” e generatore delle infinite mutazioni dell’universo» (Cheng 1997, p. 280), simile al dao. Il dao è eterno, senza forma e senza nome; non può essere limitato dalle cose, ma è attivo; non è un principio separato dal mondo, è sia materiale sia immateriale. È all’origine delle cose e degli esseri, dei piú grandi come dei piú infimi. I manoscritti di