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Laura Muzzetto

L’idea di cittadinanza come partecipazione alla gestione della comunità costituisce senz’altro uno dei fondamenti delle democrazie moderne e ha radici lontane e profonde, anche se nel corso dei secoli il concetto ha subito evoluzioni e modifi che, sia a livello teorico-fi losofi co sia politico. Storica- mente la cittadinanza si è basata sull’inclusione nella comunità religiosa o sui legami familiari, è dipesa dal censo, dalla classe sociale, o dal genere. Filosofi camente ha sempre rappresentato un nodo problematico e diffi cile da sciogliere: è stata pensata come appartenenza, come garanzia di libertà ed eguaglianza, come modalità di organizzazione delle relazioni sociali, come attributo giuridico di tutela o di esclusione1, ed anche come chiave di uni-

versalizzazione della civiltà. Insomma, indubbiamente la cittadinanza è di- rimente per la democrazia, che senza di essa rimane incompiuta, imperfetta. Ed è proprio per questo che, guardando alle logiche di inclusione/esclusione determinate proprio dalla cittadinanza, non si può non fare riferimento a un fenomeno che è stato storicamente onnipresente nel percorso del genere umano verso il raggiungimento dei diritti civili, politici e sociali: la questio- ne della cittadinanza femminile2. In questa sede ci si propone di farlo da una

prospettiva letteraria, quella della tradizione distopica, da cui, sia in positivo che in negativo, emerge una caratterizzazione importante della visione delle donne in società immaginate.

La distopia, in quanto drammatizzazione catastrofi ca delle tendenze già in atto nella società contemporanea, dovrebbe enfatizzare il problema della scarsa inclusione delle donne in quel contratto sociale che sta alla base della 1. S. Veca, Cittadinanza. Rifl essioni fi losofi che sull’idea di emancipazione, Feltrinelli, Milano 1990, pp. 22-26.

2. P.L. Di Viggiano, R. Bufano, Donne e società. Partecipazione Democratica e

democrazia. I generi utopico e distopico, invece, pur facendo della lungimi- ranza un proprio tratto distintivo, raramente si fanno portavoce delle istanze femminili, ed alle donne, anche nell’utopica società ideale o nel terribile futuro distopico, viene solitamente riservata una condizione di cittadinanza

incompleta.

L’utopia, nella sua intrinseca ipotesi di società perfetta, dovrebbe inclu- dere l’umanità intera nel progetto di estensione dei diritti e di sovversione dell’ordine sociale esistente; invece il suo progressismo si arresta spesso e volentieri di fronte all’ipotesi, anche solo teorica, dell’abolizione o di una riduzione del potere maschile3. Pure nelle «terre visionarie delle possibilità

perfette4», dove i disagi delle diverse epoche storiche vengono risolti almeno

attraverso proiezioni immaginarie, la disparità della condizione femminile, una prevaricazione sociale perpetuata attraverso i secoli, non trova risposta né soluzione, a parte poche eccezioni. La vita delle donne che popolano i mondi utopici si ripropone generalmente secondo modelli culturali assodati; diffi cilmente troveremo in queste società cittadine che godono di pari diritti e doveri o che si autodeterminano in base a libere scelte, a conferma della diffi coltà di elaborazione, anche meramente romanzesca, di un modello so- ciale egualitario.

A partire dall’utopia di Platone fi no ai romanzi di Wells, le donne vengo- no escluse, sfruttate, disprezzate, poste alternativamente a servizio dell’uo- mo o dello Stato, e sottoposte a legami familiari coercitivi o a regimi di comunione dalle sfumature poligamiche. A dispetto dei cambiamenti che l’utopia produce nei più svariati ambiti sociali, dalla politica alla religione, la donna rimane legata ad un solido stereotipo culturale che privilegia la sua funzione biologica, e di conseguenza viene raffi gurata come generatrice e allevatrice di fi gli, deputata ai compiti di cura e di gestione domestico- familiare.

Quando invece la denuncia di una realtà oppressiva e pericolosa, quella contemporanea, avviene attraverso le proiezioni distopiche, uomini e donne sembrano essere accomunati da una stessa, terribile, sorte. Lo specchio de- formante della distopia non prospetta nessuna soluzione ai mali del mondo, bensì ammonisce sui rischi insiti nel destino dell’uomo, che prepara più o meno coscientemente per sé e per il mondo un futuro catastrofi co5. Qui tutti

3. G. Pezzuoli, Prigioniera in Utopia, Edizioni il Formichiere, Trento 1978, p. 13. 4. E. Hoffman Baruch, A Natural and Necessary Monster: Women in Utopia, in «Alternative Futures», 2, 1, 1979, p. 29.

5. R. Bianchi, I Parametri della Controutopia, in Aa.Vv., Utopia e Fantascienza, Giappichelli, Torino 1975, pp. 159-161.

sono solitamente vittime della stessa barbarie, schiacciati da un sistema au- toritario autoperpetuantesi, e privati delle più elementari libertà. Ma anche in questo caso possiamo individuare delle differenze di genere signifi cative, riscontrabili sia nella caratterizzazione dei personaggi che nella descrizione della condizione femminile. Le principali distopie novecentesche, quelle di Zamjatin, Huxley e Orwell, non prevedono per le loro società totalitarie un cambiamento sostanziale del ruolo riservato alle donne, cittadine di se- cond’ordine anche in un mondo in nessun modo desiderabile.

Ma negli anni Trenta e Quaranta, quando l’Europa scricchiola sotto il peso dei totalitarismi, il genere distopico ispira anche la penna di alcune autrici, i cui romanzi non avranno altrettanta risonanza, ma presentano senz’altro una maggiore sensibilità nei confronti della secolare “questione femminile”. Tra queste la scrittrice inglese Katharine Burdekin, che negli anni Trenta dà alla luce diverse opere distopiche: Proud Man (1934), The

End of This Day’s Business (1935) e la più famosa Swastika Night (1937);

e la poetessa svedese Karyn Boye, che nel 1940 si cimenta nell’inquietante distopia Kallocaina. Questi romanzi aiutano ad avere una percezione mag- giormente accurata dell’atmosfera dell’epoca, delle ansie e dei timori di un periodo buio e complesso della storia contemporanea, visti anche da una prospettiva femminile.

In questa sede verranno analizzati due romanzi antitetici ma esemplifi - cativi della rappresentazione della cittadinanza di genere all’interno della tradizione distopica: 1984 di George Orwell e il già menzionato Swastika

Night di Katharine Burdekin.

George Orwell, scrittore dall’indiscussa lungimiranza politica espressa soprattutto in Animal Farm e 1984, viene spesso tacciato di misoginia dalla critica femminista. Nella sua opera emergono fi gure femminili marginali, sottomesse e votate al sacrifi cio, la cui condizione è secondaria e accessoria rispetto a quella dell’uomo, capace invece di combattere, lottare, opporsi al dominio. L’unico dissenso, l’unica contestazione ammessa per le donne avviene per motivi egoistici e superfi ciali, per una ricerca personale della felicità o per il soddisfacimento di un desiderio, mai per sete di giustizia o per l’affermazione di un pensiero politico, di un’idea6. I protagonisti dei

romanzi di Orwell sono solitamente fi gure maschili e le donne presenti sono personaggi secondari e di poco spessore. Elisabeth, di cui è innamorato John Flory in Burmese Days è bella ma stupida, e la Figlia del Reverendo, Do-

6. G.M. Bravo, Orwell. Le contraddizioni politiche di un impolitico, in M. Ceretta (a cura di), George Orwell. Antistalinismo e Critica del Totalitarismo, Atti del Convegno, Torino, 24-25 febbraio 2005, Leo Olschki Editore, Firenze, p. 81.

rothy, bigotta e irrazionale. Gordon Comstock, protagonista di Keep the Api-

distra Flying si dimostra sarcastico e maschilista nei confronti delle rivendi-

cazioni di genere della sua fi danzata Rosemary, e Hilda, la moglie di George Bowling in Coming Up for Air è descritta come spilorcia e insopportabile7.

Come i romanzi precedenti, la famosa distopia orwelliana presenta alcu- ne discriminazioni di genere facilmente percepibili. Nell’Oceania del 1984, tenuta sotto scacco dal totalitarismo, la condizione femminile non è poi così diversa da quella dell’Europa del 1948, anno di stesura del romanzo, ma ciò non sembra destare le preoccupazioni dell’autore. Tra le critiche al regime non spicca infatti nessuna considerazione di genere, nessuna disapprova- zione per un sistema che continua a riproporre e a riprodurre uno schema di ruoli sempre identico a se stesso. Winston Smith, per molti aspetti contro- fi gura dell’autore come gli altri protagonisti dei romanzi di Orwell, non fa mistero della sua misoginia:

non sapeva tollerare, in genere, quasi nessuna donna, e in particolare le giovani e pia- centi. Erano sempre le donne, particolarmente le più giovani, che fornivano le aderenti più bigotte del Partito, che si nutrivano di slogans, di frasi fatte, le spie dilettanti, le scopritrici dell’eterodossia8.

Nell’Oceania di Orwell nessuna cittadinanza intesa come pienezza di diritti civili e politici è riconosciuta né agli uomini né alle donne, mentre in tutti i modi si cerca di infondere negli individui un profondo senso di appartenenza alla comunità, o meglio al Partito. E coloro che più di tutti su- biscono le conseguenze di questo indottrinamento massivo sono proprio le donne, facili vittime di un sistema al quale quasi mai oppongono resistenza. Nel romanzo quasi tutte le fi gure femminili sono dipinte come fanatiche e incredibilmente ortodosse promotrici del Socing: incontriamo esaltate so- stenitrici della Lega Antisesso, segretarie, mogli, o prostitute prolet, secon- do uno stereotipo poco futurista e molto consolidato, che relega le donne ad un modello di cittadinanza incompleto, non consentendo loro di accedere a condizioni sociali egualitarie. La rappresentazione dei personaggi forni- sce un quadro abbastanza chiaro: l’unica fi gura femminile tutto sommato positiva è la madre di Winston, animata da spirito di sacrifi cio e da un amo- re genitoriale diffi cilmente riscontrabile ai tempi del Socing. Katherine, ex moglie del protagonista, di cui si narra che avesse «il cervello più vuoto, stupido e volgare [...] mai incontrato9», è l’esempio più tragico della cate-

7. C. Hitchens, Orwell’s Victory, The Penguin Press, London 2002, pp. 104-105. 8. G. Orwell, 1984, Mondadori Editore, Milano 1989, pp. 13-14.

chizzazione del regime, un gelido fantoccio senza più tracce di umanità, ad- destrato a ripetere senza sosta slogans e frasi propagandistiche dalla logica discutibile. Katherine ha soffocato sia la ragione che l’istinto per amore del Partito, unica fonte motivazionale della sua vita ripetitiva e minuziosamente programmata.

E poi c’è Julia. Giovane, bella, e tanto furba da mascherare la sua indi- sciplina con un apparente morboso attaccamento al regime. Winston la cre- de inizialmente una fanatica seguace del Partito e delle norme del Socing, ma si rivelerà un’abile simulatrice, che fi nge di essere ligia alle regole per guadagnare, in segreto, un po’ di libertà. Peccato però che Julia sia una «ri- belle solo dalla cintola in giù10», la sua moralità politica è inesistente, il suo

fervore rivoluzionario si limita ad un egoistico libertinaggio, praticato più per diletto personale che come atto sovversivo. È complice di Winston, ma a differenza dell’antieroe orwelliano, non è animata da alcun intento poli- tico, non ha nessun interesse a cospirare contro il sistema per rovesciarlo, non cerca di entrare a far parte della mitica organizzazione clandestina, la Fratellanza. Julia non condivide le illusioni rivoluzionarie del suo amante, vuole solo riuscire a imbrogliare il Partito per ritagliarsi un piccolo spazio di autonomia. La dimostrazione del suo scarso interesse politico, Orwell la dà in una scena decisiva del romanzo, quando Winston entra fi nalmente in possesso del tanto agognato libro segreto di Goldstein, La Teoria e la

Pratica del Collettivismo Oligarchico, e legge a Julia le sue rivelazioni, ma

lei, proprio sul più bello, si addormenta dando prova di un totale disinte- resse per le sorti di una possibile rivoluzione. Anche se dimostra un livello di consapevolezza indubbiamente superiore rispetto alle fi gure adoranti di fronte ai teleschermi col faccione del Grande Fratello, la sua emancipa- zione dal sistema rimane comunque incompleta; si può sostenere che Julia abbia recuperato l’istinto, ma non il raziocinio. La dote della razionalità, propria unicamente delle specie evolute, è riservata nel romanzo solo a due personaggi, due uomini, due intellettuali: Winston, il ribelle, e O’Brien, il più subdolo dei carnefi ci.

Sono signifi cativamente, uomini, protagonisti del romanzo di Kathari- ne Burdekin, Swastika Night, aspra denuncia distopica del regime nazista scritta con lo pseudonimo maschile di Murray Constantine e pubblicata da Victor Gollanz, editore progressista inglese che proprio in quegli anni dava alle stampe, non senza esitazione, le opere irriverenti11 di George Orwell.

10. G. Orwell, 1984…, cit., p. 165.

11. Tra cui Down and Out in Paris and London (1933), Burmese Days (1935), The Road

Nel 1937, anno di uscita del romanzo, la Germania nazista è una nazione in ripresa economica e Hitler un dittatore dal carisma magnetico che racco- glie un largo consenso, dando forma al suo delirio razzista ed espansioni- stico. Burdekin ha già colto l’essenza reazionaria e fi deistica di una follia xenofoba e misogina, che trascinerà il mondo intero verso una catastrofe di proporzioni mai viste prima, e così dipinge uno scenario dalle tinte foschis- sime.

Siamo nell’anno 720 dopo la morte del “Nostro Signore Hitler”, di cui si narra che sia esploso dalla testa di suo padre; l’impero Nazista ha conqui- stato l’Europa intera e l’Africa, e ha come unico rivale mondiale l’impero Giapponese, che governa invece su Asia e Americhe. Come spesso accade nei romanzi distopici, la società hitleriana non conserva nessuna traccia del passato, e il presente è un medioevo desolante in cui lo Stato Nazista ripro- pone un modello feudale: il potere appartiene alla casta dei Cavalieri Teu- tonici, che lo esercitano in modo violento e arbitrario sugli stranieri e sulle categorie più deboli, considerate intoccabili, cristiani e donne.

Come la donna è superiore al verme così l’uomo è superiore alla donna Come la donna è superiore al verme così il verme è superiore al cristiano12.

Ma le donne sono senza dubbio quelle che pagano il prezzo più alto di questa involuzione storica, poiché, private dei più elementari diritti civili, sono ridotte ad una terribile schiavitù: segregate in appositi quartieri, hanno la testa rasata e indossano uniformi che le abbruttiscono e le ridicolizzano. Il loro unico compito è quello di garantire la sopravvivenza della specie, perciò vengono sistematicamente violentate, e poi private dei loro fi gli ma- schi perché non contaminino la loro crescita. In questo mondo dove l’amore eterosessuale è inconcepibile, le donne vengono considerate alla stregua de- gli animali, senz’anima; si crede pertanto che non abbiano sentimenti e non possano provare sofferenza per la loro condizione.

Non più docili interpreti del sistema, quindi, come Lenina nel Brave New

World di Huxley, non frivole ribelli come Julia in 1984; per sottolineare la

pericolosità della situazione contemporanea Burdekin propone fi gure fem- minili il cui status sociale è così infi mo da non consentire alle donne nean- che di assurgere alla dignità di personaggi13. Per questo i protagonisti del

12. K. Burdekin, La Notte della Swastika, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 5.

13. C. Pagetti et alii, In the Year of Our Lord Hitler 720: Katerine Burdekin’s “Swastika

romanzo non possono che essere uomini, gli unici appartenenti di diritto ad una società da cui le donne sono state totalmente escluse.

Una triade insolita ci guida attraverso questa landa desolata, composta dal guerriero Hermann, omosessuale ottuso e profondamente ortodosso, dall’inglese Alfred, curioso e ribelle, e dal Cavaliere von Hess, malinconi- co e solitario membro sovversivo della casta governante. Il Cavaliere è in possesso di un antico libro tramandato nella sua famiglia di generazione in generazione, che rivela verità storiche impensabili e smaschera le menzogne costruite nei secoli dal regime. Un libro nel libro, come quello di Goldstein in 1984, letto anch’esso in un tempo in cui la storia è fi nita o è solo uffi ciale, anch’esso affi dato da un uomo di potere ad un potenziale ribelle14. In man-

canza di eredi, infatti, von Hess decide di affi dare il prezioso manoscritto ad Alfred, considerandolo come un suo discendente spirituale. Sebbene dotato di intelligenza e perspicacia nettamente superiori alla media, tanto da intuire quasi tutte le assurdità della terribile società nazista, Alfred è comunque fi glio di questo medioevo futurista, inizialmente impassibile di fronte alla più incivile delle atrocità, quella che concerne la condizione femminile e che viene denominata “Riduzione delle Donne”.

In questo tempo distopico le bambine vengono educate fi n da piccole ad essere inferiori e insignifi canti, a subire ingiustizie e prevaricazioni, e a fare sempre ciò che gli uomini impongono loro. Ma la “Riduzione” alla loro fun- zione biologica si esprime soprattutto, dopo i sedici anni, nell’istituziona- lizzazione della violenza sessuale, una pratica di routine che ricorda inces- santemente alle donne la loro scarsa importanza, la mancanza di autonomia, la carenza di personalità, e le obbliga ad una disponibilità incondizionata che implica la rinuncia alla facoltà di scegliere e al potere di opporsi15. Dal

libro di von Hess scopriamo che la rovina delle donne fu deliberatamente orchestrata dagli uomini tedeschi, che consideravano un insulto alla Virilità la vita familiare, il controllo che le madri avevano sui fi gli e, principalmente, il potere sessuale che le donne esercitavano sugli uomini, congiuntamente al rischio di essere respinti senza possibilità di appello. Il passaggio da una condizione di cittadinanza incompleta ad una di sudditanza assoluta, in cui le donne devono sottostare a doveri e comandi, avviene soprattutto grazie a Rupprecht von Wied, che seicento anni addietro fu il principale sostenitore 14. G. MacKey, Metapropaganda: Self-Reading Dystopian Fiction: Burdekin’s “Swastika

Night” and Orwell’s “Nineteen Eighty-Four”, in «Science Fiction Studies», vol. 21, n. 3, 11,

1994, pp. 302-304

15. D. Patai, Orwell’s Despair, Burdekin’s Hope: Gender and Power in Distopia, in «Women’s Studies Int. Forum», vol. 7, n. 2, Autumn, 1996, p. 89.

della campagna antifemminile, e nelle cui idee retrograde risuona la criti- ca di Burdekine a Otto Weininger16. La responsabilità delle donne rispetto

alle dinamiche descritte è quella di essersi incondizionatamente piegate, di essersi sacrifi cate al volere degli uomini fi no al completo annullamento di loro stesse. «La donna non è nulla, se non l’incarnazione di un desiderio di accontentare l’uomo17» scrive Burdekin, ma questa concezione dell’identità

femminile, questa condiscendenza autolesionista, non ci viene presentata come naturale, bensì come prodotto socio-culturale, in questo caso un pro- dotto dell’ideologia nazista e patriarcale.

Durante le sue rifl essioni sul regime, dettate dalle nuove scoperte stori- che rivelate dal libro, Alfred intravede una speranza per il futuro della sua fi glia neonata, cerca un modo per salvarla dalla terribile sorte che il mondo le riserva in quanto donna, in quanto priva di qualunque diritto di cittadinan- za. Egli spera dunque di trasformarla in una “donna vera” proprio perché intuisce che «non è nel grembo che avviene il danno18», anticipando così

Simone de Beauvoir che scriverà più di dieci anni dopo «donna non si nasce, lo si diventa19».

Ed è proprio questa la denuncia più aspra che Burdekin rivolge al Reich: la socializzazione programmata delle donne come esseri inferiori, che ri- schia di determinare mondi assolutamente distopici come quello descritto in Swastika Night. La lucidità del romanzo sta nell’individuare il legame tra totalitarismo e maschilismo, tra il culto della virilità e il conseguente immi- serimento della componente femminile20. Da un lato gli uomini, con la loro

personalità, il loro potere, il loro ego tronfi o; e dall’altra le donne, ridotte a meri corpi, senz’anima, senza la dignità di esseri umani. Un mondo talmente asimmetrico quale quello su cui impera la croce uncinata diventa inevitabil- mente distopico: così fu per quello storicamente esistito del Nazismo e così è per quello descritto nel romanzo di Katharine Burdekin.

Con il termine “culto della mascolinità” l’autrice identifi ca il dominio, il potere, e la violenza, che saranno anche i presupposti su cui Orwell baserà la strategia politica e ideologica del Partito ad Oceania. Gli eroi fragili che Burdekin ci presenta sono il risultato di una società composta da soli uomi- ni per secoli, basata anche in tempo di pace su valori d’ispirazione milita- 16. K. Holden, Formation of Discipline and Manliness: Culture, politics and 1930s

women’s writing, in «Journal of Gender Studies», vol. 8, n. 2, 1999, p. 150.

17. K. Burdekin, La Notte della Swastika…, cit., p. 93. 18. Ivi, p. 181.

19. S. De Beauvoir, Il Secondo Sesso, Il Saggiatore, Milano 1961, p. 15.

re, quali l’aggressività, l’obbedienza cieca e la prestanza fi sica. E se queste