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Asserzione e suo effetto convenzionale

L’asserzione come azione linguistica

4.5 Asserzione e suo effetto convenzionale

Nelle precedenti sezioni, abbiamo messo le basi per la nostra teoria “ampia” dell’asserzione. Abbiamo in particolare riconosciuto specifici ruoli ad alcuni aspetti caratterizzanti l’asserzione di cui abbiamo parlato nei precedenti capitoli. Ci siamo soffermati in particolare su quali siano le norme costitutive che riguar-dano la procedura collegata all’asserzione, facendo riferimento alle credenziali richieste a un parlante per farla e all’appropriatezza delle condizioni contestuali, e su quali siano le massime che guidano la sua regolare e cooperativa esecuzione, ri-chiamandoci alla sincerità del parlante (ovvero al fatto di credere quanto asserito) e alla sua coerenza nei comportamenti successivi al compimento dell’asserzione. Non abbiamo tuttavia ancora fatto riferimento agli effetti nella cui produzione l’asserzione in quanto atto illocutorio consiste. La centralità del riferimento agli effetti è qualcosa che la nostra teoria condivide con quelle considerate nel terzo capitolo. Anch’esse infatti sostengono che l’asserzione è caratterizzata dalla pro-duzione di specifici effetti. Nel nostro caso però, come osservato nella sezione 4.1.3, ciò dipende dal fatto che ogni procedura eseguendo la quale si compie un atto illocutorio è finalizzata a porre in essere un proprio effetto di carattere

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convenzionale, il quale è tale in quanto si realizza in virtù della recezione dell’atto illocutorio da parte degli interlocutori. Seguendo quanto proposto da Sbisà, ab-biamo sostenuto che tale effetto è descrivibile nei termini di una attribuzione o cancellazione di stati modali, quali “potere” e “dovere”. È bene sottolineare che queste attribuzioni o cancellazioni possono essere bloccate, o anche invalidate, quando nell’esecuzione dell’atto si riscontrano infelicità consistenti nel mancato soddisfacimento di una delle sue norme costitutive. D’altra parte, come già sap-piamo, un interlocutore tende ad assumere fino a prova contraria che tali norme siano state rispettate. Quando ciò avviene, l’effetto che viene posto in essere può essere caratterizzato come consistente:

– nell’assegnazione al parlante di un certo dovere, cioè dell’impegno a garantire per la verità di quanto asserito; tale impegno si concretizza, oltre che nel non contraddire l’asserzione fatta e nell’essere impegnati a sostenere le sue conse-guenze logiche, nel fornire, se richiesto, prove o ragioni a supporto di essa; – nel conferimento ai destinatari di un potere consistente nell’autorizzazione a

fare affidamento sull’asserzione fatta del parlante, riutilizzando il suo conte-nuto a propria volta oppure per fare ulteriori asserzioni o a fini deliberativi. Quello che avviene quindi è un passaggio di sapere inteso come autorizzazione a fare certe asserzioni o a usare il contenuto dell’asserzione ricevuta a fini deliberati-vi. In tal senso, come osservato da Sbisà (2019), l’effetto illocutorio dell’asserzio-ne può essere descritto come la formulaziodell’asserzio-ne e trasmissiodell’asserzio-ne di sapere.

Il “sapere” che si trasmette per mezzo di un’asserzione non deve essere equi-parato a un far credere, ma è fondamentalmente l’attribuzione di un poter-fare al proprio uditorio che ovviamente presuppone come sua fonte un corrispondente poter-fare da parte di chi ha fatto l’asserzione. Si tratta quindi di due poter-fare distinti, sebbene l’attribuzione del secondo dipenda dal riconoscimento del pri-mo. D’altra parte, come abbiamo già visto nella sezione precedente, il fatto che attribuiamo un certo poter-fare non significa che tale poter-fare corrisponda ne-cessariamente a un sapere effettivo, cioè al possesso di una autentica conoscenza. Per quanto di norma ci aspettiamo che, quando troviamo ragionevole attribui-re una certa competenza a qualcuno, quel qualcuno il più delle volte possieda effettivamente il sapere corrispondente, non possiamo dare per scontato che le due cose coincidano sempre. Il fatto è che, data la nostra tendenza all’accomo-damento, il più delle volte accettiamo implicitamente che sia così. Il problema sorge quando queste nostre aspettative vengono disattese e scopriamo che colui che aveva fatto un’asserzione non aveva le credenziali per farla. Che ciò accada è dovuto al fatto che è praticamente impossibile controllare sempre se lo stato

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4. L’ASSERZIONE COME AZIONE LINGUISTICA

effettivo di conoscenza di chi fa un’asserzione corrisponda allo stato intersogget-tivamente riconosciuto. Di fatto, il più delle volte l’uditorio non ha fonti indi-pendenti da quanto dice il parlante stesso per valutare la sua competenza. Ma solo uno scettico radicale potrebbe dubitare in ogni occasione delle credenziali di un parlante per fare un’asserzione.

Rimane la questione di come debba intendersi il “sapere effettivo” di cui ab-biamo detto sopra, essendoci soffermati principalmente su quello intersoggettiva-mente riconosciuto. Quando parliamo di un “sapere effettivo”, ci stiamo riferen-do allo stato di fatto di un certo individuo che lo rende capace di fare asserzioni vere e prendere decisioni corrette e efficaci. Si tratta cioè di un individuo che è effettivamente in possesso di dati, evidenze e criteri che gli permettono di fare asserzioni pienamente attendibili. È bene notare che solo quando colui che fa un’asserzione possiede tale sapere trasmette effettivamente a sua volta sapere, e con ciò autentica capacità di fare asserzioni vere e prendere decisioni corretta-mente basate. Se l’autorizzazione ad asserire intersoggettivacorretta-mente riconosciuta al parlante può corrispondere anche solo a presunta conoscenza, questa autorizza-zione non determinerà l’effettiva capacità (intesa come possesso di dati, evidenze, criteri) da parte di chi la riceve di fare asserzioni vere e prendere decisioni cor-rettamente basate. Ed è proprio per questo motivo che a chi fa un’asserzione è attribuito l’obbligo di garantire per la verità di quanto asserito, in particolare di fornire, se richiesto, prove o ragioni, dimostrando così la propria competenza e le basi della propria asserzione.

Quando qualcuno fa un’asserzione, possiamo trovarci quindi di fronte alle seguenti quattro possibilità:

(i) egli possiede un sapere effettivo e il suo destinatario glielo riconosce; (ii) egli possiede un sapere effettivo e il suo destinatario non glielo riconosce; (iii) il destinatario gli riconosce un certo sapere ma egli non possiede un sapere

effettivo corrispondente;

(iv) il destinatario non gli riconosce il sapere pertinente ed egli effettivamente non in è possesso del sapere effettivo corrispondente.

Se vivessimo in un mondo ideale, le cose dovrebbero andare come descritto in (i) e (iv). Si tratta di quelle situazioni in cui colui al quale è rivolta l’asserzione rico-nosce se il parlante è (o non è) in possesso di un sapere effettivo che lo autorizza a fare quell’asserzione. Dato che il nostro non è un mondo ideale, ci troviamo spesso di fronte a situazioni che sono riconducibili ai casi (ii) e (iii). (ii) rimanda a quelle

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situazioni in cui al parlante – per disattenzione, indifferenza o pregiudizio – non viene riconosciuto il potere di fare un’asserzione relativamente a un tema o argo-mento per cui egli è competente. Le situazioni di questo tipo che scaturiscono da indifferenza e pregiudizi sono state ampiamente studiate e rientrano all’interno della casistica della “ingiustizia epistemica” (Fricker 2009). Nei casi di ingiustizia epistemica al parlante, in conseguenza della sua identità sociale e nell’ambito di questa il suo genere, razza, religione o orientamento sessuale, viene attribuita meno credibilità di quanto gli spetterebbe. Egli non viene quindi riconosciuto come soggetto in possesso delle credenziali per asserire un certo contenuto, al di là di quale sia il suo sapere effettivo. Di conseguenza, le sue asserzioni non vengo-no ricovengo-nosciute come tali, ma tutt’al più come espressioni di opinione o in ogni caso come atti linguistici più deboli dell’asserzione. (iii) riguarda situazioni in cui al parlante viene riconosciuta una competenza appropriata per fare una certa asserzione, ma di fatto egli non possiede un sapere effettivo. Possiamo distingue-re qui tra due casi diversi: nel primo il parlante cdistingue-redeva effettivamente di essedistingue-re in una posizione epistemica appropriata ma non lo era, nel secondo il parlante, sfruttando la tendenza by default ad accomodare le condizioni iniziali, fa un’asser-zione pur in assenza di credenziali. Per entrambi i casi c’è per fortuna un antido-to: anche se un atto non è riconosciuto nullo immediatamente, è sempre possibile farlo successivamente annullandone di conseguenza l’effetto convenzionale, nella misura in cui si viene a scoprire che chi l’aveva compiuto non era in posizione di poterlo compiere. Come abbiamo detto, il sapere riconosciuto socialmente è sempre annullabile, e dal suo annullamento consegue quello del sapere trasmesso. Questa è una magra consolazione, però, poiché, qualora non riesca prontamente a annullare l’autorizzazione a riutilizzare il contenuto di un’asserzione che risulti essere stata fatta senza credenziali, esso si diffonderà a macchia d’olio, così come avviene nei casi di viralizzazione dei contenuti informativi in rete.