Sicilia 29 aprile 2014, n 10, recante Norme per la tutela della
4. Il ruolo dell’associazionismo e della società civile nel sostegno e nell’assistenza delle vittime di corporate violence
In queste pagine il fenomeno della corporate violence appare in tutta la sua complessità, la quale rende ancora più difficile il compito essenziale dell’assistenza, del sostegno e della protezione delle vittime, attività che in questi casi richiedono interventi specialistici particolarmente articolati. La ricerca condotta nell’ambito di questo progetto ha messo in luce come, in Italia e all’estero, vi siano state gravi carenze da parte delle istituzioni pubbliche nell’attenzione verso le vittime delle imprese ed è emerso invece un ruolo importante, talvolta decisivo e spesso isolato, degli enti
esponenziali degli interessi diffusi, delle associazioni costituite tra le vittime, della società civile (v. il report dal titolo I bisogni delle vittime di
corporate violence: risultati della ricerca empirica in Italia, agosto 2017,
disponibile su http://www.victimsandcorporations.eu/publications/). Per converso, le peculiarità della vittimizzazione da corporate violence espongono le persone offese a una singolare forma di vittimizzazione
secondaria: la strumentalizzazione politica, economica e mediatica.
Queste vittime – spesso catapultate dentro problemi di immensa portata, squilibri informativi e di potere, relazioni complesse, grandi organizzazioni, tensioni economiche, sociali e politiche fortissime e, in fin dei conti, dentro situazioni ‘più grandi di loro’ – devono essere protette anche da questa ulteriore vittimizzazione: devono, cioè, essere protette dai molti soggetti
senza scrupoli che possono vedere in loro una fonte di arricchimento, un
veicolo per la carriera politica, un mezzo per ottenere visibilità mediatica.
Le vittime di corporate violence sono esposte a una peculiare forma di vittimizzazione secondaria, che consiste nella strumentalizzazione da parte di soggetti spregiudicati per fini economici, di carriera politica o di visibilità mediatica.
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Tornando al ruolo degli enti rappresentativi di interessi diffusi nel caso di corporate violence (nella specie: organizzazioni sindacali, associazioni a tutela dei consumatori, associazioni ambientaliste, altri enti no profit, ecc.), essi hanno non di rado lanciato i segnali d’allarme, richiamando l’attenzione del mondo politico e istituzionale verso certi pericoli o la nocività di certe sostanze o prodotti. Molte organizzazioni non
governative hanno contribuito con rigorose ricerche scientifiche e serie campagne di sensibilizzazione allo svelamento dei rischi connessi all’esposizione occupazionale o ambientale a certe sostanze, spingendo anche per una più completa trasparenza informativa verso i cittadini, i consumatori e i lavoratori. Le associazioni locali di cittadini, consumatori o
lavoratori sono state talvolta tra i più precoci whistle blowers nell’additare
stili imprenditoriali, produttivi o commerciali poco (o nulla) attenti alla vita e alla salute dei consumatori o dei lavoratori, all’incolumità pubblica e alla salubrità dell’ambiente. Alcuni sindacati hanno offerto le prime forme di consulenza e assistenza legale e talvolta, grazie a medici volontari, persino la prima consulenza diagnostica e assistenza sanitaria. L’intervento di questi enti diversificati, espressione di una cittadinanza attiva e di una
società civile intraprendente, è stato tanto più importante ed efficace
quanto più esso è stato rigoroso, equilibrato, intellettualmente onesto,
trasparente, non ‘partigiano’ e, se vogliamo, ‘disinteressato’.
V.4.1.
La società civile, le associazioni e gli enti esponenziali degli interessi diffusi hanno un ruolo molto importante nella prevenzione della corporate violence e nella protezione e assistenza alle vittime. Tale ruolo è tanto più efficace quanto più esso è indipendente, rigoroso, equilibrato, trasparente.
Le associazioni costituite tra le vittime hanno storicamente sopperito
all’assenza dei servizi di assistenza, fornendo una molteplicità di servizi di stretta e urgente necessità e offrendo diverse forme di aiuto e sostegno: dall’informazione sui diritti all’accompagnamento nei lunghi iter burocratici per il riconoscimento di malattie professionali o per l’accesso ai fondi di indennizzo; dall’assistenza legale alla rappresentanza della ‘collettività’ di vittime nei complessi rapporti con le corporations, anche nelle sedi negoziali sui risarcimenti; dalle costituzioni di parte civile all’interlocuzione con l’autorità giudiziaria (specialmente le Procure della Repubblica) nel corso delle indagini preliminari, in preparazione dei processi, in vista o a valle delle sentenze; dalla non facile relazione con i
mass media al mondo politico e le istituzioni per ottenere l’approvazione
Anche nel caso delle associazioni di vittime, a uno stile equilibrato e fermo ma al tempo stesso dialogico e attento a non ingenerare aspettative
processuali destinate a essere frustrate, ha corrisposto generalmente una
maggiore efficacia nel soddisfare i bisogni, nell’evitare conflittualità interne e rivalità tra associazioni, nel raggiungere risultati istituzionali
importanti (quali, per es. le leggi istitutive di fondi di indennizzo o gli
interventi pubblici di bonifica e risanamento) e, in fin dei conti, nell’evitare forme di vittimizzazione secondaria (sul ruolo degli enti esponenziali di interessi diffusi e delle associazioni di vittime nel procedimento penale: v.
infra § IX. Sul rapporto con i mezzi di comunicazione: v. infra §§ VII e IX. Sull’importanza delle associazioni di vittime, v. anche il report sulla ricerca empirica: I bisogni delle vittime di corporate violence: risultati della
ricerca empirica in Italia, agosto 2017, disponibile su http://www.victims
andcorporations.eu/publications/).
V.4.2.
Le associazioni di vittime svolgono un compito di assistenza, sostegno, interlocuzione e advocacy di estrema importanza, che si rivela tanto più utile ed efficace nel soddisfacimento dei bisogni delle vittime e nel raggiungimento dei risultati nel loro interesse nella misura in cui sa essere equilibrato e dialogico.
Occorre infine ricordare come, ai sensi dell’art. 8 della Direttiva 2012/29/UE, i servizi di assistenza alle vittime possono essere «istituiti come organizzazioni pubbliche o non governative, su base professionale o
volontaria». Pertanto, il mondo dell’associazionismo può validamente
contribuire al completo recepimento della Direttiva, partecipando alla
realizzazione dei servizi di assistenza, cioè proprio a quella parte essenziale, oggi mancante, del sistema multilivello di diritti e assistenza
alle vittime voluto dall’Unione europea. Ciò dovrà avvenire senza
superficialità e improvvisazione, previa adeguata formazione degli
operatori, anche ove volontari, nella consapevolezza che assistere le vittime è compito difficile e complesso, che esige preparazione, competenza e sensibilità particolari (art. 2). Il contributo alla realizzazione dei servizi di assistenza alle vittime sarà, fra l’altro, favorito dalla recente riforma del Terzo settore, le cui finalità e i cui principi messi in luce dalla nuova legge si sposano con gli obiettivi della Direttiva: «concorr[ere], anche in forma associata, a perseguire ad elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, favorendo la partecipazione, l'inclusione e il pieno sviluppo della persona». Al Terzo settore, all’associazionismo e al volontariato vengono riconosciuti un
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valore e una funzione sociale quali «espressione di partecipazione, solidarietà e pluralismo», nonché «l'apporto originale per il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, anche mediante forme di collaborazione con lo Stato, le Regioni, le Province autonome e gli enti locali» in ambiti di «interesse generale» molti dei quali collimano con le prestazioni di assistenza da rivolgere, in forma generica o dedicata, generale o specialistica, alle vittime di reato (artt. 1, 2, 5 d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117 Codice del Terzo settore, a norma dell'articolo 1, comma 2,
lettera b), della legge 6 giugno 2016, n. 106). Inoltre, tra gli ambiti di
intervento previsti dal Codice del terzo settore
V.4.3.
Il Terzo settore, l’associazionismo e il volontariato possono contribuire alla realizzazione dei «servizi di assistenza alle vittime» i quali, ai sensi dell’art. 8 Dir., possono essere istituti anche da «organizzazioni non governative» e strutturati «su base volontaria». 5. Il ruolo degli operatori sociali con gli autori di corporate violence Gli operatori sociali – da intendersi qui come assistenti sociali, educatori, psicologi, criminologi – non intervengono solo ‘con’ e ‘a favore delle’
vittime: essi hanno rilevantissimi compiti istituzionali nei percorsi di
risocializzazione e recupero degli autori di reato (persone fisiche, ovviamente, in questo caso). Si tratta, in particolare, del personale del Ministero della Giustizia operante nel Dipartimento dell’Amministrazione
penitenziaria o presso gli Uffici di esecuzione penale esterna, oggi
incardinati nel Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità
La Costituzione (art. 27 co. 3 Cost.), l’Ordinamento penitenziario (l. 24 luglio 1975, n. 354 e succ. modif.) e il relativo regolamento di esecuzione (d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230), unitamente a una serie di misure di recente conio (messa alla prova per adulti, sanzioni sostitutive consistenti in lavori di pubblica utilità, ecc.), scolpiscono un sistema che vuole (e deve) essere destinato alla rieducazione attraverso un percorso di trattamento
risocializzativo individualizzato e volontario al centro del quale sta la
cosiddetta riflessione critica sul reato. Tale riflessione critica è condotta dagli operatori insieme all’autore dell’illecito ed è volta alla responsabilizzazione di quest’ultimo rispetto alla condotta antigiuridica posta in essere e alle sue conseguenze offensive, anche in vista di possibili azioni di riparazione (artt. 27 e 118, d.P.R. 230/2000).
Il trattamento rieducativo può avere luogo in ambiente esterno – nella «giustizia di comunità» (il che, ove possibile, è preferibile), cioè nell’ambito di misure alternative, messa alla prova per adulti, lavori di pubblica utilità – o in ambiente carcerario.
I crimini dei colletti bianchi sono stati a lungo trascurati dalla riflessione delle scienze sociali e degli stessi operatori in ordine ai percorsi di risocializzazione, avendo per lo più attratto l’attenzione del legislatore, degli studiosi, dell’Amministrazione penitenziaria e della magistratura di sorveglianza gli outsiders sociali, autori di crimini «comuni» e «di strada», complice anche il riferimento espresso, nell’art. 13 Ord. penit., alla rilevazione, in sede di trattamento, delle «carenze fiosiopsichiche e [del]le altre cause di disadattamento sociale» del destinatario dell’intervento risocializzativo.
Non è questa la sede per avvicinare un tema di grande portata per l’esecuzione penale, intra‐ ed extra‐muraria: basti qui solo accennare superficialmente all’importanza della riflessione critica sul reato anche nei
casi di crimini d’impresa, e specialmente di violenza d’impresa (corporate
violence), dove il carattere spesso perfettamente socializzato del ‘colletto
bianco’, il contesto ‘lecito’ dell’attività d’impresa, la spinta verso il profitto, la natura ‘organizzativa’ della criminalità d’impresa, la ‘distanza’ – fisica, psicologica, umana e sociale – con le vittime sono fattori tutti che contribuiscono a ‘non riflettere’, al momento della condotta, sulle possibili conseguente lesive, talvolta immani, letali e collettive, dell’azione criminosa.
In questo senso, la conoscenza da parte degli operatori del trattamento
rieducativo dell’altro versante della molecola criminale (Forti, L’immane
concretezza. Metamorfosi del crimine e controllo penale, Milano, 2000),
cioè della vittima della forma subdola di ‘violenza’ che deriva dalla criminalità d’impresa e delle conseguenze e implicazioni della relativa vittimizzazione, può contribuire a favorire percorsi di riflessione critica e di inclusione degli autori del reato e a prevenire ulteriori illeciti, il che rappresenta anche uno dei più importanti presidi a tutela delle stesse vittime.
La responsabilizzazione dell’autore del reato può altresì essere favorita dai programmi di giustizia riparativa (v. infra § X), i quali consentono l’uscita dai ruoli di ‘reo’ e ‘vittima’ per aprire uno spazio di dialogo e incontro che fa cadere rispettosamente le distanze tipiche della criminalità d’impresa per svelare l’umanità di tutte le persone coinvolte.
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V.5.
La conoscenza, da parte degli operatori del trattamento rieducativo rivolto agli autori di reato, delle conseguenze e delle implicazioni della vittimizzazione derivante da coporate violence contribuisce grandemente alla conduzione della «riflessione critica sul reato» in cui consiste una parte essenziale della rieducazione, favorendo così i percorsi di responsabilizzazione dei ‘colletti bianchi’ e la prevenzione di ulteriori illeciti.
VI.
VULNERABILITÀ E PROTEZIONE
1. Vulnerabilità e valutazione individuale delle specifiche esigenze di