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Introduzione

Questo articolo intende rifl ettere sulla defi nizione di Israele come «Stato ebraico e democratico»1 e sui cambiamenti avvenuti nel rapporto tra «ebrai-

cità» e «democrazia» negli ultimi anni, impiegando un prisma che mi sem- bra particolarmente utile, vale a dire la cittadinanza e, in particolare, le leggi che prevedono come questa venga attribuita. Ritengo infatti che la questione dell’attribuzione della cittadinanza israeliana e il dibattito intorno a questo tema siano utilissime cartine al tornasole per valutare il percorso compiuto da Israele negli ultimi due decenni, caratterizzati a mio avviso dalla volontà della politica di far prevalere il carattere «ebraico» dello Stato rispetto a quello «democratico».

L’articolo è diviso in tre parti. Dopo una prima parte in cui analizzo le principali posizioni di sociologi e scienziati politici che si sono interrogati sul rapporto tra «ebraicità» e «democrazia», le pagine successive sono de- dicate a presentare il modo in cui viene regolamentata l’attribuzione della cittadinanza in Israele, partendo dalla Legge sulla cittadinanza del 1952 e la Legge del Ritorno del 1950 e fi nendo con i cambiamenti intervenuti nei decenni seguenti. Infi ne, l’articolo si occupa del dibattito relativo all’attri- buzione della cittadinanza israeliana negli ultimi quindici anni, dopo la fi ne della stagione di Oslo. Da un lato, mi soffermo sulla Legge sulla cittadinan- za e l’ingresso in Israele, approvata temporaneamente nel 2003 ma da allora

1. Nella Legge fondamentale sulla dignità e la libertà della persona del 1992 si legge: «L’obiettivo di questa legge è proteggere la dignità e la libertà della persona per fondare in questa Legge fondamentale i valori dello Stato di Israele come stato ebraico e democratico». Cfr. il testo in inglese, http://www.mfa.gov.il/MFA/MFA-Archive/1992/Pages/Basic%20 Law-%20Human%20Dignity%20and%20Liberty-.aspx, accesso del 25.06.2016.

sempre prorogata, che vieta il ricongiungimento familiare e la cittadinanza ai coniugi dei cittadini israeliani che provengano dai Territori occupati Pale- stinesi e da altri paesi arabi. Dall’altro, analizzo il dibattito relativo alle pro- poste di cambiamento o abolizione della Legge del Ritorno che dopo il 2000 sono state portate avanti da organizzazioni non governative, associazioni, e intellettuali israeliani. La discussione relativa tanto alla legge del 2003 quanto alle proposte della società civile, infatti, mettono in luce come la cit- tadinanza sia uno degli ambiti in cui si registra maggiormente lo scontro tra coloro che intendono accentuare il carattere «ebraico» di Israele a discapito di quello «democratico» e chi, invece, mira al processo opposto.

Defi nire Israele: democrazia etnica o etnocrazia?

Nel novembre del 2002, Ahmed Tibi, uno dei dieci parlamentari arabi eletti alla Knesset nelle elezioni del 1999, rilasciò un’intervista in cui, utiliz- zando un gioco di parole relativo alla ricordata defi nizione di Israele come Stato «ebraico e democratico», dichiarava: «Israele è democratico per i suoi cittadini ebrei ed ebraico per quelli arabi»2. L’obiettivo di Tibi era mettere

in luce la diffi coltà di conciliare due elementi differenti: quello «ebraico», che vede Israele come lo «Stato degli ebrei» cui pensava già Theodor Herzl nel 1896 e come «la raccolta degli esiliati», per usare le parole della Di- chiarazione di indipendenza del 14 maggio 19483, e quello «democratico»,

che vede Israele come uno Stato che garantisce i pieni diritti sia formali sia sostanziali a tutti i suoi cittadini senza alcuna distinzione.

Non pochi tuttavia sono gli autori che, in linea con quanto ha affermato Tibi, ritengono che la democrazia israeliana non sia completa, per l’impos- sibilità di conciliare questi due principi, tanto da impiegare le defi nizioni di «democrazia etnica» o «etnocrazia».

Il sociologo Sammy Smooha, ad esempio, defi nisce Israele una «demo- crazia etnica». Smooha ha più volte, infatti, sostenuto come Israele rappre- senti una novità rispetto ai vari tipi di democrazia conosciuti. Non essendo né una democrazia liberale, come gli Stati Uniti, né una democrazia “conso-

2. In Identity Crisis. Israel and Its Arab Citizens, International Crisis Group Middle East Report N. 25, 4 marzo 2004, p. 11, http://www.crisisgroup.org/~/media/Files/Middle%20 East%20North%20Africa/Israel%20Palestine/Identity%20Crisis%20Israel%20and%20 its%20Arab%20Citizens.pdf, accesso del 25.06.2016.

3. Il testo in inglese si trova in http://www.mfa.gov.il/MFA/Peace%20Process/ Guide%20 to%20the%20Peace%20Process/Declaration%20of%20Establishment%20of%20State%20 of%20Israel, accesso del 25.06.2016.

ciazionale”, che include nella propria costituzione la presenza di due comu- nità nazionali etniche differenti, come il Belgio, né una democrazia razziale, un Herrenvolk, come il Sud Africa, è necessario utilizzare un neologismo, che tenga conto della nuova tipologia di democrazia, quella «etnica»4. Per

«democrazia etnica», Smooha intende un sistema politico che combina l’esistenza di istituzioni democratiche con la presenza di un gruppo etnico maggioritario in posizione dominante rispetto ad uno o più gruppi etnici minoritari. Al contempo, però, proprio perché democratico, un sistema poli- tico del genere prevede che questo o questi gruppi etnici minoritari possano utilizzare le istituzioni democratiche esistenti per cambiare la situazione esi- stente e trasformare il sistema politico.

Altre autori hanno, invece, preferito utilizzare il termine «etnocrazia» per defi nire Israele. Tra questi, As’ad Ghanem, Nadim Rouhama, e Oren Yiftachel, che rifi utano il concetto di «democrazia etnica» sostenendo che «concetti come “etnocrazia” e “Stato etnico” colgano meglio l’essenza della struttura politica di Israele, raffi gurando un regime che non è né democra- tico, né autoritario»5. Ritengono, infatti, errata la posizione teorica in base

alla quale vengono accostati due concetti distinti, quello di etnos, cioè di un gruppo che per defi nirsi opera una selezione in base ad un’appartenenza originaria, e quello di demos, di un gruppo che, al contrario, si defi nisce in- cludendo soggetti diversi in base alla residenza o alla cittadinanza. Il loro ti- more, infatti, è che la defi nizione di Israele come «democrazia etnica» possa in qualche modo rappresentare una legittimazione ad uno status quo politico e giuridico. Questi tre autori sottolineano una distinzione essenziale tra un «nucleo etnico» e un «involucro democratico». Gli elementi democratici, rappresentati dalle elezioni, da un potere giudiziario indipendente, da una stampa libera, e dalla tutela delle libertà personali, rappresentano soltanto l’involucro di una struttura niente affatto democratica, perché fondata su 4. S. Smooha, Ethnic Democracy: Israel as an Archetype, in «Israel Studies», 2, 2, 1997, pp. 198-241 (pp. 206-207). Cfr. anche Id., The Model of Ethnic Democracy: Israel as a

Jewish and Democratic State, in «Nations and Nationalism», 8, 4, 2002, pp. 475-503.

5. A. Ghanem, N. Rouhama, O. Yiftachel, Questioning “Ethnic Democracy”: A

Response to Sammy Smooha, in «Israel Studies», 3, 2, 1998, pp. 253-267 (p. 265). Cfr. anche

A. Ghanem, State and Minority in Israel: The Case of Ethnic State and the Predicament of

Its Minority, in «Ethnic and Racial Studies», 21, 3, 1998, pp. 428-448; N. Rouhama, The Test of Equal Citizenship: Israel Between Jewish Ethnocracy and Binational Democracy,

in «Harvard International Review», 20, 2, 1998, pp. 74-78; O. Yiftcahel, Israeli Society and

Jewish-Palestinian Reconciliation: Ethnocracy and Its Territorial Contradictions, in «Middle

East Journal», 51, 4, 1997, pp. 1-16; Id., «Etnocrazia». La politica della giudaizzazione

di Israele-Palestina, in J. Hilal e I. Pappe (a cura di), Parlare con il nemico. Narrazioni palestinesi e israeliane a confronto, Bollati Boringhieri, Torino 2004, pp. 96-131.

una rigida gerarchia etnica, sulla mancanza di una cittadinanza inclusiva e su un eccessivo potere esercitato delle istituzioni religiose. In questo modo, dunque, Israele legittima una discriminazione fondata sull’appartenenza et- nica, perché i palestinesi, sebbene cittadini a pieno titolo, possono godere solo dei diritti previsti dall’«involucro democratico», ma non di quelli che il «nucleo etnico» riserva solo agli ebrei. Per questa ragione, a loro avviso, la defi nizione più appropriata è quella di «etnocrazia».

A metà tra le due posizioni si colloca quella di Yoav Peled che ritiene come a partire dal 2000 Israele, fi no ad allora una «democrazia etnica», si sia «costantemente mosso […] verso una forma di Stato che assomiglia fortemente ad una etnocrazia»6. Peled ricorre proprio al prisma della citta-

dinanza per argomentare la sua tesi e sottolinea come, nel tentativo di com- binare tre diversi principi costituzionali, repubblicanesimo, liberalismo ed etnicità, Israele abbia fi nito per dare origine a due diversi tipi di cittadinan- za: una «repubblicana» per gli ebrei, e una «liberale» per gli arabi7. Ciò

signifi ca che, mentre ciascun membro di entrambi i gruppi etnici può godere dei diritti di cittadinanza, solo gli ebrei possono esercitare tali diritti per il raggiungimento del bene comune. Secondo Peled, le tradizioni liberale e re- pubblicana, infatti, divergono laddove per la prima la cittadinanza si risolve nel garantire uguali diritti a ciascun individuo, inteso come un’entità politica astratta, mentre per la seconda la cittadinanza presuppone l’appartenenza ad una comunità morale che ha già individuato un concetto di bene comune che tutti gli individui parte di questa comunità contribuiscono a realizzare. È evidente come stabilire chi possa appartenere alla comunità morale diventi fondamentale per capire di quali diritti il cittadino possa godere o meno. Israele è, da questo punto di vista, un esempio molto interessante. Secondo Peled, infatti, Israele è nato come Stato per gli ebrei, per realizzare un bene comune, quello del popolo ebraico, che è stato dunque riconosciuto come prioritario. L’appartenenza etnica al popolo ebraico è l’elemento determi- nante per poter avere accesso alla cittadinanza «repubblicana», da cui i non ebrei sono stati esclusi perché etnicamente non appartengono a tale comuni- tà. Dal momento, però, che Israele intendeva comunque essere uno Stato che

6. Y. Peled, Citizenship Betrayed: Israel’s Emerging Immigration and Citizenship

Regime, in «Theoretical Inquiries in Law», 8, 2, 2007, pp. 333-358 (p. 337).

7. Una distinzione simile viene utilizzata da Uri Davis, che impiega i termini in arabo

jinsiyya e muwatama per indicare l’esistanza in Israele di due cittadinanza: la prima, che ri-

conosce principalmente il «diritto di residenza» nello Stato di cui sono cittadini, per gli arabi, e la seconda, che garantisce la pienezza dei diritti, per gli ebrei. Cfr. U. Davis, Jinsiyya versus Muwatama: the Question of Citizenship and the State in the Middle East: the cases of Israel,

garantisse l’uguaglianza di tutti i propri cittadini, agli arabi israeliani è stato garantito il godimento dei diritti di una cittadinanza «liberale». Ed è proprio la modalità di attribuzione della cittadinanza israeliana in maniera differente per ebrei e non ebrei che Peled ritiene sia come la “prova provata” della compresenza di due tipologie di cittadinanza, «republicana» e «liberale»8.

Le modalità di attribuzione della cittadinanza in Israele

Sulla base della Legge sulla cittadinanza, entrata in vigore il 14 luglio 1952, quattro sono i modi in cui può essere acquisita la cittadinanza israe- liana: per nascita, attraverso la Legge del Ritorno, per residenza, e per natu- ralizzazione9.

La prima modalità è per nascita, sulla base del principio dello ius san-

guinis. Diventa, dunque, cittadino israeliano chiunque sia fi glio di cittadino

israeliano, sia questi nato nel territorio di Israele o fuori di esso. Se qualcu- no, invece, nasce in Israele, ma non è fi glio di cittadino israeliano, ha diritto alla cittadinanza nel caso in cui ne faccia richiesta tra i 18 e i 25 anni, e sia stato residente in Israele consecutivamente per i cinque anni precedenti la richiesta. In secondo luogo, la cittadinanza israeliana si acquista attraverso la cosiddetta Legge del Ritorno, approvata dalla Knesset [Parlamento isra- eliano] nel 1950 e su cui tornerò nelle prossime pagine. Un terzo modo per acquisire la cittadinanza è in base alla residenza. Fu questa la modalità at- traverso cui ottennero la cittadinanza israeliana i palestinesi che risiedevano in Israele negli anni del mandato britannico e che rimasero in Israele dopo il 1948. In realtà, la cittadinanza venne immediatamente data soltanto a 63.000 abitanti10, dal momento che per la maggioranza degli arabi palestinesi rima-

sti in Israele fu molto diffi cile dimostrare di essere in possesso della cittadi- nanza mandataria11 o soddisfare gli altri criteri previsti dalla legge. Molti di

questi riuscirono ad ottenere la cittadinanza solo nel 1980, quando un nuovo emendamento ne rese più facile l’acquisizione12. La legge del 1952 prevede,

8. Y. Peled, Ethnic Democracy and the Legal Construction of Citizenship: Arab Citizens

of the Jewish State, in «American Political Science Review», 86, 2, 1992, pp. 432-443.

9. Il testo della legge in inglese si trova in http://www.israellawresourcecenter.org/ israellaws/fulltext/nationalitylaw.htm, accesso del 25.06.2016.

10. Il dato si trova in S. Robinson, Citizen Strangers. Palestinans and the Birth of Israel’s

Liberal Settler State,Stanford University Press, Stanford 2013, p. 100.

11. Sulla cittadinanza palestinese negli anni del Mandato britannico, cfr. L. Banko, The

creation of Palestinian citizenship under an international mandate: legislation, discourses and practises, 1918-1925, in «Citizenship Studies», 16, 5-6, 2012, pp. 641-655.

infi ne, l’acquisizione della cittadinanza per naturalizzazione. Fatta salva la discrezione del ministero degli interni, la naturalizzazione si applica ai casi in cui una persona si trovi in Israele, risieda in Israele almeno tre anni nei cinque precedenti il momento della domanda di naturalizzazione, abbia il permesso di residenza permanente, si sia stabilita o abbia intenzione di sta- bilirsi in Israele, abbia qualche conoscenza di ebraico, e abbia rinunciato o intenda rinunciare alla propria cittadinanza originaria.

È quest’ultima modalità che ci interessa maggiormente ai fi ni di questo articolo, perché è in questo modo che il coniuge non-israeliano di un cit- tadino israeliano ha diritto ad ottenere la cittadinanza. Naturalmente, se il coniuge di un cittadino israeliano è ebreo, questi ha diritto alla cittadinan- za in base alla Legge del Ritorno. Se, invece, non è ebreo, si aprono due possibilità. Nel caso in cui sia coniuge di una persona che è in procinto di ottenere la cittadinanza in virtù della Legge del Ritorno, avrà diritto alla cit- tadinanza nello stesso modo, come dirò nel paragrafo successivo. Nel caso in cui sia coniuge di un cittadino israeliano che ha già la cittadinanza israe- liana, seguirà invece le regole della naturalizzazione. Teoricamente, non c’è differenza se il coniuge israeliano è ebreo o non-ebreo. In pratica, però, le procedure sono piuttosto diverse, e i controlli per motivi di sicurezza sono di gran lunga inferiori nel caso in cui il cittadino israeliano sia ebreo, rispetto all’ipotesi in cui non lo sia.

La Legge del Ritorno

La Legge del Ritorno del 1950 prevedeva che chiunque fosse ebreo/a avesse diritto a immigrare in Israele e ad acquistare la cittadinanza israeliana in qualsiasi momento della propria vita. In questo modo, pertanto, si dava la possibilità ad ogni ebreo/a – sebbene la defi nizione di “ebreo” non fosse inclusa nella legge e sarebbe stata chiarita solo molti anni più tardi – di otte- nere la cittadinanza israeliana13. Per comprendere la ratio della legge, è utile

citare quanto l’allora Primo ministro israeliano, David Ben Gurion, dichiarò in occasione del voto parlamentare che avrebbe dato via libera alla legge. Agli occhi di Ben Gurion, il diritto di ogni ebreo alla cittadinanza non era Butenschon, U. Davis e M. Hassassian (a cura di), Citizenship and the State in the Middle

East: Approaches and Applications, Syracuse University Press, Syracuse-New York 2000,

pp. 201-224.

13. Per il testo della legge in inglese, cfr. http://www.mfa.gov.il/mfa/mfa-archive/ 1950-1959/pages/law%20of%20return%205710-1950.aspx, accesso del 25.06.2016.

concesso dallo Stato, perché tale diritto precedeva in realtà l’esistenza dello Stato; era il diritto dello Stato alla terra a derivare dal diritto degli ebrei a quella terra, e non viceversa14.

Non è questa la sede per approfondire in chiave comparata la Legge del Ritorno, sebbene sarebbe interessante analizzare il caso israeliano confron- tandolo con altri casi nazionali. Molti altri Stati, infatti, hanno nel corso del- la loro storia adottato leggi che prevedono la concessione della cittadinanza a un particolare gruppo etnico, come è il caso di vari paesi europei, come Finlandia, Grecia, Germania, Irlanda, Ungheria15.

Ci interessa maggiormente in queste pagine mettere in luce le modifi che apportate alla Legge nei decenni successivi. Tralasciando un primo emen- damento più di natura formale che sostanziale, introdotto dalla Knesset nel 1954, fu nel 1970 che un secondo emendamento introdusse due importanti cambiamenti16.

In primo luogo, venne data una defi nizione di «ebreo», stabilendo che ai fi ni della Legge del Ritorno per «ebreo» si sarebbe inteso «una persona che era nata da madre ebrea o si è convertita all’ebraismo e non è membro di un’altra religione». In questo modo, il legislatore recepiva quanto alcuni anni prima era stato affermato nel 1962 dalla Corte Suprema, in occasione del famoso caso di Oswald Rufeisen. Questi era un ebreo polacco che duran- te la Seconda guerra mondiale si era rifugiato in un convento cattolico per sfuggire alla persecuzioni naziste, dopo aver contribuito a salvare numerosi ebrei, grazie al suo impiego nella polizia polacca. Terminata la guerra, aveva preso i voti diventando sacerdote carmelitano, col nome di Padre Daniel, ed era giunto in Israele chiedendo la cittadinanza israeliana sulla base della Legge del Ritorno. Tuttavia, la sua domanda era stata respinta perché nel frattempo si era convertito al cattolicesimo. A quel punto Padre Daniel ave- va ricorso alla Corte Suprema, ma questa aveva deliberato che il sacerdote, avendo abbracciato un’altra religione, non avesse diritto alla cittadinanza israeliana tramite la Legge del Ritorno. Una soluzione di compromesso fu poi trovata allorché Padre Daniele ottenne la cittadinanza per naturalizza- zione: in tal modo, veniva garantita la possibilità di vivere in Israele ad un «giusto delle nazioni», ma al contento veniva introdotto il principio in base 14. In Y. Hazony, The Jewish State. The Struggle for Israel’s Soul, Oxford, Basic books, 2001, p. 56 e segg.

15. Cfr. A. Yakobson, A. Rubinstein, Israel and the Family of Nations. The Jewish nation-

state and human rights, Routledge, London-New York 2009, in particolare pp. 126-131.

16. Per il testo dell’emendamento, cfr. http://www.mfa.gov.il/mfa/mfa-archive/1950-1959/ pages/law%20of%20return%205710-1950.aspx, accesso del 25.06.2016.

al quale non avrebbe avuto diritto alla cittadinanza israeliana sulla base della Legge del Ritorno una persona che, pur nata ebrea, si fosse convertita ad un’altra religione17.

In secondo luogo, il secondo emendamento allargava notevolmente le maglie dell’attribuzione della cittadinanza israeliana: il diritto ad ottenere la cittadinanza israeliana sulla base della Legge del Ritorno veniva infatti garantito a «il/la fi glio/a e il/la nipote di un/a ebreo/a, il coniuge di un/a ebreo/a, il coniuge del/la fi glio/a di un/a ebreo/a, il coniuge del/la nipote di un/a ebreo/a , con l’eccezione di una persona che è stata ebrea e ha volon- tariamente cambiato la propria religione». Veniva in questo modo ribadito come l’adesione ad una religione differente dall’ebraismo fosse ritenuta una delle motivazioni per escludere dalla concessione della cittadinanza chi pure ne aveva diritto sulla base della Legge. Ancora più signifi cativa però era l’estensione del diritto alla cittadinanza anche a chi non è ebreo secondo la

halakha [legge ebraica], includendo pertanto anche fi gli e nipoti di possibili

matrimoni misti. Come ricorda Amnon Rubinstein, che a quel tempo prese parte alla discussione sull’emendamento in qualità di giovane docente di legge all’Università di Tel Aviv, tale scelta va compresa alla luce delle perse- cuzioni naziste. La decisione di estendere la possibilità di immigrare alla se- conda generazione fu presa perché le Leggi di Norimberga, approvate dalla Germania nazista nel 1935, colpivano chiunque avesse anche un solo nonno ebreo18. In tal modo, la Legge del Ritorno si poneva in diretta relazione con

quelle di Norimberga e confermava come la possibilità data ad ogni persona ebrea di immigrare in Israele venisse considerata una fondamentale garanzia per salvarla da subire possibili persecuzioni.

Tuttavia, la conversione che permetteva ad una persona di essere defi nita