Partenariato Economico (2000)
2.2. Le proteste delle ONG
Come abbiamo già anticipato in precedenza, è stato il presidente della Commissione Prodi a riconoscere l’importanza assunta, all’inizio del nuovo millennio, dalle organizzazioni non governative nella politica di cooperazione comunitaria. La volontà della Commissione di rafforzare il partenariato con le
ONG, si traduceva nel 2000 con la firma del Trattato di Cotonou, che avrebbe
inaugurato ufficialmente la collaborazione tra l’Unione europea e i non-state
actors nella politica di assistenza agli Stati ACP. Il ruolo delle ONG acquisiva particolare valore in riferimento al loro contributo nel processo di sviluppo, specificatamente nella cooperazione decentrata. A tal proposito, ci sentiamo di spezzare una lancia a favore dell’azione comunitaria nel campo dell’assistenza allo sviluppo, poiché a essa si potrebbero imputare molte critiche, ma non quella di aver compreso fin da subito l’apporto che può fornire un alleato prezioso come un’organizzazione non governativa, per il successo della politica di cooperazione. Lo stesso Prodi ammetteva che «l’esperienza e la dedizione del personale dell’ONG, oltre alla loro disponibilità ad intervenire in condizioni
difficili»320, avevano reso questo attore della società civile, un partner fondamentale per la Commissione. Probabilmente, quando Prodi rifletteva sull’importanza assunta dalle organizzazioni non governative negli ultimi trent’anni, passava in rassegna le immagini di tenacia e solidarietà, che ritraevano le ONG impegnate a dare il loro contributo in contesti sociali
drammatici. Da metà degli anni Ottanta, infatti, le ONG avevano assunto un
ruolo di primaria importanza nella politica di assistenza mondiale, grazie alla diffusione del concetto di “aggiustamento dal volto umano”321. L’espressione coniata dall’Unicef, prevedeva la realizzazione d’invertenti nel settore sociale, spesso eseguiti dalle ONG, a completamento dei piani di aggiustamento
strutturale. In sostanza, l’azione delle ONG avrebbe dovuto mitigare i contraccolpi sociali provocati dalle politiche economiche neoliberiste adottate dalle istituzioni di Bretton Woods. Chiaramente, la scelta della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale di collaborare con le ONG rispondeva a
considerazioni puramente pragmatiche, ma è proprio da quest’esperienza diretta che le ONG iniziarono a sviluppare il presupposto teorico che oggi sta alla base
della cooperazione decentrata.
320 Documento di lavoro della Commissione, La Commissione e le organizzazioni non governative: rafforzare il partenariato, cit., p. 5.
321 Cfr. Lapucci Alessio, Ong e cooperazione europea allo sviluppo: originalità e limiti di un modello, in Calandri Elena (a cura di), Il primato sfuggente, cit., p. 165-166.
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Nel 1987, a Londra, in un convegno intitolato “Development Alternatives:
The Challenge for NGO’s”, i rappresentanti delle principali ONG europee affermarono, innanzitutto, la necessità di distinguere il ruolo delle ONG da
quello dei donatori pubblici. Si trattava di un passaggio essenziale, per evitare che le ONG finissero per essere considerate come semplici mezzi per
l’erogazione di aiuti statali e multilaterali. Ed è proprio in questo percorso di autoaffermazione che inizia a diffondersi un particolare approccio alla cooperazione allo sviluppo, che si basa sul concetto di empowerment. L’idea di fondo è che un percorso di crescita efficace e funzionale, possa partire soltanto da chi si rapporta in prima persona con le strutture sociali a cui l’aiuto si rivolge, e cioè dai popoli beneficiari dell’aiuto. Il processo di empowerment322 cerca,
quindi, di stimolare i popoli a prendere coscienza del percorso di sviluppo che li attende, per fare in modo che siano essi stessi a guidarlo con le proprie capacità e a sentirlo come proprio. A tal proposito, la diffusione capillare delle ONG
avrebbe potuto accelerare questo percorso, mediante una rinnovata sinergia e una suddivisione dei compiti tra le organizzazioni non governative del Nord e del Sud del mondo. Nel concreto, le ONG del Nord avrebbero continuato a far
confluire i fondi al Sud per il finanziamento di progetti poi implementati dai popoli beneficiari, i soli a conoscere i reali bisogni dei più poveri. Nel medio- lungo termine, si prevedeva anche la possibilità che gli enti erogatori finanziassero direttamente le ONG del Sud. Proprio questa decentralizzazione della cooperazione verso gli attori delle realtà assistite, avrebbe permesso alle
ONG europee di concentrare il loro lavoro «verso azioni di advocacy e lobbying
nei confronti dei legislatori e donatori occidentali»323. Inoltre, le ONG del Nord
avrebbero potuto sfruttare la loro nuova posizione per spingere i donatori a convogliare programmi e risorse verso un concetto emergente di sviluppo, ovvero lo “sviluppo sostenibile”. L’obiettivo centrale era quello di tutelare l’ambiente esterno, ma anche di educare i popoli beneficiari al rispetto delle risorse e all’utilizzo di energie pulite e rinnovabili.
Questo nuovo approccio a uno sviluppo «giusto, sostenibile ed inclusivo»324, inizialmente non trovò molto riscontro nelle politiche europee d’assistenza. Anzi, la III Convenzione di Lomé si mostrava inadeguata da questo punto di vista e molto più legata alla vecchia logica progettuale di
322 Si prenda nota che non esiste una traduzione italiana per il termine empowerment; nei
documenti dell’Unione europea il termine si traduce con “società dotata di maggiori poteri”. Cfr. Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, Regolamento (CE) N. 1905/2006 del Parlamento e
del Consiglio del 18 dicembre 2006 che istituisce uno strumento per il finanziamento della cooperazione allo sviluppo, N. L 378/41, 27.12.2006, Art 14 (a).
323 Ivi, p. 167.
324 Lapucci Alessio, Ong e cooperazione europea allo sviluppo: originalità e limiti di un modello, in Calandri Elena (a cura di), Il primato sfuggente, cit., p. 168.
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sviluppo. Tuttavia, il rinnovato interesse del Commissario allo Sviluppo Lorenzo Natali verso un profondo dialogo tra il Nord e il Sud del mondo, portò a una rilevante correzione delle Condizioni generali per l’accesso al cofinanziamento325. Infatti, Natali condivideva molta di quella filosofia che stava alla base del concetto di empowerment e in particolare si faceva portavoce
di termini come, partecipazione, ruolo della donna, autonomia e micro-interventi, quali temi fondamentali per il futuro dibattito sullo sviluppo
dei paesi arretrati. In tal senso, il coinvolgimento delle ONG del Terzo Mondo
creava un canale utile dove far confluire un’assistenza finalizzata al conseguimento di uno sviluppo inclusivo per le autorità locali e i non-state
actors. In coerenza con le idee di Natali, il nuovo regolamento sul
cofinanziamento del 1988 prevedeva per la prima volta la possibilità di sovvenzionare le ONG del Terzo Mondo. Si trattava, comunque, di un timido
approccio alla cooperazione decentrata, poiché il finanziamento dei progetti implementati dalle organizzazioni non governative del Sud poteva essere accordato soltanto in presenza di una partnership giuridica con una ONG
europea, che avrebbe fatto da garante tra la Commissione e l’organizzazione ricevente del Sud326.
Durante gli anni Novanta, il rafforzamento del concetto di aiuto condizionato al rispetto dei principi della good governance, rafforzò la cooperazione decentrata, definendo i campi d’azione e il ruolo che le organizzazioni non governative del Nord e del Sud del mondo avrebbero assunto nel 21° secolo. Le ONG del Sud intensificarono la loro azione “sul
campo”; contribuendo a una distribuzione dell’aiuto in aree marginali, notificando gli episodi di violazione dei diritti fondamentali e sollecitando i governi locali alla realizzazione delle riforme economiche e politiche. All’opposto, le ONG del Nord assunsero una funzione d’intermediazione tra i donatori e i beneficiari. Il costante coinvolgimento del loro operato nei negoziati e nelle conferenze internazionali che riguardavano la politica di assistenza, avrebbe dato un ottimo sostegno politico ai paesi del Sud per ridurre quella asimmetria contrattuale, che contraddistingue le trattative tra paesi
325 La collaborazione CEE-ONG era iniziata nel 1976, mediante lo stanziamento di fondi sotto la
nuova linea di bilancio B7-6000. La Comunità partecipava al cofinanziamento (generalmente fissato al 50% del costo totale di realizzazione del progetto) di progetti promossi dalle ONG. Cfr. p. 72.
326 Commission of the European Communities, Sec (89) 1575 final, Commission report on cooperation with European non-governmental organizations (NGOs) in fields concerning developing countries (1988 exercise), 17.10.1989, p. 15. Tra il 1976 e il 1988 i progetti
cofinanziati dalla Commissione ammontavano a 3080, per una cifra pari a circa 342.2 m/ecu. Tuttavia, come nel primo decennio di collaborazione, i fondi non erano bastati per soddisfare le richieste delle ONG.
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industrializzati e quelli in via di sviluppo. Inoltre, nella seconda parte degli anni Novanta, su iniziativa della Commissione, assistiamo a una razionalizzazione dell’universo delle ONG, attraverso una loro ripartizione territoriale e settoriale
in network -punti d’incontro tra donatori privati e statali- tematici (ad esempio l’Eurodad per le questioni relative al debito estero), a carattere regionale ( ad esempio CIFCA, per lo sviluppo equo e sostenibile in America centrale e
Messico) o nazionale (il Forum ONG per la Cambogia). I network avrebbero
consolidato il fecondo rapporto tra istituzioni comunitarie, ONG e donatori
privati, in vista della firma dell’Accordo di Cotonou.
La firma dell’Accordo di partenariato celebrava ufficialmente la nascita di un nuovo corso della politica di assistenza dell’UE, teso alla realizzazione di un
decentramento amministrativo all’insegna di una maggiore efficienza. In effetti, il partenariato ha una struttura fortemente inclusiva nei confronti della sfera della società civile327, a cui viene riconosciuto il ruolo di attore nella cooperazione UE-ACP, al pari degli Stati nazionali e delle istituzioni congiunte. Ai non-state actors è assegnata una funzione di primaria importanza nel dialogo politico, soprattutto nei casi di consultazione e di prevenzione di situazioni di crisi, che renderebbero necessario il ricorso alla clausola «generale di inadempienza» o di «non esecuzione», e quindi alla sospensione della cooperazione. Inoltre, «per incoraggiare tutti gli attori della cooperazione decentrata in grado di contribuire allo sviluppo autonomo degli Stati ACP a proporre e attuare iniziative»328, il FES avrebbe partecipato al finanziamento di
327 Come abbiamo detto nel capitolo «Il dialogo permanente tra Commissione e Clong», quello
di società civile è un concetto molto ampio che racchiude in se tutta una serie di attori non- ufficiali, spesso e volentieri molto diversi l’uno dall’altro, che operano in una gamma ampia di settori che variano da quello socio-culturale a quello ambientale. Tuttavia, sembra utile affidarci a un elenco di attori di questa sfera compilato dal Consiglio nel Regolamento (CE), N. 1905/2006 che istituisce uno strumento per il finanziamento della cooperazione allo sviluppo. «Gli attori non statali e senza scopo di lucro […] sono nello specifico: le organizzazioni non governative; le organizzazioni rappresentative di popolazioni autoctone; le organizzazioni rappresentative delle minoranze nazionali e/o etniche, le associazioni professionali e i gruppi d'iniziativa locali; le cooperative; i sindacati; le organizzazioni rappresentative degli attori economici e sociali, le organizzazioni che combattono la corruzione e la frode e promuovono la buona governanza; le organizzazioni per i diritti civili e le organizzazioni che combattono le discriminazioni, le organizzazioni locali (comprese le reti) operanti nel settore della cooperazione e dell'integrazione regionali decentralizzate; le associazioni di consumatori; le associazioni di donne e di giovani; le organizzazioni di insegnamento, culturali, di ricerca e scientifiche; le università; le chiese e le associazioni o comunità religiose; i mass-media, nonché tutte le associazioni non governative e fondazioni indipendenti, comprese le fondazioni politiche indipendenti». Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, Regolamento (CE) N. 1905/2006 del
Parlamento e del Consiglio del 18 dicembre 2006 che istituisce uno strumento per il finanziamento della cooperazione allo sviluppo, N. L 378/41, 27.12.2006, art. 24 comma 2. 328 Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, Accordo di partenariato tra i membri del gruppo degli stati dell’Africa, del Caraibi e del Pacifico, da un lato, e la Comunità europea e i suoi stati membri, dall’altro, firmato a Cotonou il 23 giugno 2000, cit., art. 71.
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microprogetti presentanti dai membri della società civile, coprendo circa tre quarti del costo totale di ciascun progetto (art. 71). In coerenza con il processo di razionalizzazione istituzionale avviato negli anni Novanta, nel 2001 nasceva l’ufficio di Cooperazione della Commissione Europeaid, oggi pilastro del
Directorate-General for International Cooperation and Development (DG DEVCO), dopo la sua fusione con il Directorate General for Development and
Relations with ACP States (DG DEV). Fin dai primi anni del suo operato,
Europeaid si impose come braccio operato della Commissione per la distribuzione dell’aiuto esterno (vi è la possibilità di sovvenzionare direttamente le ONG del Sud), finanziato sia tramite le linee del bilancio dell’UE che dal
Fondo europeo di sviluppo. Di fronte a questa riorganizzazione istituzionale, le
ONG si sono mosse di conseguenza istituendo il Concord, la Confederazione
Europea di ONG operanti nell’aiuto allo sviluppo e di emergenza. La nascita del
Concord nel 2001, a seguito della scomposizione del Clong per ragioni amministrative, ha rafforzato il dialogo tra le ONG e la Commissione lasciando ben sperare per il futuro.
La centralità delle ONG è emersa nelle trattive per gli Accordi di
Partenariato Economico. Effettivamente, rispetto al periodo storico di Lomé, le organizzazioni non governative hanno sfruttato al meglio lo spazio riservato alla società civile nel partenariato e la loro capacità d’inserirsi nei canali dell’opinione pubblica europea, per influenzare e per mitigare l’azione comunitaria con azioni di advocacy e lobbying nei confronti dei legislatori e donatori occidentali. Le prime contestazioni si registrarono nell’autunno del 2004, quando alcune ONG appartenenti ai network europei Concord e Eurostep
(European Solidarity Towards Equal Participation of People) lanciarono la campagna StopEpa, ripresa annualmente con una giornata di mobilitazione in tutti i paesi membri dell’Unione europea, il 27 settembre. L’azione della campagna si è diretta su tutti i livelli istituzionali dell’Unione europea, cercando di bloccare i negoziati in corso e a forzarne un ripensamento o un’alternativa valida. Benché i risultati siano stati piuttosto modesti, la campagna ha costruito una vasta rete comunicativa tra i network europei e le associazioni della società civile degli Stati ACP, che potrebbe rivelarsi strategica per le future trattative
nell’ambito del partenariato.
Sicuramente, tra le voci di protesta che si sollevarono in quegli anni, la più nota è Oxfam, non tanto per il suo tono critico o rivoluzionario ma poiché l’esperienza di Oxfam ha dato prova di come oggi la società civile possa veramente acquisire un ruolo nuovo e di primo ordine nell’orientamento della politica di assistenza nazionale e sovranazionale. Infatti, come abbiamo già anticipato in precedenza, le perplessità messe in luce da Oxfam ebbero un peso
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considerevole nel determinare il profilo critico assunto da Londra nel corso del processo negoziale per gli APE. In tal senso; anche se volessimo prendere per buona la tesi sostenuta dalla Commissione, che liquidiva le argomentazioni critiche di Londra come eccessive e funzionali alle imminenti elezioni politiche del 2005, ciò non farebbe altro che confermare l’esistenza di una forte sinergia, quella tra ONG e opinione pubblica, che le istituzioni dovranno imparare ad
ascoltare. In effetti, se mettiamo a confronto il documento pubblicato da Oxfam dal titolo «Making trade work for developement in 2005. What the EU should
do» con il già citato position paper «Making EPAs Delivier for Development»,
elaborato dal Department of Trade and Industry e dal Department for
International Development, notiamo un’uniformità in termini di richieste e punti
critici del mandato negoziale. Ambedue si appellavano all’Unione europea affinché lasciasse agli Stati ACP il diritto di determinare in piena autonomia il
ritmo e la copertura degli accordi, in sintonia con i propri piani di sviluppo e senza essere forzati alla liberalizzazione tramite la condizionalità dell’aiuto finanziario o la mancanza di alternative valide. Come le istituzioni del governo inglese, anche Oxfam chiedeva di rimuovere dai negoziati i “temi di Singapore”, un periodo transitorio di venti anni o più per contenere i contraccolpi della
liberalizzazione e uno schema alternativo agli APE, basato sulla
non-reciprocità329. Ora che siamo a conoscenza del risultato finale dei negoziati, ci rendiamo conto che soltanto la sollecitazione a una differenziazione nel calendario di liberalizzazione programmato e nella copertura dei prodotti sensibili ha avuto un seguito negli APE, sia in quelli completi che provvisori. Un
risultato davvero modesto, se consideriamo la cassa di risonanza istituzionale e internazionale di questa azione di lobbying. Senza dimenticare come, peraltro, le differenze tra i singoli Stati non siano riconducibili soltanto alle diverse priorità individuate dai paesi ACP nella propria struttura economica, ma riflettono un quadro asimmetrico di diversi livelli di potere contrattuale. La domanda sorge spontanea: la protesta di Oxfam, ma anche di altre ONG come Action Aid e
Christian Aid, avrebbe potuto ottenere un risultato migliore?
Non è semplice dare una risposta chiara a questa domanda, anche perché dobbiamo considerare che durante le trattative, la fermezza di Mandelson nel definire le tappe del percorso di liberalizzazione spesso ha reso il dialogo tra società civile e Commissione, svuotato di ogni valore. Dall’altra sponda, quella
degli ACP, abbiamo sempre posto l’accento sull’atteggiamento troppo
rinunciatario e scarsamente partecipativo degli associati, capaci soltanto di arroccarsi nella difesa del vecchio regime commerciale di Lomé. Certamente,
329 Oxfam, Making trade work for developement in 2005. What the EU should do, Oxfam
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l’asimmetria negoziale tra l’UE e gli ACP ha giocato un ruolo chiave nel
determinare l’approccio scarsamente propositivo dei PVS ai negoziati, ma è anche vero che in questi anni gli Stati ACP non hanno mai compreso fino in
fondo quanto la cooperazione decentrata possa essere utile per ottimizzare l’efficacia dell’aiuto e, soprattutto, per riequilibrare l’asimmetria contrattuale. In effetti, se nel Libro Verde della Commissione, sono frequenti i riferimenti all’importanza che avrebbe assunto la società civile nei processi, politici, sociali ed economici, non si può dire lo stesso per la Dichiarazione di Libreville (1997), il documento approvato dagli Stati ACP in vista delle negoziazioni per il modello
cooperativo che avrebbe sostituito il “paradigma di Lomé”. La Dichiarazione elenca dodici aree a cui i paesi ACP devono dare priorità, che includono un
riferimento a «to develop institutional and human capacity building with
particular emphasis on women and young people and their effective participation in development»330, senza fare alcun accenno alla società civile. Soltanto in un allegato alla dichiarazione troviamo un timido approccio alla partecipazione degli attori non-statali, e in particolare delle ONG internazionali,
come referente nel dialogo politico con l’Unione europea. In altre parole, c’è una distanza abissale tra quella «participatory partnership»331 formulata dalla Commissione per la società civile, che assicurava la partecipazione dei suoi attori nella definizione degli obiettivi della cooperazione e nell’attuazione dei programmi, e il punto di vista degli Stati ACP.
In un suo saggio, George Huggins, funzionario dell’International Development Consulting, ha cercato di spiegare le ragioni che rendono il terreno dei paesi in via sviluppo scarsamente fertile per l’affermazione della cooperazione decentrata. Second Huggins, «la maggior parte dei paesi ACP ha
per lungo tempo trattato le relazioni e i negoziati internazionali come esclusiva prerogativa dei governi, e non vi è alcuna tradizione di coinvolgimento o consultazione della comunità in senso lato»332. Questa tendenza deriva dal
concetto di monopolio statale dello sviluppo, elaborato da alcuni dei più celebri teorici dello sviluppo (Arthur Lewis per citarne uno), da un lato, e dalla logica del donatore-beneficiario, dall’altro. I donatori, che di fatto erogavano risorse prelevate dalle loro cittadinanze, dovevano dar conto del loro impiego, finendo per coinvolgere l’opinione pubblica e la società civile nelle discussioni
330 The Libreville Declaration, Primo vertice dei Capi di Stato e di Governo ACP, 7 novembre
1997, cit., 10 (f).
331 European Centre for Development Policy Management (ECDPM), Comparing the ACP and EU Negotiating Mandates, 1998, p. 2, http://ecdpm.org/wp-content/uploads/2013/11/LNB-3-
Comparing-ACP-EU-Negotiating-Mandates-1998.pdf
332 Huggins George, Gli attori della società civile, in La cooperazione UE-ACP tra regionalismo e sviluppo, in Pallotti Arrigo (a cura di), L’Europa e il sud del mondo. Quali prospettive per il post-Lomé?, cit., p. 78.
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sull’elaborazione delle politiche d’assistenza. All’opposto, le responsabilità per i fondi dello sviluppo, così come la gestione dei programmi e dei progetti, erano assegnate al settore pubblico dei PVS e non richiedevano, quindi, il
coinvolgimento della popolazione. In particolare, questa dinamica ha preso piede proprio negli Stati africani, dove esiste ancora oggi una «profonda divisione tra il centro politico e la periferia della comunità, tra la burocrazia e la società più ampia»333, ereditata dal vecchio sistema coloniale e perpetuata dal tribalismo.
Ripensando alla domanda posta in precedenza, ora possiamo affermare che forse il movimento di protesta organizzato dalle ONG durante i negoziati per
gli APE, avrebbe potuto ottenere un risultato migliore, soltanto se avesse trovato