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C OMUNITÀ RURALI E CHIESE IN ETÀ MODERNA A PPUNTI E SPUNTI *

Nel documento Studi di storia trentina (pagine 49-71)

1. Le carte d’archivio, le comunità, le chiese

Scorrendo le pagine di quel monumento di erudizione – cono- sciuto da chiunque si accosti alla storia trentina – che è la Guida

storico-archivistica del Trentino di Albino Casetti (un quadro d’insieme certamente datato [risale al 1961] ma ancora di estrema utilità),1 oppure di questo o quello fra i tanti inventari che gli ar- chivisti trentini hanno predisposto nei decenni successivi, è molto frequente constatare – in riferimento a questo a quel villaggio – in- trecci tra la documentazione civile e la documentazione ecclesiasti- ca di età medievale e moderna. In specifico, nella fotografia che il Casetti ci dà del panorama delle fonti – oggi, a quarant’anni di di- stanza, la ‘geografia’ della conservazione della documentazione ecclesiastica trentina è molto cambiata – più spesso sono gli archivi delle parrocchie e delle pievi a contenere materiale delle comunità rurali, che non il contrario. Pergamene dei comuni, capitoli regola- nari e deliberazioni prese in pubblica regola, carte relative a con- tenziosi per gli incolti boschivi o pascolivi figurano – e in molti ca- si certamente da tempi non recenti – fianco a fianco dei registri ca- nonici, o degli scarsi urbari che elencano i beni ecclesiastici.

Sono intrecci che a prima vista appaiono sorprendenti: ai quali non mancano però altri riscontri. Qualche volta, i testi delle carte di regola cinque e seicenteschi attestano infatti in modo esplicito che – secondo prassi del resto antichissime, riscontrabili nei primi tempi (XII-XIII sec.) della vita del comune anche nelle città padane, ove gli statuti e i registri contabili spesso stavano presso i Francescani o gli Umiliati – la chiesa del villaggio funge da archivio e da luogo di sacralizzazione della memoria comunitaria. Ad esempio a Den- no, in val di Non, «tutte le carte instromenti et altre raggioni perti- nenti alla communitade» sono conservate in chiesa, e «siino lette

* Ringrazio Cecilia Nubola per alcune utili indicazioni, che hanno contribuito

a rendere meno azzardata questa escursione in campi di ricerca per me non consueti.

una volta all’anno in publica regola» (1632).2 Anche in una cappel- la dipendente dalla pieve di Mori, nel 1683, «le raggioni della vici- nia» sono collocate nell’edificio sacro, in una cassetta chiusa a chiave, che può essere aperta solo dai giurati o gastaldi del villag- gio;3 qualche volta (come a San Lorenzo in Banale nel 1726) è poi la persona del curato a essere affidataria di documenti importanti come il registro dell’estimo. Un ultimo esempio: a Lavarone, nel 1709, l’inventario dell’archivio comunale è redatto nella canonica, e il primo documento inventariato è relativo all’elezione del curato da parte della comunità.4

Questa commistione archivistica – evidente nel passato, regi- strata dal Casetti, e percepibile ancor oggi – sembra più frequente nel territorio trentino (e forse alpino in generale) che non altrove in Italia. Essa è il segno eloquente di peculiari caratteristiche che as- sume la relazione fra comunità rurali e istituzioni ecclesiastiche lo- cali; ed è appunto a partire da questo dato che intendiamo sviluppa- re in queste pagine alcune riflessioni e presentare alcuni dati, con l’obiettivo specifico di comprender meglio come si atteggino committenza e fruizione dell’arte sacra nel territorio trentino del Seicento e del Settecento. Il tema – è persin ovvio ricordarlo – è assolutamente banale: l’intimo nesso fra l’église et le village (per riprendere il titolo del libro famoso di Le Bras) è un dato scontato per tutte le campagne europee d’età moderna. Ma proprio il territo- rio alpino nel quale la diocesi di Trento è inserita è attualmente al centro di un vivo dibattito storiografico a proposito del rapporto tra comunità e chiese: un dibattito sviluppatosi soprattutto nell’area culturale tedesca e con riferimento peculiare al tardo medioevo pre-tridentino (e pre-riforma, visto che nelle Alpi passa la linea di confine dell’adesione alla riforma). Molte ricerche recenti (sulla Svizzera soprattutto, ma anche sul Tirolo) hanno dedicato infatti attenzione non solo ai diritti di presentazione del parroco esercitati da molte comunità alpine, non solo al controllo operato dai vicini sui patrimoni delle chiese e sulla loro amministrazione (attraverso i fabbricieri eletti dalla comunità, coincidenti con i sindici), ma an- che sulle fondazioni di altari, di chiese, di cappelle, che sono la di-

2 Carte di regola e statuti, 2, p. 601. 3 Nubola, Chiese delle comunità, p. 443. 4 Reich, Notizie e documenti 1910, p. 209.

retta conseguenza di questa fortissima volontà delle comunità mon- tane (e dei gruppi familiari e sociali che le dirigono) di sentire ‘proprie’ tali fondazioni e istituzioni. In questa direzione, partendo anche da precedenti riflessioni del Blickle sulla cosiddetta ‘comu- nalizzazione’ e sul consolidamento politico e istituzionale delle comunità rurali dell’area svizzera e tedesca agli inizi dell’età mo- derna, si è mossa in particolare una ricerca di Rosi Fuhrmann dedi- cata a Kirche und Dorf – ‘chiesa e villaggio’, ancora una volta – nelle regioni poste all’estremo margine settentrionale dell’area al- pina (diocesi di Costanza e Strasburgo), e una successiva ricerca dedicata al territorio, propriamente alpino, dei Grigioni.5 Nell’uno e nell’altro caso le ripercussioni sulla committenza di pale, di alta- ri, di nuove chiese sono ovvie. Certo quello che accadeva fra Quat- tro e Cinquecento in queste regioni non può essere ipso facto acco- stato a quanto si constata nelle vallate due secoli più tardi, in un contesto storico e istituzionale molto diverso, successivo al conci- lio di Trento. Ma il problema è sostanzialmente lo stesso, e come si cercherà di mostrare sono operanti meccanismi analoghi, con un analogo vivo interesse di comunità e famiglie per le proprie chiese. Di conseguenza, non è inutile delineare da un lato le diverse letture che la storiografia dà del rapporto chiesa/comunità nella piena età moderna, e dall’altro qualche elemento di specificità che sembra caratterizzare il ‘caso’ trentino.

Un ‘caso’ che, è opportuno precisare, osserveremo esclusiva- mente nella sua dimensione rurale, trascurando del tutto non solo la città di Trento ma anche le vicende dei centri minori – o quasi città che dir si voglia – come Rovereto, Riva, Arco, Pergine, Borgo Val- sugana.

2. Pievi e chiese curate nella diocesi trentina dal medioevo al

Settecento

Nella diocesi di san Vigilio (alla quale faremo più frequente ri- ferimento, pur non trascurando a priori i dati provenienti dal terri-

5 Fuhrmann, Kirche und Dorf; Saulle Hippenmeyer, Nachbarschaft, Pfarrei

und Gemeinde. Per un ampio quadro storiografico e interpretativo si vedano ora i due saggi di Rando, Ai confini d’Italia e La chiesa e il villaggio.

torio diocesano di Feltre, cui era soggetta come è noto quasi tutta la Valsugana) la rete pastorale delle pievi rurali e delle cappelle si era venuta formando lentamente, nei secoli dell’alto e del pieno me- dioevo, più lentamente di quanto la storiografia tradizionale non voglia credere. Essa appare tuttavia, a partire dal Due-Trecento, connotata da una forte stabilità. Non vi si riscontra infatti quel pro- gressivo frazionamento dei territori pievani che contraddistingue nel Trecento e nel Quattrocento le diocesi dell’Italia padana, ove la geografia ecclesiastica reagisce al modificarsi degli insediamenti e all’andamento demografico (riassumibili nella crisi 1350-1450 – «il secolo dell’uomo raro» – e nella successiva lunga ripresa). «Non fu solo la terminologia a rimanere a lungo rigida o indiffe- renziata (tanto che parochia continuò a essere sentito come sino- nimo di plebs), ma furono gli stessi legami tra pievi e cappelle a rimanere saldi e vitali».6 Il confronto tra la rete delle pievi pazien- temente ricostruita da Emanuele Curzel per il Duecento e la ‘foto- grafia’ data dalla visita pastorale clesiana del 15377 mostra che non s’erano aggiunte che una decina di chiese curate emancipatesi dalle pievi (la maggior parte delle quali in Vallagarina e dintorni);8 e so- lo tre o quattro in più mezzo secolo dopo, al tempo di Ludovico Madruzzo (1579-1581). L’assetto di fondo si mantenne ancora a lungo, al punto che «dal 1300 fino al 1785 [...] il Trentino non fu dotato che di otto sole nuove parrocchie, neppure due per ogni se- colo, e dieci altre furono poi istituite dal 1785 al 1900»9 fino al

boom numerico delle nuove parrocchie del ventesimo secolo. Al di sotto di questa quasi immobile impalcatura, tuttavia, si veniva via via assestando, come si è accennato, durante l’età mo- derna, il sistema delle chiese curate, dipendenti dalle pievi in modo formale (come riconoscimento della superiorità gerarchica dell’ar- ciprete) e anche sostanziale (per la liturgia del triduo pasquale); ma tuttavia autonome per l’ordinaria amministrazione della cura d’ani- me.10 Fu un processo di lunghissimo periodo, fatto talvolta di taciti e fisiologici distacchi, talaltra di aspri contrasti, che già nel Quat-

6 Curzel, Le pievi trentine, p. 96. 7 Cristoforetti, La visita pastorale. 8 Varanini, Le istituzioni ecclesiastiche.

9 Weber, Le antiche e nuove parrocchie, p. 36; citazione tratta da Curzel, Le

pievi trentine, p. 96.

trocento aveva sollecitato la gerarchia a interventi non sistematici ma talora incisivi.

In sostanza, anche le vallate trentine seguirono la dinamica ge- nerale che caratterizza tutte le campagne europee: venne modifi- candosi nella direzione di una maggiore intensità e puntualità la mappa delle presenze del clero curato sul territorio, e si rispose al bisogno delle comunità rurali di avere a disposizione, stabilmente, un ‘funzionario del sacro’, un rassicurante amministratore che ac- compagnasse attraverso i segni della liturgia sacramentale i mo- menti fondamentali dell’esistenza: la nascita, la morte, lo scorrere delle stagioni. Ma questo sviluppo fu nella diocesi trentina partico- larmente lento, e il segmento sei-settecentesco del processo è carat- terizzato da una sostanziale staticità sotto il profilo dell’inquadra- mento istituzionale. Per certi aspetti ciò acuisce i problemi e le ten- sioni percepibili nel medio periodo dalle fonti: ove si canalizza il bisogno di affermazione della propria identità (e di sacralizzazione della stessa) che anima la comunità rurale, e gli amministratori che ne interpretano le esigenze di fondo? ove si orienta la sua potenzia- le committenza? verso la singola, familiare, vicina, quotidiana chiesa curata, oppure verso la pieve matrice, ‘sentita’ come realtà identitaria? E attraverso quali contrasti con il proprio clero e con il clero della pieve rurale? E ancora: c’è piena coesione, riguardo a questi obiettivi, nella comunità rurale? tutto avviene sempre cum

concordia populi? oppure obiettivi di prestigio di famiglia, di con- fraternita, di contrada si intersecano e si sovrappongono alla volon- tà comunitaria? Su questi temi si fronteggiano infatti nella storio- grafia attuale due categorie interpretative principali. La prima è quella – da tempo consolidata – del ‘disciplinamento’, dello sforzo da parte della gerarchia ecclesiastica di orientare la società (e in particolare la società rurale) a comportamenti conformi ai canoni di una regolata e uniforme moralità e al rispetto di norme oggettiva- mente definite.11 Questo sforzo viene compiuto in una congiuntura nella quale, a partire dalla fine del medioevo e lungo tutto il Cin- quecento, le comunità rurali e in particolare quelle delle regioni al- pine (dal Tirolo al principato vescovile di Trento, dall’Austria ai cantoni della Svizzera) sviluppano peculiari tendenze e forme di

11 Per un inquadramento di questa tematica vastissima basti qui rinviare a Nic-

‘autogoverno’ ecclesiastico (ad esempio attraverso i giuspatronati), al punto che si è parlato di «comunalizzazione della chiesa»: ed è questa una seconda chiave di lettura che privilegia un punto di vi- sta per così dire dal basso.12

Agli interrogativi sopra esposti tenteremo di rispondere breve- mente qui di seguito tenendo conto di ambedue queste aspettative, e prestando attenzione non soltanto all’edificio chiesastico in senso stretto, ma allo spazio sacro nella sua accezione più comprensiva, comprendente anche la sacrestia, il sagrato, il cimitero.

3. Lo spazio sacro, un campo di tensioni: le scelte del clero Una pista di ricerca molto importante, per quello che riguarda gli spazi sacri del mondo rurale d’età moderna e la loro utilizzazio- ne da parte del clero e delle comunità, è ovviamente quella sottesa all’utilizzazione sistematica dei verbali delle visite pastorali. Da molti decenni ormai la storiografia dedica una grande attenzione a questo peculiare adempimento episcopale e all’abbondante docu- mentazione che ne deriva, non di rado con attenzione prevalente al Cinquecento (anche per il contesto trentino).13 Molti studi hanno mostrato il profondo rinnovamento (pre- e post-tridentino) di que- sta antica pratica, che si emancipa via via dal giuridicismo e dal formalismo di non poche esperienze tardo-medievali e diviene spesso veicolo efficace della nuova pastorale ‘disciplinante’. Que- sto obiettivo è perseguito attraverso una serie complessa di strate- gie che passa attraverso l’istruzione dei fedeli, l’introduzione di nuovi culti, la repressione degli abusi, e molto altro ancora.

Per ciò che concerne gli edifici ecclesiastici, l’attenzione dei vi- sitatori è quanto mai analitica: se ne controlla non solo la condizio- ne strutturale ma anche la distribuzione degli spazi interni, seguen- do una precisa gerarchia di valori, connessa alle opzioni teologiche ed ecclesiologiche di fondo (importanza dell’altare maggiore, sua coincidenza o contiguità col tabernacolo; ubicazione dei manufatti destinati alla conservazione o all’uso degli altri segni sacramentali – il fonte per l’acqua, il deposito degli olii; la distinzione degli spa-

12 Nubola, Giuspatronati popolari, specie pp. 393-396.

zi clericali da quelli laicali; l’arredamento e la dignità degli altari). Il miglioramento di quella che potremmo complessivamente defini- re (e che è talvolta definita nelle fonti) la ‘suppellettile ecclesiasti- ca’ è parte integrante e conseguenza delle scelte di fondo, e si con- cretizza nel decoro richiesto alle pale d’altare, nelle scelte icono- grafiche (che comportano spesso la cancellazione di affreschi pre- cedenti o la rimozione di statue o quadri), nella costruzione di con- fessionali e via dicendo.

A proposito della diocesi trentina, sulla base delle ricerche della Nubola,14 si può dire che la seconda metà del Cinquecento e l’inizio del Seicento coincidono per gli edifici sacri delle valli tren- tine con una fase di lunga transizione verso un minimo comune de- nominatore di ‘decoro’ e di pulizia: un traguardo solo apparente- mente minimale, se si tiene conto della realtà di «povertà, incuria, sporcizia, abbandono» che coinvolgeva nel Cinquecento molti edi- fici ecclesiastici; e non solo chiese campestri, ma anche chiese cu- rate. Sgomberare le chiese da oggetti incongrui (attrezzi rurali, bot- ti...) ed evitare presenze improprie (le grate per tener fuori gli uc- celli... le porte per tener fuori le bestie dai sagrati e non solo dai sagrati... i tanti altari collocati ancora a Seicento inoltrato e oltre «in medio templi»...) è per i vescovi e per i loro visitatori un obiet- tivo importante, del quale è necessario rendere il clero curato con- sapevole e corresponsabile. Tale opera di rimozione pone le pre- messe per una nuova e diversa sacralizzazione dello spazio, ripro- gettato in modo decoroso e talvolta ricco.

Lo si fa promuovendo anche in positivo nuove e uniformi con- fraternite, nuove società devote, nuovi culti: ‘organizzando’ in- somma la presenza dei laici. Le conseguenze sullo spazio sacro si vedono sia in positivo (diffusione dei confessionali, diversa e più opportuna dislocazione dei banchi, separazione fisica degli ambiti clericali dagli ambiti usufruibili dai laici all’interno della chiesa) sia in negativo, nel senso che sottolineano il bisogno di nuove strutture (in particolare per quello che riguarda gli altari, e in pri-

mis l’altare maggiore, anche per la collocazione dell’Eucarestia) e in generale lasciano spazio per i nuovi altari della nuova ‘discipli- nata’ committenza.

In questo contesto, il clero – curato e non curato –, quel clero che la gerarchia si sforza a ogni costo di distinguere dal laicato quanto a comportamenti, moralità, abito, ha un suo ruolo attivo, che non dipende solo dalla condivisione o dall’assecondamento del progetto episcopale. È soprattutto schedando informate compila- zioni come quella del Weber sulle chiese della val di Non e della val di Sole «nella storia e nell’arte»15 – compilazioni che consento- no una visione comparativa e panoramica, e che si basano per giun- ta, oltre che sulle visite pastorali, anche su altre fonti e su una co- noscenza minutissima del territorio, percorso palmo a palmo – che si resta colpiti dal gran numero di ecclesiastici trentini che nel Sei- cento e Settecento fondano benefici, dotano altari, promuovono co- struzioni o ricostruzioni, donano suppellettili sacre. E se gli effetti benefici degli stock di messe che vengono celebrate non sono visi- bili (nel senso che esse danno frutti soprannaturali), è raro che que- ste iniziative non si manifestino, in un modo o nell’altro, anche in segni duraturi all’interno dell’edificio (un’epigrafe, un altare la cui denominazione corrente rinviava al fondatore o alla sua famiglia, e spesso anche un ritratto: la tavola o la tela effigianti un prete).

Dando per scontate le dimensioni del fenomeno (a Cles, dei 15 benefici fondati nella chiesa arcipretale fra il 1638 e il 1778, ben 4 sono dovuti a preti;16 ricche di fondazioni dovute alla pietà dei sa- cerdoti sono le pievi di San Floriano di Brez17 o di San Pietro di Mezzolombardo; ecc.), interessano qui soprattutto le motivazioni che stanno alle spalle di queste iniziative: motivazioni varie, e inte- ressanti. In parecchi casi si tratta di ecclesiastici attivi in sedi lon- tane da quella d’origine, spessissimo in altre diocesi (d’oltralpe o in Italia), che vogliono lasciare duratura memoria in patria. Basti qualche nome: un Giacomo Borghesi da Cles, pievano di Terlano, che fonda e dota la chiesa della Madonna delle Grazie nel borgo noneso; don Ludovico Moggio che fonda un altare a San Vigilio di Cles; o ancora Giovanni Paolo Tigrani di Presson, canonico di Ti- rano in Valtellina, che fonda un beneficio al suo paese; o infine Giuseppe Cles canonico di Passau che fa esporre il suo ritratto in

15 Sul Weber (del quale si veda anche Weber, Artisti trentini) si rinvia a Cic-

colini, Mons. Simone Weber, pp. 292-316.

16 Weber, Le chiese della Val di Non, 2, pp. 19-20. 17 Weber, Le chiese della Val di Non, 2, p. 130.

una delle chiese del borgo dal quale la sua famiglia traeva il nome. Questa committenza si fa vedere anche nelle località più isolate e sperdute della val di Sole e delle sue laterali: basterà citare Vigilio Vescovi di Vermiglio, protonotario apostolico e decano del deca- nato dell’Adige, che fonda un altare nella chiesa del suo paese (1666).18 In altri casi, al contrario, un prete in cura d’anime deside- ra lasciare negli edifici affidatigli un segno duraturo della propria permanenza, che è talvolta pluridecennale, anche se fino al Seicen- to il dato di una stabile residenza non è così scontato. A Cavedine, per esempio, ciò accade nel pieno Seicento: solo allora c’è, per la prima volta, un curatore d’anime effettivamente residente.19

L’affezione al paese natale, dunque, e l’affezione alla chiesa presso la quale si è a lungo operato. Con queste due motivazioni riconducibili all’‘autocoscienza di ceto’ del clero si incrocia poi il terzo fattore della committenza ecclesiastica di altari o d’altre ope- re. Il clero trentino è molto numeroso, nella seconda metà del Sei- cento e soprattutto nel Settecento (un periodo per il quale si è par- lato di «sovrappopolamento clericale»);20 e ciò dipende anche dal ‘peso’ dell’aristocrazia e delle élites locali, che attraverso il rappor- to preferenziale con la curia trentina (quando non con quella roma- na, almeno in alcuni casi) trova poi il modo di far rifluire nel mi- crocosmo locale questo peso e questa influenza, collocando propri esponenti nelle istituzioni ecclesiastiche. Ad esempio, in una co- munità di modeste dimensioni (circa 700 abitanti) come Volano in Vallagarina, ai primi del Settecento, sono presenti (perché ivi radi- cati, o nativi) ben 17 ecclesiastici, appartenenti in larga misura a note (e talvolta eminenti) famiglie del luogo (Gioseffi, Consolati, Tovazzi).21 In qualche caso (come da parte dei Gioseffi), istituendo il beneficio si ha cura di precisare che «per la celebrazione delle messe siano preferiti i sacerdoti della sua casa». E non è certo sor- prendente che più d’uno tra costoro lasci poi visibile traccia di sé a San Rocco, nella parrocchiale di Santa Maria e nelle chiese del ter- ritorio.

18 Weber, Le chiese della Val di Sole, p. 26.

19 I duecento anni della chiesa arcipretale di Cavedine, pp. 37 ss.

20 Donati, Ecclesiastici e laici, p. 15. La valutazione era soprattutto riferita al

mondo urbano.

Lo spazio della chiesa, il suo decoro e la sua decorazione, è dunque oggetto in larga misura della attenzione di un clero spinto da motivazioni personali e da un’autocoscienza di ceto e di ‘cor-

Nel documento Studi di storia trentina (pagine 49-71)