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Il potenziale esplicativo della teoria “ampia” alla prova

L’asserzione come azione linguistica

4.8 Il potenziale esplicativo della teoria “ampia” alla prova

Passiamo ora a ridiscutere alcuni casi di cui abbiamo già parlato nei capitoli pre-cedenti e che sono dei veri e propri banchi di prova per qualunque analisi dell’as-serzione. Il nostro obiettivo è quello di mostrare come la nostra teoria “ampia” dell’asserzione riesca a rendere conto complessivamente di questi casi come, se non meglio, delle analisi considerate precedentemente. Faremo riferimento in particolare ai casi degli enunciati mooreani, delle asserzioni distaccate e infine delle asserzioni relative ai risultati di una lotteria.

4.8.1 Enunciati mooreani

Nei capitoli precedenti ci siamo occupati di due casi principali di enunciati moo-reani: il primo riguarda la relazione tra asserzione e credenza “p, ma non credo che

p”, mentre il secondo fa riferimento allo stato di conoscenza del parlante “p, ma

non so che p”. Nel nostro quadro teorico, i due casi vanno trattati separatamente: il secondo riguarda un aspetto che è determinante per l’ottenimento dell’effetto caratteristico dell’asserzione, mentre il primo concerne la sua appropriatezza in relazione al contesto conversazionale. Il fatto che un parlante proferisca un enun-ciato come “Piove, ma non credo che piova” non mette in discussione infatti che egli dicendo “Piove” abbia fatto un’asserzione. D’altra parte, tale enunciato rima-ne assurdo perché il secondo congiunto dichiara che una massima che si applica al primo (quella che riguarda la sincerità del parlante) è violata. Comunque, in teoria l’uditorio, a meno di indicazioni contrarie, è autorizzato a riasserire quanto è stato asserito dicendo “Piove, ma non credo che piova”. Ciò che rimane poco chiaro è invece il contributo alla conversazione che si intende offrire proferendo un enunciato del genere. Chi lo proferisce segnala infatti un’anomalia: il parlante

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rende noto all’uditorio che, pur potendo garantire per la verità di quanto asserito, non possiede lo stato psicologico che normalmente si accompagna a un’asserzio-ne, ovvero la credenza rispetto a quanto asserito. Un caso come questo può essere fatto rientrare fra quelli in cui un parlante, pur essendo in possesso di prove o evidenze a supporto della sua asserzione, non crede a quanto asserito per qualche ragione di tipo non epistemico. In risposta a un enunciato di questo tipo, un de-stinatario potrebbe chiedere al parlante “Perché non credi che piova?”. Di fatto, questa domanda mira ad avere un chiarimento relativamente alla seconda parte dell’enunciato mooreano da lui proferito, senza mettere in discussione l’asser-zione fatta. Con tale domanda si chiede infatti al parlante di spiegare per quale motivo egli abbia inteso specificare che non crede al contenuto asserito.

Qualcosa di diverso avviene quando viene proferito un enunciato come “Piove ma non so che piove”. Secondo la nostra teoria, nel proferire la secon-da parte dell’enunciato il parlante segnala che egli non è autorizzato ad asserire il contenuto della prima: egli non solo commette una violazione della norma dell’asserzione, ma non possiede nemmeno i requisiti per eseguire la procedura dell’asserzione (non rispettando la norma 2). Se il parlante infatti non sa se piove o meno (situazione compatibile con l’uso di “non so che piove” nell’enunciato mooreano di Williamson; si veda sopra, sezione 2.2, nota 3), non potrà essere in alcun modo in grado di garantire per la verità di “Piove”. Come abbiamo visto nella sezione precedente, ci sono molti atti linguistici assertivi a nostra disposi-zione che ci permettono di trasmettere contenuti informativi nel caso riteniamo di non essere in una posizione epistemica tale da poterli trasmettere per mezzo di un’asserzione. Al posto di proferire un enunciato dichiarativo con il verbo all’in-dicativo un parlante potrebbe utilizzare un enunciato come “Penso che piova” o anche “Potrebbe piovere”. È chiaro che di fronte a un enunciato come “Piove ma non so che piove” non ci sentiremmo autorizzati a riasserire il contenuto del suo primo congiunto. A differenza del caso precedente, in cui si manifesta un difetto generico relativo all’appropriatezza dell’enunciato nel contesto conversazionale, qui siamo di fronte a uno specifico caso di infelicità che comporta la mancata produzione dell’effetto caratteristico dell’asserzione.

4.8.2 Asserzioni distaccate

Le asserzioni distaccate, come già sappiamo, ricordano in parte il caso degli enun-ciati mooreani della forma “p ma non credo che p” (si veda sopra, sezione 2.2.3). La loro esecuzione rimanda a situazioni in cui un parlante, pur riconoscendo che ci sono abbondanti evidenze a supporto del contenuto asserito, per ragioni non epistemiche non lo crede vero. In base alla nostra teoria dell’asserzione, questa sua

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condizione non mette in discussione l’atto illocutorio compiuto ma la sua sinceri-tà. A differenza del caso precedente, quello degli enunciati mooreani, nelle asser-zioni disinteressate non viene esplicitato il fatto che chi fa l’asserzione non crede a quanto asserito: ciò può chiaramente fuorviare il proprio uditorio nel caso in cui non lo si sappia. Come già sappiamo, un’asserzione si accompagna infatti con l’aspettativa che chi l’ha fatta creda a quanto asserito. Il caso a cui fa riferimento Lackey, ovvero quello di una maestra elementare appartenente a una confessione cristiana creazionista che fa un’affermazione relativa alla teoria dell’evoluzione durante una lezione pur non credendo a essa, è tuttavia più complesso. Il contesto non è quello di una conversazione ordinaria ma di una lezione scolastica. D’altra parte, è proprio questo contesto “formale” a essere decisivo per rendere conto di quello che la maestra sta facendo. Lo scopo di una lezione scolastica è infatti quello di comunicare i contenuti informativi relativi a una certa materia che sono meglio supportati dalle evidenze disponibili, o comunque di utilizzare contenuti che, seppur non veritieri, possono aiutare gli studenti a comprendere e accettare verità più complesse (si veda anche sopra, sezione 2.3, nota 26): ciò significa che in quella circostanza e per quello specifico scopo non è rilevante se la maestra creda o non creda a quanto asserito, quello che conta è che le asserzioni che lei sta facendo siano ben fondate epistemicamente, o almeno che possano portare a far apprendere ai suoi allievi contenuti che lo siano. Rimane quindi la necessità di ri-spettare le condizioni iniziali che riguardano la procedura dell’asserzione (ovvero le norme 2 e 3; si veda sopra, sezione 4.2), mentre la massima relativa alla since-rità di chi la fa è sospesa alla luce degli scopi dell’interazione tra la maestra e i suoi allievi. Se la maestra fosse coinvolta invece in un dibattito con qualche suo collega circa la teoria dell’evoluzione, allora la sua sincerità o insincerità sarebbero rile-vanti ai fini della loro conversazione. Se ella dicesse “L’homo sapiens si è evoluto a partire dall’homo erectus”, il suo collega si aspetterebbe che creda a quanto appena asserito e ciò lo porterebbe a fare certe mosse piuttosto che altre all’interno della loro conversazione. Nel caso scoprisse che la nostra maestra non crede alla teoria dell’evoluzione, ciò potrebbe generare in lui un certo risentimento nei suoi con-fronti. Il collega potrebbe sentire in particolare la necessità di capire il motivo per cui la nostra maestra non è stata pienamente sincera nelle sue asserzioni. Di fatto, per come ella si è comportata, non si è dimostrata in alcun modo cooperativa.

4.8.3 Asserzioni riguardanti i risultati di una lotteria

Rimane l’ultimo caso, al quale abbiamo fatto riferimento nel secondo capitolo (si vedano in particolare le sezioni 2.1.2 e 2.2). Si tratta della situazione immagi-naria in cui un vostro amico asserisce che il vostro biglietto della lotteria non ha

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vinto quando l’estrazione è già stata fatta ma non è stato ancora reso noto quale sia il biglietto vincente. Per poter considerare il proferimento dell’enunciato “Il tuo biglietto non ha vinto” come l’esecuzione di un’asserzione in quella data si-tuazione bisogna, secondo il quadro teorico da noi proposto, presupporre chi lo fa abbia delle informazioni circa il risultato dell’estrazione di cui noi non siamo a conoscenza. Se tuttavia riteniamo che egli non possa essere in possesso di queste informazioni, possiamo facilmente ribattergli dicendo “E che ne sai tu”. Non si tratta di un’espressione di sfida come “Come lo sai?”, ma è un modo di mettere in chiaro che lui non può essere in posizione di poter affermare ciò. Siccome la base probabilistica su cui si basa quanto sostenuto dal parlante non gli consente di garantire che quello che dice sia vero, si tende a considerare il suo enunciato come un atto linguistico più debole dell’asserzione. Di fatto, un proferimento di “Il tuo biglietto non ha vinto” quando non è stato ancora reso noto il biglietto vincente lo potreste considerare alla stregua di una ipotesi, di un’opinione op-pure di una sorta di scommessa: quello che è certo è che, nonostante l’utilizzo di una forma linguistica tipicamente adatta all’esecuzione di un’asserzione, alla luce delle informazioni a vostra disposizione non sareste propensi ad attribuire ad essa forza assertiva.

La variante di questo caso proposta da Lackey richiede un ragionamento dif-ferente (si veda sopra, sezione 2.2.3). Si tratta della situazione in cui un amico proferisce l’enunciato “Quel biglietto non vince” nel tentativo di far desistere una donna incinta ad acquistare un biglietto della lotteria al posto di una confezione di vitamine prenatali con gli ultimi soldi a lei rimasti. È chiaro che se ci sono an-cora biglietti in vendita, ciò significa che, a differenza dalla situazione immaginata da Williamson, in questo esempio l’estrazione del biglietto deve ancora avvenire. Lackey sostiene che nel caso da lei descritto è appropriato ritenere che nel proferi-re quell’enunciato sia stata fatta un’asserzione perché lo scopo ultimo del parlante è chiaramente quello di convincere la donna a non acquistare il biglietto. In base alla nostra teoria dell’asserzione, è possibile mostrare come questa spiegazione sia sbagliata. Possiamo preliminarmente notare che convincere la donna a non acquistare il biglietto è uno scopo perlocutorio che non necessariamente viene ottenuto mediante un atto illocutorio di asserzione. Come nel caso precedente, per riconoscere a un enunciato come “Quel biglietto non vince” la forza di una asserzione, la donna dovrebbe presupporre che chi lo proferisce sappia qualcosa di quel biglietto in particolare, di cui evidentemente lei non è a conoscenza. Ma questa non è sicuramente la prima cosa a cui uno pensa quando qualcuno gli dice così. Il problema qui è che proferire un enunciato come “Quel biglietto non vince” in isolamento non sembra essere molto utile se lo scopo è quello di dissua-dere la donna dal comprare il biglietto. Nemmeno se proviamo a sostituirlo con un enunciato analogo ma con il verbo all’indicativo futuro, “Quel biglietto non

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vincerà”, la situazione migliora. In questo caso l’utilizzo del tempo futuro è un evidente indicatore di forza illocutoria che segnala che chi proferisce tale enun-ciato sta facendo una previsione, e non un’asserzione. E visto che si sta parlando di un evento futuro, ovvero che il biglietto che la donna intende acquistare non sarà quello vincente, una previsione sembra poter essere un tipo di atto illocutorio appropriato alla situazione descritta. Per quanto fare una previsione non sia la stessa cosa di fare un’asserzione, anche per la sua buona riuscita è necessario che il parlante possieda una competenza particolare, comprendente in questo caso criteri per trarre inferenze da dati sul passato e il presente a conclusioni sul futuro. Nel nostro esempio il parlante non sembra essere in alcun modo in possesso di specifici dati o evidenze per supportare la sua previsione perché l’unica cosa che egli sa è che c’è una bassa probabilità che il biglietto su cui la donna ha messo gli occhi venga estratto e quindi vinca. Si tratta cioè di una base epistemica piutto-sto limitata. Una soluzione alternativa e più praticabile è quella di ritenere che l’enunciato dichiarativo vada integrato in qualche modo. Si potrebbe pensare ad esempio che chi si rivolge alla donna le dica “Non lo comprare, tanto quel bigliet-to non vince”. L’atbigliet-to illocubigliet-torio che si compie nel proferire “Tanbigliet-to quel biglietbigliet-to non vince” non è un’asserzione (né ovviamente una previsione) ma un avverti-mento. Proferendolo si sta avvertendo la donna del rischio di spender soldi per niente. Il fatto che ci sia una bassa probabilità che quello (come qualunque altro biglietto) sia il biglietto vincente della lotteria, come già detto, non è ovviamente una buona base epistemica per sollevare una pretesa di verità, ma è sicuramente un buon fondamento per dare un avvertimento prudenziale. Di fatto, se la don-na acquistasse il biglietto e poi, come molto probabile, non vincesse, il parlante potrebbe sempre dirle “Ti avevo avvertito”. Quindi, affinché si realizzi lo scopo perlocutorio del parlante, ovvero quello di dissuadere la donna dall’acquistare il biglietto della lotteria, la migliore opzione è quello di avvertirla del rischio che ella corre nell’acquistarlo, più che asserire o prevedere che quel biglietto non vincerà.