• Non ci sono risultati.

L’asserzione come azione linguistica

4.6 La vigilanza epistemica

Il fatto che il poter-fare attribuito a chi fa un’asserzione non corrisponde sem-pre a un suo effettivo stato di conoscenza pone un problema non da poco. Dato che, come già sappiamo, la nostra tendenza è quella di riconoscere forza asserti-va a un enunciato tipicamente adatto per fare asserzioni a meno che non siano riscontrate infelicità, c’è sempre il rischio di ricadere nella situazione descritta in (iii). Se tuttavia la gente approfittasse di questa tendenza, facendo asserzioni anche quando non ne ha diritto, la funzione caratteristica dell’asserzione, ov-vero quella di produrre e trasmettere conoscenze, potrebbe venire meno e con essa, quella che forse è la sua stessa ragion d’essere. In una teoria dell’asserzione

125

4. L’ASSERZIONE COME AZIONE LINGUISTICA

come la nostra è necessario quindi spiegare come gli esseri umani siano capaci di monitorare all’occorrenza il rispetto delle norme che riguardano la procedura dell’asserzione, in particolare la norma 2 (si veda sopra, sezione 4.2). A questo punto può essere utile richiamarsi all’ipotesi proposta da Dan Sperber e i suoi colleghi (2010) nell’ambito di studi della pragmatica cognitiva, secondo cui la mente umana è dotata di una serie di meccanismi o filtri cognitivi dediti a quella che essi chiamano “vigilanza epistemica”. Si tratta di meccanismi che sono sempre al lavoro, anche se silenziosamente: la loro funzione è quella di produrre giudizi intuitivi circa l’affidabilità dei nostri interlocutori in quanto fonti informative e la credibilità dei contenuti informativi da loro trasmessi. È bene sottolineare che, se tali meccanismi non fossero sempre al lavoro, non avremmo alcun modo per evitare imbrogli e inganni da parte dei nostri simili. Secondo Sperber e i suoi colleghi (2010: 359-361), è proprio per sfruttare al meglio le potenzialità cooperative offerte dal linguaggio in quanto strumento di comunicazione, e in particolare dell’asserzione in quanto mezzo privilegiato di trasmissione della conoscenza, che la specie umana ha acquisito per selezione naturale questi specifici adattamenti cognitivi funzionali a evitare imbrogli e in-ganni. Come da loro sottolineato, la vigilanza (a differenza della sfiducia) non si oppone alla fiducia, ma alla fiducia “cieca” (Sperber et al. 2010: 363). La gente dà fiducia agli altri, e quindi spesso risolve bene il problema del rischio insito nella comunicazione, proprio perché in qualche misura è sempre vigile nei con-fronti degli altri. Come già segnalato poco fa, l’attività di vigilanza epistemica può essere diretta alla fonte informativa oppure al contenuto che essa comuni-ca. Nel prosieguo di questa sezione, presenteremo in maniera più dettagliata il funzionamento dei meccanismi dediti alla vigilanza epistemica e faremo vedere come essi ben si adattano al controllo del rispetto delle norme che riguardano la procedura dell’asserzione.

Iniziamo parlando dell’attività di vigilanza epistemica rivolta alla fonte. Per Sperber e i suoi colleghi (2010: 369-371), i nostri giudizi circa l’affidabilità dei nostri interlocutori in quanto fonti informative sono spesso determinanti per l’ac-cettazione delle loro asserzioni. Tali giudizi riguardano la loro competenza, ovve-ro la loovve-ro capacità di povve-rodurre conoscenze relativamente a specifici contenuti, e la loro benevolenza, intesa come intenzione di voler condividere tali conoscenze. È evidente che si può giudicare un interlocutore competente su un certo tema o argomento anche se non lo consideriamo benintenzionato nei nostri confronti o all’opposto lo consideriamo male intenzionato. Inoltre, uno stesso individuo può essere considerato competente su un certo argomento, ma non su un altro, o be-nintenzionato verso certi interlocutori in certe circostanze, ma non verso altri in altre. Ciò significa che competenza e benevolenza sono due variabili indipendenti che determinano il giudizio complessivo sull’affidabilità di un individuo in

quan-126

to fonte informativa: l’affidabilità così intesa può variare quindi in base all’argo-mento, al tipo di uditorio e alle circostanze in cui comunichiamo. È interessante notare che questa distinzione tra competenza e benevolenza richiama due aspetti salienti della procedura dell’asserzione come da noi descritta, uno costitutivo e l’altro no. La competenza rimanda alla norma 2 (si veda sopra, sezione 4.2), che ha per noi carattere costitutivo: un’asserzione privata del presupposto della competenza può contare infatti tutt’al più come un’espressione di opinione. La benevolenza riguarda invece l’aspetto non-costitutivo: la benevolenza è necessaria affinché vi sia cooperatività, e nello specifico sincerità, da parte di chi fa un’as-serzione. Un parlante può ben (essere riconosciuto) avere le credenziali per fare un’asserzione (cioè la competenza), ma potrebbe pur sempre voler imbrogliare il proprio interlocutore (mancando cioè di benevolenza). Si può ritenere quindi che i meccanismi dediti alla vigilanza epistemica svolgano un ruolo determinante nel controllo, seppur silenzioso, degli indizi relativamente al rispetto di una delle norme costitutive (ovvero la norma 2), necessario per l’ottenimento dell’effetto caratteristico dell’asserzione, e di una delle massime, il cui rispetto è invece fina-lizzato alla sua esecuzione ottimale.

È chiaro che un monitoraggio consapevole e continuo richiederebbe uno sfor-zo cognitivo esagerato: è per questo motivo che l’attività di monitoraggio si svolge in maniera silenziosa e inconsapevole, producendo giudizi intuitivi qualora ce ne sia il bisogno. Questo è il motivo per cui non sempre siamo pienamente consape-voli delle ragioni per cui siamo inclini ad accettare o anche rifiutare le asserzioni altrui. Vogliamo far notare che ciò ha, da un lato, un chiaro vantaggio in termini di gestione delle nostre risorse cognitive ma, dall’altro, comporta dei rischi non indifferenti. Questi rischi ci rimandano al caso (ii) considerato nella sezione pre-cedente, ovvero il caso in cui a un parlante non viene riconosciuto il potere di fare un’asserzione relativamente a un tema o argomento su cui però egli è competente. Pensiamo in particolare ai casi di ingiustizia epistemica. Si può ipotizzare che almeno alcuni di questi casi dipendano dal fatto che i giudizi prodotti dai mec-canismi dediti alla vigilanza epistemica rivolta alla fonte sono facilmente influen-zabili (non essendo pienamente sotto il nostro controllo cosciente) da pregiudizi riguardanti, ad esempio, l’appartenenza di individui a specifiche categorie sociali. Ciò può determinare sistematiche, aprioristiche valutazioni negative circa l’affi-dabilità di tali individui. Detto questo non vi è dubbio che di norma ciascuno di noi giudica (seppur inconsapevolmente) l’affidabilità dei propri interlocutori sulla base delle proprie esperienze passate con loro, della loro reputazione14 o di

14 La reputazione può essere intesa come l’opinione che ognuno di noi ha, o può avere, di un certo individuo sulla base delle sue azioni passate (esperite in prima persona, o di cui si ha infor-mazione da terzi), e che crea quindi aspettative sul suo comportamento futuro (per un approfondi-mento si veda Origgi 2016).

127

4. L’ASSERZIONE COME AZIONE LINGUISTICA

specifici indicatori, che possono essere linguistici, paralinguistici o non verbali. Se i meccanismi dedicati alla vigilanza epistemica non trovano niente di anomalo, e quindi non producono specifici “allarmi” nella forma di impressioni negative che possono riguardare la competenza del parlante oppure la sua benevolenza, allora la tendenza sarà quella di considerare la sua asserzione come ben riuscita e appropriata, con tutti gli effetti che ciò comporta.

Oltre ai meccanismi di vigilanza epistemica dediti al controllo della fonte informativa, come già sottolineato sopra, vi sono anche quelli che sono rivolti ai contenuti informativi che ci vengono comunicati. È bene sottolineare subito che l’attività di questi ultimi non è direttamente rilevante per il controllo del rispetto delle norme che riguardano la procedura dell’asserzione. D’altra parte, come vedremo a breve, tale attività può offrire indizi indiretti (non sempre attendibili) relativamente al loro rispetto. Secondo Sperber e i suoi colleghi (2010: 373), la funzione per cui sono stati selezionati i meccanismi dediti alla vigilanza epistemica rivolta al contenuto è quella di valutare il grado di credi-bilità di quanto ci viene comunicato. Data l’enorme quantità di contenuti in-formativi a cui siamo esposti giornalmente, anche questi meccanismi dovranno operare sulla base di un dispendio minimo di risorse cognitive e in maniera per lo più inconscia. Valutare la credibilità di un contenuto, sottolineano Sperber e i suoi colleghi (2010: 374), significa giudicare la sua coerenza rispetto al nostro sistema di credenze, o meglio a un sottoinsieme pertinente rispetto a esso. È in-teressante notare come le nostre valutazioni circa la credibilità di un contenuto informativo possono tornare utili per valutare l’affidabilità di chi l’ha trasmes-so. Se ad esempio un parlante di cui sappiamo poco trasmette contenuti infor-mativi che consideriamo poco credibili, allora anche la nostra valutazione circa la sua affidabilità ne sarà influenzata. Questo non significa che coloro i quali trasmettono contenuti informativi che riteniamo poco credibili siano di fatto inaffidabili. Siamo noi che nel tentativo di farci un’impressione generale circa l’affidabilità di un parlante utilizziamo tutti gli indizi possibili a disposizione. Se fosse vero che chi ci trasmette contenuti informativi poco credibili per noi è di norma una persona poco affidabile, allora dovremmo valutare negativa-mente l’affidabilità di tutte quelle persone che ne sanno più di noi su specifici argomenti. Per quanto in certi casi facciamo difficoltà a ritenere credibili i con-tenuti che essi ci trasmettono (dopo tutto, ci stanno dicendo cose che non sono in linea con le nostre attuali credenze), è proprio grazie all’accettazione di tali contenuti (e con ciò, nel nostro quadro teorico, dell’atto illocutorio eseguito come asserzione) che possiamo produrre un avanzamento e accrescimento delle nostre conoscenze.

128