• Non ci sono risultati.

I C ASTELBARCO DAL D UECENTO AL Q UATTROCENTO P UNTI FERMI E PROBLEMI APERTI *

Nel documento Studi di storia trentina (pagine 169-200)

1. Premessa

Dopo il 1900, quando un erudito di origine trentina, Rocco Cat- terina, pubblicò un volumetto dedicato ai Signori di Castelbarco,1 nessuno si è più accinto al compito – invero assai arduo – di dedi- care uno studio monografico alla famiglia signorile, che per due secoli ebbe un ruolo decisivo nella storia della Vallagarina (e di Trento). Lo studio del Catterina, che è certo – anche comparativa- mente ai tempi – piuttosto mediocre, fu prontamente recensito con molta (forse troppa) durezza da Giuseppe Gerola, in una nota usci- ta nell’«Archivio Trentino» del 1901, che sin nella sua datazione («da bordo del “Birmania”»: il Gerola si stava recando a Creta, per una delle sue prime esperienze archeologiche) lascia trasparire il vivo interesse che l’erudito trentino portava alla storia castrobar- cense.2 Ma il frutto delle ricerche del Gerola (nel decennio 1900- 1910, e indi con ritmo via via calante nei successivi), fu poi solo una lunga serie di interventi puntuali, su singoli episodi o perso- naggi della storia dei Castelbarco; interventi concepiti con qualche

* Ringrazio Aldo Gorfer per l’amichevole collaborazione. 1 Catterina, I signori di Castelbarco.

2 Gerola, Appunti bibliografici. Il giudizio del Gerola su quello che resta pur

sempre, con tutti i suoi evidentissimi limiti, l’unico tentativo d’insieme di rico- struire la vicenda storica dei Castelbarco, sembra tutto sommato un po’ ingenero- so: tanto più da parte di chi non solo non affrontò mai il problema con lavori di largo respiro, ma si avvalse regolarmente – per la redazione dei suoi ‘frammenti’ – delle ricerche di altri archivisti (Da Re a Verona, soprattutto, e poi Luzio a Man- tova, Segarizzi a Venezia: pur correttamente segnalando i suoi debiti). Per una completa bibliografia degli scritti del Gerola si veda «Archivio Veneto», n.s., 24 (1939), pp. 259-288; inoltre «Studi Trentini di Scienze Storiche», 14 (1933), pp. 103-131 e 19 (1938), pp. 336-338. Non sappiamo a chi si riferisse il Gerola quan- do nel 1905 (Gerola, Frammenti castrobarcensi, IV, p. 93), esprimeva soddisfa- zione per la prossima redazione – da parte di un valido ricercatore, del quale egli tace il nome – di una definitiva sintesi di storia della famiglia Castelbarco: un la- voro che non uscì né allora, né poi. L’ultimo suo scritto in materia, e l’unico di carattere sintetico, sarà la brevissima voce Castelbarco per l’Enciclopedia italiana (1931).

maggior ampiezza allorquando v’erano agganci con la storia delle arti figurative, più vicina agli interessi dello studioso trentino.

Occasionalmente, anche altri nomi ben noti della storiografia locale, come Carlo Ausserer,3 portarono la loro pietra alle ricerche di storia castrobarcense; né è impossibile spigolare nuove notizie, anche di una certa importanza, in lavori o edizioni di fonti succes- sive. La dispersione dell’archivio familiare tuttavia ha sempre co- stituito un ostacolo insormontabile alla ricostruzione di un profilo complessivo. E contrario, viene del resto spontaneo ricordare il ca- so dell’altra grande famiglia signorile del Trentino meridionale, le cui vicende sono così spesso intrecciate con quelle dei Castelbarco: combinando l’uso dell’archivio conservato a Mantova con una gamma vasta di altre fonti, il Waldstein-Wartenberg ha prodotto la nota monografia sui conti d’Arco nel medioevo,4 che – se pure ha un taglio piuttosto tradizionale e non tiene conto, sostanzialmente, del profondo rinnovamento verificatosi negli ultimi decenni nelle ricerche di storia della nobiltà e delle élites in generale, e della si- gnoria rurale (la sua stesura risale del resto agli anni Sessanta- Settanta) – è fondata cionondimeno su solide basi documentarie ed ha una costante apertura al quadro politico complessivo.

Ancor più recentemente, infine, la storia castrobarcense è stata rivisitata per largo tratto – sino ai primi decenni del Trecento, e dunque sino al periodo che viene tradizionalmente considerato il culmine della parabola ascendente della famiglia – dal Riedmann, nella sua vasta opera dedicata alle relazioni fra la dinastia dei conti di Tirolo e Gorizia e l’Italia fino alla morte di Enrico, ultimo figlio di Mainardo II (1335).5 È questa, come ognuno intuisce, una delle prospettive più opportune e feconde dalla quale osservare le vicen- de dei Castelbarco, le cui fortune si giocano proprio sulla posizione di cerniera e di frontiera fra nord e sud, nel territorio della bassa Vallagarina; l’ampia e aggiornata ricostruzione del Riedmann, che apporta anche qualche nuovo dato documentario proveniente dai

3 Nel lavoro utilizzato qui oltre (note 21, 45 e testo corrispondente). La biblio-

grafia più completa sui Castelbarco resta a tutt’oggi, a nostra conoscenza, quella compilata (con accuratezza invero non estrema) da Perini, I Castelbarco feudatari

di Matarello, pp. 16-19; precedono, alle pp. [11-15], cinque tavole genealogiche.

4 Waldstein-Wartenberg, Storia dei conti d’Arco.

5 Riedmann, Die Beziehungen, cui si rinvia qui una tantum, anche per la ricca

registri amministrativi tirolesi, si pone perciò come un punto di ri- ferimento importante, anche per la storia di questa famiglia.

È appena il caso di ricordare qui che la presente ricerca, invece – concepita in funzione dell’inquadramento politico-istituzionale di indagini storico-artistiche e storico-architettoniche –, intende porsi semplicemente come una ripresentazione e un sintetico ripensa- mento di alcune tematiche fondamentali della storia dei Castelbar- co: un ripensamento che dovrà essere approfondito e arricchito, per poter adeguare la storia dei Castelbarco e della Vallagarina al rin- novamento in atto della storia della signoria rurale e dei ceti diri- genti italiani del tardo medioevo. Si intende, a tal fine, sottolineare qui alcune tematiche sinora trascurate dalla storiografia, in partico- lare per quanto riguarda il secolo XIV.

2. Territorio e potere fra Verona e Trento: la costruzione di una

signoria rurale in un’area di confine

a. I Castelbarco nella vassallità episcopale trentina fra XII e

XIII secolo. Briano di Castelbarco e la società veronese

Il Gerola liquidò a suo tempo le leggende erudite sull’origine boema dei Castelbarco; e le vicende della famiglia anteriormente alla seconda metà del secolo XII ci restano del tutto ignote. A quest’epoca, il loro «dinamismo»6 costituiva un problema ulteriore per il principe vescovo di Trento, già impegnato in difficili rapporti con le principali famiglie feudali (i conti di Appiano, di Flavon e soprattutto di Tirolo). E nei limiti imposti dallo stato delle fonti so- no ormai note – liberate grazie alle attente ricerche del Rogger dal- le incrostazioni ideologiche ottocentesche e dalle gratuite illazioni erudite – le vicende che portarono il 20 settembre 1172 ad Arco, ove era stata tentata una pacificazione fra le parti, all’uccisione del vescovo Adelpreto da parte di un Aldrighetto di Castelbarco, che morì poi nel monastero veronese di San Giorgio in Braida. Sin da

6 L’espressione è di Rogger, Vita, morte e miracoli, pp. 360-361 e ss. per

l’intero episodio menzionato nel testo. Per un quadro succinto dei rapporti fra il vescovo di Trento e le famiglie signorili, è sufficiente qui il rinvio a Stella, I prin-

allora si intravvedono dunque rapporti con la città, che resterà per lungo tempo un referente ineliminabile della storia dei Castelbarco. Ma ben maggiore consistenza ed evidenza assumono questi rappor- ti con Briano, figlio di un altro Aldrighetto Castelbarco: quel Bria- no, documentato dal 1192 al 1234, che è giustamente considerato il fondatore della potenza della famiglia. È lui che nel 1198 diviene vassallo di Corrado II di Beseno, vescovo di Trento; che nel 1201 riceve investiture di beni e diritti ad Ala; che nel 1211 è autorizzato a costruire un edificio fortificato a Brentonico. Ma non entra mai «nella ministerialità vera e propria», e «ancora nel 1218 giurava al vescovo ‘sicut ad fidelitatem capitaneorum pertinet [...] et ad nobi- les homines’».7

Due eloquenti, paradigmatiche circostanze ci sembra meritino di esser particolarmente sottolineate, a proposito di Briano Castel- barco. La prima è la nota clausola contenuta nell’investitura del 1198, in forza della quale il vescovo gli vietava di imparentarsi con famiglie della Lombardia o della Marca: una proibizione che è per noi un preciso indicatore della tendenza a cercar legami fuori dell’ambito locale. La seconda è costituita proprio dai rapporti pro- fondi, intimi, che Briano mostra di aver stretto, fra XII e XIII seco- lo, con la società veronese: rapporti che non sono stati forse sotto- lineati abbastanza, per questa fase iniziale della storia castrobar- cense, dagli storici trentini.

Rileggendo le testimonianze rese nel 1203 di fronte a Tebaldo Turrisendi, il miles veronese (e vassallo del vescovo di Trento) eletto arbitro nella controversia fra Briano Castelbarco e Corrado II da Beseno,8 risulta infatti una serie di circostanze estremamente si- gnificative. Briano possedeva intanto una casa in Verona; e dispo- neva in città di relazioni molteplici nell’ambiente dei milites. Zava- risio di Castello, per esempio, gli mostra molta deferenza, e si pre- sta a reclutare per lui uomini armati: «misit pro me et ivi illuc ad loquendum [...] fecit me iurare credenciam sibi, et quando habui

7 Per i noti documenti del 1198 e del 1211 si veda Codex Wangianus 1852, pp.

135 e 226; per quello del 1218, e per la citazione, Rogger, I principati ecclesiasti-

ci, pp. 203-204.

8 Per i mutevoli rapporti fra il vescovo Corrado e Briano da Castelbarco in

questi anni si veda Cipolla, Corrado II, pp. 1-35 (anche per l’edizione del docu- mento analizzato nel testo); inoltre Amadori, Contributo, pp. 469-489; su Briano anche l’importante documento edito da Ghetta, I signori di Castel Barco.

iuratum ipse dixit mihi ut deberem invenire homines et deberem ire secum in Tridentum. Et ego promisi ei XXV homines et inveni il- los XXV homines». Lo stesso autorevole atteggiamento di superio- rità dimostra Briano nei confronti di Carlassario Scanarola, appar- tenente pur esso a una famiglia di un certo prestigio nella Verona comunale («oportet ut servies mihi et multum in te confido: volo ut acquires mihi homines quos potes bene armatos quia oportet mihi servire domino episcopo...»). E del tutto analoghi sono i rapporti tra il Castelbarco e altri veronesi – semplici cives, parecchi dei qua- li residenti nell’Isolo, punto d’approdo preferenziale del legname trentino. Diversi di costoro, oltre a reclutare armati (chi 25, chi 40), avevano personalmente preso parte «in servicio domini Briani de Castelbarco», armati di tutto punto «cum coretis, manicis atque ga<m>beriis et capironibus», a piedi o a cavallo, alla spedizione; né manca un riferimento collettivo agli «homines de Castello», un quartiere veronese ove era particolarmente fitta la presenza di mili-

tes. Trascuriamo qui le importanti notizie che il documento forni- sce circa l’investitura data dal vescovo a Briano di beni e diritti in Ala, sull’esercizio dei diritti pubblici, sui contenuti economici di cui si arricchiva la posizione di Briano in Vallagarina (ad Avio, per esempio, possedeva un magazzino, «poteca»); e anche il contesto politico immediato, con le frizioni fra l’intraprendente dominus e il vescovo, che avevano portato alla controversia arbitrata da Tebaldo Turrisendi. Qui ci interessa soprattutto rimarcare questa forte capa- cità di mobilitazione in un contesto sociale che si potrebbe presu- mere estraneo, e che invece mostra una singolare reattività a inizia- tive militari e politiche che pur sempre si connettevano con i fon- damentali interessi commerciali della città. Questo ruolo di media- zione i Castelbarco non avrebbero più dismesso.

I punti di riferimento, le coordinate all’interno delle quali si muoveranno i Castelbarco nella loro plurisecolare esperienza di si- gnori locali e di milites sono dunque fissate, dalla geografia prima che dalla storia: Trento e Verona, l’ambiente «feudale» di una città ove l’autorità pubblica deriva inevitabilmente dal rapporto con l’episcopio, e l’ambiente più vario e mosso di uno dei più im- portanti centri commerciali e manifatturieri dell’Italia padana. Sull’Adige e dall’Adige, via di commercio di imprescindibile im- portanza per Verona, si giocheranno in città molte fortune persona- li. Ma non solo: tutta la vicenda politico-diplomatica di Verona

comunale e signorile è condizionata in modo preciso dalla necessi- tà di mantenere buoni rapporti con chi controlla l’arteria atesina, una volta dimostrata l’impossibilità o il costo politico troppo alto di un dominio politico diretto. In questa chiave vanno lette le scelte di Ezzelino da Romano, di Alberto I della Scala e dei suoi successori, per i quali i buoni rapporti con chi esercita, a Trento e lungo la via del Brennero, l’effettivo potere politico restano un dogma quasi mai negato.

La ripresa quasi ad verbum, in capo a questo paragrafo, del tito- lo suggestivo di un recente volume del Sergi9 si giustifica in questa sede proprio per l’importanza delle osservazioni di carattere gene- rale che l’autore ha dedicato al rapporto fra ambiente geografico e sviluppi politico-istituzionali in un’area montana, contrassegna- ta dalla presenza di un’importante arteria stradale (e fluviale). Nell’«area di strada» atesina, fra Verona e Trento, il determinismo geografico ha un forte peso: i collegamenti con l’Alto Garda e con il Vicentino, pur importanti, non offrono tracciati alternativi, tali da suscitare una dialettica tra poteri concorrenti. Al contrario, la rendi- ta di posizione di cui gode un potere locale che riesca qui ad affer- marsi è notevole. Ed è in quest’area che giocano abilmente le loro carte, nei primi decenni del Duecento, Briano Castelbarco e poi i suoi figli.

L’inserimento di Briano nella vassallità trentina si era collocato, come è noto, in un complessivo orientamento politico del vescovo Corrado II da Beseno, molto attento ai rapporti con la nobiltà della zona meridionale del distretto trentino. Nello stesso 1198 lo stesso passo è compiuto da Odolrico d’Arco, che giura fedeltà al vescovo, e sono consolidati i rapporti con la potente famiglia veronese dei Turrisendi, cui è confermato il possesso di Ossenigo, in val d’Adige, con implicita licenza di incastellare («quodlibet hedifi- cium quem voluerit hedificare vel quod possit facere hedificari...»). Briano mantenne in seguito buoni rapporti anche con il successore di Corrado, il gran restauratore della autorità episcopale trentina Federico Wanga, che gli permise anzi di costruire un edificio forti- ficato in Brentonico, pur rivendicando probabilmente le proprie

9 Sergi, Potere e territorio, specie pp. 19-24 e 40-41; si veda anche la discus-

sione La «strada di Francia», in particolare il contributo di Gian Giacomo Fissore (pp. 695-702).

prerogative su Ala. In quegli stessi anni, il Castelbarco esigeva «per vim» un dazio su tutte le merci in transito sull’Adige, in navi o in zattere, a Ravazzone: dazio che gli fu negato in un processo del 1222, lasciandogli peraltro la facoltà di esigere, dai non trenti- ni, un nolo per il traghetto delle merci da una riva all’altra. E il ben noto documento del 1218, nel quale compaiono per la prima volta Azzone e Aldrighetto, figli di Briano – in tale occasione emancipa- ti –, conferma l’estensione dell’area sulla quale si esercitava l’in- fluenza dei Castelbarco. È in questa occasione citato un solo castel- lo, quello di Saiori presso Chizzola, del quale Briano investe i figli; ma, con esso, cede loro tutto quello che possiede «in villa de Avio et sua pertinencia» (non si fa menzione del castello), «in villa de Suscignalo et corona de Suscignalo» (presso Mori), a Nago.10 ciò significa, ovviamente, che solo a questi si limitassero beni e di- ritti del potente miles.

b. Con Ezzelino, contro Ezzelino: nelle città e nei castelli laga-

rini

Fra i figli di Briano Castelbarco, quello di gran lunga più in vi- sta, e più esplicitamente compromesso, nel regime ezzeliniano11 affermatosi a Trento dal 1236, a Verona in modo indiscusso dal 1239 – fu senz’altro Azzone. Agli inizi dell’episcopato di Aldri- ghetto da Campo (1232), egli collabora invero a quelle iniziative di nuovo incastellamento (o di incastellamento tout court) con le qua- li il vescovo cercò di procacciarsi e mantenersi la fedeltà dei vas-

10 Bonelli, Notizie, II, pp. 548-551, doc. LXXV per il documento del 1218: dal

testo del quale si deduce con sicurezza l’esistenza del solo castello di Saiori, espressamente menzionato con il dossum e il castellare, mentre per Avio e altre località si parla soltanto di beni e diritti. È difficile pensare che se la concessione di Briano ai figli avesse riguardato anche altri castelli oltre a quello di Saiori essi non sarebbero stati esplicitamente ricordati. L’atto del 1222, edito parzialmente dal Bonelli (Notizie) e dallo Huter (Tiroler Urkundenbuch, I), regestato dal Dossi (Documenta) e dal Dominez (Regesto cronologico), è edito integralmente da Co- radello, Vassallità e rendite, pp. 58-60, n. 25; si trova in ASTn, APV, Sezione la- tina, capsa 37, n. 16.

11 Sul dominio ezzeliniano nel Trentino è ancora valida la ricostruzione di Ce-

sarini Sforza, Ezelino da Romano, cui si rinvia per la citazione dei documenti. Si veda poi, in particolare per Sodegerio di Tito e per un aggiornamento bibliografi- co, Riedmann, Die Übernahme, pp. 148 ss.

salli. Ma nel 1243 lo troviamo testimone a un’importante investitu- ra di Sodegerio da Tito, il plenipotenziario imperiale ed ezzeliniano in Trentino, a Riva. E in quegli stessi anni egli sembra aver gioca- to, nella Verona ezzeliniana, un ruolo notevole, ben maggiore di quello che attestano le fonti trentine. Aveva infatti sposato, prima del 1245, la figlia di un potente capoparte veronese, assai in vista sin dagli anni Trenta, Leonardo Nascinguerra, del quale egli risulta anzi erede; e nel 1245 è lui a stipulare assieme con esponenti dei Monticoli e dei Quattuorviginti (i due partiti veronesi al potere con Ezzelino), alla presenza di Ezzelino e del podestà di Verona, un accordo con una famiglia del contado veronese protagonista di di- sordini e «incursiones». Dei Nascinguerra, attraverso la moglie Panfilia, egli ereditò anche la casa, in contrada di San Biagio; e fu in questo edificio che Ezzelino dimorava ancora nel 1254.12

Si stringevano in quegli anni, sempre più incisivi, i suoi legami con le istituzioni veronesi: dal 1254, quando è arciprete del capito- lo veronese un sostenitore ezzeliniano a denominazione d’origine controllata, Tommasino Dal Verme, gode di una prebenda canoni- cale in Verona uno dei suoi cinque figli, Alberto.13 Costui mantiene peraltro strettissimi rapporti con la famiglia, al punto che il testa- mento di Azzone (1265) lo nomina coerede in modo assolutamente paritetico ai quattro fratelli.14

Sulla scena veronese, i Castelbarco superano egregiamente i ri- schi del passaggio dal regime di Ezzelino a quello delle arti e di Mastino della Scala. Il citato testamento conferma innanzitutto (con l’abbondanza, la varietà, la personalizzazione dei legati pii) il profondo inserimento di Azzone nella società veronese, la minuta conoscenza che egli aveva dell’ambiente locale: sono ricordate non

12 Per tutto ciò: Sandri, Nuovi documenti, pp. 77-78. La notizia, per quanto

proveniente da una tarda cronaca cinquecentesca, è come asserisce il Sandri «at- tendibilissima».

13 Per il capitolo veronese in età ezzeliniana qualche cenno in Varanini, La

chiesa veronese.

14 Gerola, Il testamento di Azzone Castelbarco. All’età ezzeliniana risale an-

che probabilmente il radicamento in Verona di Bonifacio Castelbarco, che risiede nel 1263 nella contrada di San Biagio ed è sposato a Caracosa Lendinara, della illustre famiglia di tradizioni ‘guelfe’ (Gerola, Frammenti castrobarcensi II). Bo- nifacio fu poi podestà di Verona in un anno delicatissimo, il 1269, quello della rivolta contro Mastino e la pars al potere; da lui discese il ramo dei Castelbarco di Rovione (si veda qui sotto, nota 25 e testo corrispondente).

solo le principali fondazioni mendicanti della città, ma anche pic- cole istituzioni monastiche e ospitaliere del contado, del tutto sco- nosciute fuori dell’ambito veronese; mentre in Vallagarina non ab- biamo, oltre ai legati per le fondazioni minoritiche trentine, se non il ricordo per così dire dovuto delle chiese di Santa Maria di Avio, San Pietro di Brentonico, San Cristoforo di Castelbarco. Ma l’aspetto storicamente più interessante di questo documento, come già osservava il suo editore, è la tutela dell’unità del patrimonio familiare «iure fideicommissi» in favore dei figli maschi (compre- so, come si è accennato, il canonico Alberto; escluso invece l’altro figlio Abriano, frater di un ordine imprecisato).

Di altrettanto rilievo è poi, in quegli anni, l’autonoma e spre- giudicata linea di condotta assunta dai Castelbarco nell’area trenti- na: è ben noto infatti come le vicende legate alla caduta del regime ezzeliniano, negli anni 1255-1259, siano state decisive per il con- solidamento della potenza signorile dei Castelbarco, che giocarono benissimo – con due rapidi voltafaccia fra il vescovo Egnone ed Ezzelino – le loro carte. Gli avvenimenti di questi anni non fanno che confermare come il controllo reale del territorio fosse esercita- to, attraverso i castelli e la force de frappe delle masnate signorili, dalla nobiltà, alla cui mercé è in pratica ridotto il vescovo, la re-

Nel documento Studi di storia trentina (pagine 169-200)