Cons. 19 Dir. Una persona dovrebbe essere considerata vittima indipendentemente dal fatto che l'autore del reato sia identificato, catturato, perseguito o condannato e indipendentemente dalla relazione familiare tra loro. […] Art. 1 co. 1 Dir.
[…] Gli Stati membri assicurano che le vittime siano riconosciute e trattate in maniera rispettosa,
sensibile, personalizzata, professionale e non discriminatoria, in tutti i contatti con servizi di assistenza
alle vittime o di giustizia riparativa o con un’autorità̀ competente operante nell’ambito di un
procedimento penale. I diritti previsti dalla presente direttiva si applicano alle vittime in maniera non discriminatoria, anche in relazione al loro status in materia di soggiorno.
Cons. 9 Dir.
[…] Le vittime di reato dovrebbero essere riconosciute e trattate in maniera rispettosa, sensibile e
professionale, senza discriminazioni di sorta […]. In tutti i contatti con un'autorità competente
operante nell'ambito di un procedimento penale e con qualsiasi servizio che entri in contatto con le
vittime, quali i servizi di assistenza alle vittime o di giustizia riparativa, si dovrebbe tenere conto della situazione personale delle vittime e delle loro necessità immediate, dell'età, del genere, di eventuali disabilità e della maturità delle vittime di reato, rispettandone pienamente l'integrità fisica, psichica e
morale. Le vittime di reato dovrebbero essere protette dalla vittimizzazione secondaria e ripetuta,
dall'intimidazione e dalle ritorsioni, dovrebbero ricevere adeguata assistenza per facilitarne il recupero
e dovrebbe essere garantito loro un adeguato accesso alla giustizia.
Nessun reato, nessuna vittima, dunque?
Tale apparente ovvietà nasconde invece dense questioni filosofico‐ giuridiche e problemi operativi immensi, specialmente in un settore complesso come quello dei ‘crimini’ (rectius: reati) di impresa e, all’interno di questo, a maggior ragione nelle ipotesi di reato fenomenologicamente riferibili alla nozione criminologica di corporate violence (v. supra, § II).
Se la vittima ‘nasce’ al momento della commissione del (fatto di) reato, l’individuazione e la riconoscibilità della vittima sembrerebbero dipendere dall’esistenza del reato stesso, non già dalla sua scoperta e
tanto meno dal suo accertamento. ‘Esiste’ la vittima solo se e quando viene ‘accertato’ il fatto di reato? ‐ «Si diventa vittime dopo che c’è il reato. Il punto è che il reato è una sorta di realtà mitologica stranissima». ‐ «È che dovresti andare alla fine, all’accertamento definitivo». ‐ «No, il fatto di reato sussiste anche se nessuno lo scopre o lo accerta». ‐ «Va be’…, allora diciamo che il reato deve essere almeno ipotizzato. Ma il danno deve esserci ed essere già subìto». ‐ «E cosa si fa allora nei casi in cui c’è un periodo di latenza prima che si verifichi l’evento lesivo…?» (adattamento di un dialogo tratto da un focus group di progetto).
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Una prima risposta della Direttiva 2012/29/UE alla domanda anzidetta (seppure circoscritta al solo contesto di seguito precisato) è negativa. La
Direttiva, infatti, pare slegare la vittima non dal reato, bensì dalla giustizia penale e dai suoi esiti. Ai sensi della Direttiva, una persona
dovrebbe essere considerata vittima indipendentemente dal procedimento penale e da ciò che giudizialmente accade alla persona a cui il fatto è attribuito (cons. 19). Le vittime di reato non sono ‘utenti’ di competenza esclusiva del sistema penale. Si tratta di un’affermazione con implicazioni di grande rilievo per tutti coloro i quali operano nei servizi sociali, nell’assistenza sanitaria, nel settore della salute mentale, negli ambiti della sicurezza sociale, della
previdenza, della beneficienza pubblica e della filantropia, del Terzo
settore, e in generale all’interno dell’intero sistema di welfare: anche
questi operatori sono chiamati dalla Direttiva, nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze, a riconoscere (quindi ad ‘accorgersi’) e a
occuparsi delle vittime (v. anche infra § V). Nell’impianto della Direttiva 2012/29/UE, i compiti di tali soggetti, operanti nell’ambito di «qualsiasi
servizio che entri in contatto con le vittime» (cons. 9), concorrono con gli
interventi specifici dei «servizi di assistenza alle vittime» (artt. 8‐9 Dir.), la cui istituzione rappresenta per gli Stati membri dell’Unione Europea un
obbligo (v. infra § V, anche per i rilievi critici concernenti la mancata istituzione, in Italia, di tali servizi). Nondimeno, l’eventuale esistenza di
servizi di assistenza alle vittime non esime gli altri operatori, che a qualsiasi titolo entrino in contatto co le vittime, dal riconoscerle.
Sul versante della giustizia penale, è indispensabile sottolineare come i
principi e le garanzie del giusto processo, inclusi (necessariamente) i
rigorosi standard probatori relativi all’accertamento del fatto e della responsabilità colpevole, servono a protezione dell’innocente e a evitare
l’errore giudiziario. Il procedimento penale è dunque costruito
primariamente attorno alle garanzie per l’accusato, tanto che l’inserzione del ‘tema’ e dell’obiettivo della protezione delle vittime (su cui infra § VI), obiettivo cruciale anche per la Direttiva 2012/29/UE, è fonte di ulteriore complessità e di tensioni non facilmente risolvibili. Infatti, all’interno di questo mai facile bilanciamento con gli interessi e la posizione della vittima, diverse disposizioni della Direttiva fanno salvi i diritti di difesa e le
garanzie a favore della persona cui il fatto è attribuito (cons. 12, artt. 7,
18, 20 e 23).
Il riconoscimento, la protezione e l’assistenza alle vittime di reato al di
fuori del procedimento penale assumono a maggior ragione
un’importanza capitale, perché possono diventare il terreno dove i diritti della vittima possono trovare un’accoglienza più piena o, se vogliamo,
meno condizionata da altri diritti e garanzie non meno rilevanti.
La capacità di riconoscimento delle vittime anche da parte di servizi che
non siano a ciò espressamente deputati è essenziale per individuare
proprio le vittime ‘nascoste’, le quali sono talvolta le più vulnerabili. III.2.1. Il sistema integrato di interventi e servizi sociali (l. 328/2000), il sistema sanitario, il sistema previdenziale e ogni altro sistema o intervento (nazionale, regionale o locale) deputato a fornire, anche con il contributo del Terzo settore, assistenza alle persone in ragione della loro condizione di bisogno, difficoltà, disabilità, minore età, ecc. sono chiamati, nell’ambito ciascuno delle proprie attribuzioni e competenze, ad ‘accorgersi’ della presenza di una vittima, riconoscendola, al di là dei compiti specifici degli eventuali servizi di assistenza a ciò deputati e al di là dei compiti
diversi svolti dal processo penale.
Al di fuori del perimetro del procedimento penale – doverosamente attento alle garanzie dell’indagato e dell’imputato – la Direttiva costruisce uno ‘spazio’ fondamentale in cui offrire, e se del caso garantire, il trattamento rispettoso, il riconoscimento e la considerazione della persona (fisica) che affermi di essere vittima di reato.
Gli artt. 1 cpv., 4, 8 co. 5 e 22 e, fra gli altri, i considerando 9, 19, 26, 34,
37, 38, 55 della Direttiva disegnano i contenuti di questo spazio,
imponendo una serie di doveri a tutti gli operatori che entrino in contatto con ‘vittime di reato’ come sopra individuate. III.2.2. Ogni operatore di «qualsiasi servizio che entri in contatto con le vittime», come definite dalla Direttiva, dovrà attenersi ai principi da questa espressi in relazione a:
► considerazione della persona come vittima, da accordarsi
indipendentemente dall’identificazione, cattura, rinvio a giudizio
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► riconoscimento e trattamento rispettoso, sensibile, personalizzato, professionale, non discriminatorio, i quali sono
dovuti alla persona che afferma di essere vittima in tutti i contatti con servizi di assistenza alle vittime, i servizi sociali e sanitari, i centri di giustizia riparativa o con un’autorità
competente operante nell’ambito di un procedimento penale (art.