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2.1 «L’anneé de l’Afrique»

II. Gli anni di Lomé (1975-2000)

2.3. Un’Associazione a vantaggio di chi?

Per analizzare nel modo più esatto possibile i risultati raggiunti dal modello cooperativo di Lomé nei suoi primi quindici anni di attività, credo che sia opportuno tenere in considerazione due domande: in che misura l’Associazione ACP-CEE ha contribuito a realizzare le aspirazioni degli associati,

e, più in generale del Terzo Mondo, per una nuova divisione internazionale del lavoro? E per contro, la Comunità ha approfittato delle Convenzione per assicurarsi un flusso costante di materie prime, in cambio dei manufatti europei? La Convenzione di Lomé si riallacciava, indubbiamente, a quel vecchio concetto di complementarietà economica che aveva dato inizio, nel 1957, all’associazione tra la CEE e i paesi e territori d’oltremare, ma rappresentava

anche il tentativo di passare oltre, di superare quella logica coloniale che la animava. Tuttavia, ancora nel 1985, la Comunità continuava a importare per il 66%, sei prodotti -caffè non tostato, semi di cacao, minerale di ferro, petrolio grezzo (42% sul totale), legname grezzo e rame non lavorato- dai paesi associati. A tali prodotti si applicavano i dazi most favoured nation (mfn), per cui molti di essi risultavano esenti dalla tassazione doganale.166 Di conseguenza, sembra difficile sostenere che la Convenzione di Lomé abbia dato un contributo effettivo alla diversificazione delle esportazioni tradizionali dei PVS associati.

D’altro canto, le critiche di Pisani nei confronti della vecchia gestione dell’Associazione e la sua maggior attenzione nei confronti del settore agricolo, sentenziavano l’insuccesso dei piani d’industrializzazione e, più in generale di diversificazione, promossi dal Fondo europeo di sviluppo.

Discutibile, appare anche la seconda ipotesi, cioè che la Comunità si sia servita dell’Associazione per consolidare le tradizionali rotte commerciali sviluppatesi in epoca coloniale. Infatti, tra il 1976 e il 1990 la quota dei paesi

ACP sulle importazioni extra-CEE diminuiva dal 6,3 al 4,4%, mentre quella sulle sue esportazioni scendeva dal 6,8 al 4,0%. Paradossalmente, il traffico commerciale con gli Stati del sud-est asiatico (dalle Newly industrialized

country ai membri dell’ASEAN, Association of Southeast Asian Nations),

registrava indici positivi, sia in termini d’importazioni che di esportazioni. Come possiamo intuire l’estensione della rete commerciale comunitaria aveva reso la CEE sempre meno dipendente dall’importazione di materie prime dagli Stati associati.

166 Sideri Sandro, I limiti della cooperazione comunitaria e la strategia self-centered: l’esperienza dei paesi ACP, p. 45.

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Nel 1986, a fronte della netta riduzione dell’interscambio tra i due gruppi firmatari dell’accordo di Lomé, la Commissione affermava che: «l’accesso, anche il più liberale, non può da solo generare la crescita e la diversificazione delle esportazioni»169. É chiaro che un accordo preferenziale possa dare solamente un contributo circoscritto alla crescita di un paese, poiché esistono

167 Eurostat, EEC External Trade (Nimexe) 1976/1987, Supplement 1 (CD-Rom), Statistical

Office of the European Communities, Luxemburg, 1991.

168 Ibidem.

169Commissione delle Comunità europee, Comunicazione (86) 179 def., Development Problems in Africa: Medium and Long-Term View, Bruxelles, 10 aprile 1986, p. 15. La traduzione è mia.

1976 1980 1985 1990 ACP 6,3% 7,0% 6,6% 4,4% Latin America 5,2% 5,1% 6,4% 5,5% East Asian NICs/ASEAN 4,5% 5,3% 5,5% 8,3% Mediterranean 7,6% 7,6% 10,1% 8,7% South Asia 1,2% 1% 1,1% 1,5%

EU imports from developing regions as percentage shares of extra-UE imports, 1976-96.167 1976 1980 1985 1990 ACP 6,8% 7,1% 4,6% 4,0% Latin America 5,2% 5,3% 3,6% 3,8% East Asian NICs/ASEAN 3,8% 4,2% 5,0% 8,1% Mediterranean 11,8% 12,0% 10,8% 11,1% South Asia 1,3% 1,7% 2,1% 2,0%

EU exports to developing regions as percentage shares of extra-UE exports, 1976-96.168

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centinaia di fattori, interni ed esterni, che possono facilitare o frenare lo sviluppo di uno Stato. Ciò è ancora più evidente quando si parla di una Convenzione come quella di Lomé che, per quanto potesse assumere le sembianze di un accordo mondiale -a causa del suo largo numero di partecipanti- restava, comunque, un accordo di natura regionale. Tuttavia, il nocciolo del problema non è questo. Ciò che lascia maggiormente perplessi, è che la Commissione non prendesse nemmeno in considerazione la possibilità che la preferenzialità concessa agli associati potesse essere meno liberale di quanto essa sosteneva.

Infatti, come mostra Sandro Sideri in suo brillante saggio, l’accesso preferenziale al Mercato Comune, non rivestiva alcuna importanza per circa due terzi di materie prime esportate dagli associati (di cui il solo petrolio rappresentava circa il 40%), che di fatto erano esenti da dazi doganali secondo le direttive della Clausola della nazione più favorita. Escludendo le esportazioni agricole degli ACP che erano trattate secondo le direttive della Politica Agricola

Comune, solamente un terzo delle esportazioni associate godeva di un modesto margine preferenziale che, tuttavia, veniva progressivamente eroso dalla liberalizzazione imposta dal Gatt. Nei pochi casi in cui i presupposti per una crescita del tasso d’esportazione degli associati erano discreti, come nel caso dello zucchero o dei prodotti tessili, sia la PAC e sia il Multi Fibre

Arrangement170, proteggevano gli interessi dei produttori europei e, più in generale, dei paesi industrializzati. Inoltre, le esportazioni degli associati dovevano competere con la concorrenza di decine di altri attori commerciali, dai membri dell’EFTA a quelli inclusi nel sistema delle preferenze generalizzate.

Infine, nonostante le continue lamentele da parte degli associati, le regole d’origine continuavano a essere molto severe per determinati prodotti come, ad esempio, macchinari e apparecchi elettrici e per l’abbigliamento, per i quali il valore aggiunto locale necessario per ottenere il trattamento preferenziale era del 50-60%, per i primi, e di addirittura dell’86% per i secondi171.

170 Nonostante, l’accesso dello zucchero esportato dagli ACP venisse regolato da un apposito

protocollo, il suo prezzo veniva indicizzato a quello interno stabilito dalla PAC. Essendo però la CEE un’esportatrice netta di questo prodotto, la crescita delle sue esportazioni ne deprimeva il prezzo sul mercato internazionale, danneggiando i ricavi dei paesi ACP.

Il Multi Fibre Arrangement, o Accordo multifibre, ha regolato il commercio mondiale dei tessili dal 1974 al 2004. Più volte ridefiniti, gli accordi multifibre pianificavano l'incremento del volume delle importazioni rendendolo graduale, al fine di evitare il crollo dell'industria tessile dei paesi industrializzati di fronte ai prezzi concorrenziali dei paesi in via di sviluppo, per i quali è molto ridotto soprattutto il costo della manodopera. L'ultimo accordo prevedeva il progressivo smantellamento delle misure protezionistiche, in quanto i contingentamenti delle importazioni sono in contrasto con i principi di libero scambio sanciti dal GATT.

171 Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, Convenzione ACP-CEE di Lomé, cit., Protocollo

numero 1 relativo alla definizione della nozione di "prodotti originari" e ai metodi di cooperazione amministrativa.

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Nel complesso, tanto la PAC, quanto la complessa certificazione

dell’origine delle merci, le clausole di salvaguardia e i Rounds del Gatt, rendevano il regime delle preferenze accordato agli Stati ACP molto meno

vantaggioso di quanto si creda172. Inoltre, non dobbiamo dimenticare come a fine anni Ottanta, l’Europa comunitaria iniziasse a guardare verso gli Stati dell’Europa Centrale e Orientale -prossimi all’indipendenza dalla Jugoslavia e dall’Unione Sovietica- come nuovi alleati politici e partner commerciali, a scapito dei vecchi associati che per condizione economica e offerta commerciale avevano, ormai, ben poco da offrire.

Certamente, anche gli strumenti a servizio della politica di assistenza comunitaria non si dimostrarono di grande utilità per risollevare la stagnazione economica dei PVS associati. Innanzitutto, all’estensione dei campi d’azione del

Fondo e del numero degli Stati beneficiari, non seguì un appropriato impegno finanziario da parte della Comunità. Infatti, dall’analisi della tabella173, possiamo notare come alla crescita delle risorse nominali non corrispondesse un’adeguata crescita delle risorse totali reali174. Diminuiva, inoltre, l’aiuto reale

pro-capite, mentre aumentavano le complessità burocratiche, e quindi il ritardo nei pagamenti. Questo dato era ancora più grave se consideriamo il numero crescente di associati che in un arco temporale di trent’anni passava da 19 a 66.

172 Sideri Sandro, I limiti della cooperazione comunitaria e la strategia self-centered: l’esperienza dei paesi ACP, p. 51.

173 Pallotti Arrigo, La cooperazione UE-ACP tra regionalismo e sviluppo, in Pallotti Arrigo (a

cura di), L’Europa e il sud del mondo. Quali prospettive per il post-Lomé?, collana di «Afriche e Orienti» (1999), AIEP Editore, Serravalle, 1999, p. 23.

174 La risorse totali nominali per Lomé III differiscono da quelle riportate nel capitolo

precedente, poiché le prime indicano la dotazione finanziaria totale della Convenzione in questione (dotazione Fondo e spese varie) mentre le seconde indicano soltanto la dotazione del Fondo. Mentre per quanto riguarda il totale delle risorse nominali per Lomé II, la cifra riportata - 5049- non considera 478 milioni, destinati a coprire alcune spese di natura burocratica.

Convenzione Risorse totali nominali (M. di udc/ecu) Risorse totali reali (M. di udc/ecu) Numero dei paesi associati Aiuto reale pro-capite (udc/ecu) Trattato di Roma 581 534 19 9.7 Yaoundé I 730 530 18 7.6 Yaoundé II 918 464 19 5.8 Lomé I 3.390 1.021 46 4.0 Lomé II 5.049 913 57 2.6 Lomé III 8.500 1.224 66 2.9

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Anche l’efficacia dello STABEX risultò seriamente compromessa

dall’insufficienza delle risorse assegnategli, dalla lentezza burocratica, dalla limitata copertura e dalla farraginosa modalità d’intervento. Altrettanto discutibili apparivano i risultati raggiunti dal Centro per lo Sviluppo Industriale. In quasi un decennio di attività, il Centro era riuscito ad attrarre nuovi investimenti per soli 150 milioni di u/c, contribuendo a realizzare o a ristrutturare un centinaio d’aziende e potenziarne o risanarle altrettante (spesso e volentieri situate in zone petrolifere). Solamente un quinto di questi investimenti, tuttavia, andava a finanziare produzioni utili a rendere maggiormente appetibile l’offerta commerciale degli associati.

All’inizio di questa breve analisi, ci siamo posti due domande: se la Convenzione di Lomé avesse contribuito a modificare lo status quo della divisione internazionale del lavoro o se, per contro, essa fosse stata utilizzata dalla Comunità per assicurarsi l’immensa disponibilità di materie prime di cui godevano gli associati. I numeri e dati ci indicano che né la prima né la seconda ipotesi hanno dato esito positivo. Ed è proprio questo il problema: poiché gli scarsi progressi in termini di sviluppo e il modesto traffico commerciale spinsero, inevitabilmente, la Comunità a rivalutare criticamente i limiti, i risultati e i vantaggi della politica di cooperazione allo sviluppo nei paesi ACP.

L’entrata in scena, negli anni Ottanta, della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale nella gestione delle politiche di sviluppo globali servì a dare un’accelerazione decisiva ad un processo -l’involuzione del modello cooperativo di Lomé- che, tuttavia, aveva già manifestato qualche traccia nelle negoziazioni per la III Convenzione di Lomé.

3.1. I programmi di aggiustamento strutturale: il “tradimento dello