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L’attivismo patriottico per l’azione in uno stato di polizia

I tentativi di azione in senso « italiano » tra il 1853 e il

3.2 L’attivismo patriottico per l’azione in uno stato di polizia

Pur tra mille difficoltà i patrioti portarono avanti in questi anni un importante lavoro di propaganda e di proselitismo in senso democratico ed unitario in tutta l’isola, soprattutto tra i giovani, volto ad organizzare forze in armi, a mantener caldi gli animi, a raccogliere fondi, piazzando le cedole del credito mazziniano e raccogliendo sottoscrizioni. Il governo borbonico era a conoscenza che la Sicilia, “dipinta dai fuorusciti come fremente e vicina a irrompere”, era considerata dal Mazzini “il punto più propizio per fare leva in Italia” e che da Londra erano stati inviati “emissari per rannodare le relazioni settarie, preordinare i moti insurrezionali e determinare i modi, i mezzi e il tempo”362. Che la tensione fosse 362 ASCT, Misc. ris., b. 32, fasc. III, doc. 2, ministeriale n. 1593, dal luogotenente all’intendente

alta in tutto il territorio isolano fu confermato dagli eventi. La polizia, infiltrando suoi agenti tra i patrioti, riusciva all’inizio del 1853, ancor prima del fallimentare tentativo rivoluzionario mazziniano a Milano del 6 febbraio, a sventare una cospirazione, colpendo pesantemente l’organizzazione con numerosi arresti a Cefalù , Palermo, Cerda e Piano dei Greci363. Il governo era stato avvertito che dal

comitato rivoluzionario di Londra erano state spedite due navi cariche di armi dirette nella penisola italiana e che, probabilmente, parte di queste armi dovevano “introdursi in Sicilia”; bisognava per questo “raddoppiare di zelo e di operosità”364.

A Catania il commissario Di Silvestri, cui era stato riferito di “voci sediziose” sentite in città, avviò una caccia serrata per fermare preventivamente coloro che erano considerati “agitatori politici”365; in gennaio vennero arrestati diciassette

“demagoghi”, ma la mancanza di prove concrete costrinse l’intendente in aprile a chiedere alla luogotenenza il consenso alla messa in libertà dei detenuti. Satriano rispondeva indignato:

[…]Questa considerazione è grave e l’equità impone che si rivenga su d’una misura adottata senza coscienza di causa. Ma ciò rivela che i colpi dalla polizia non furono bene aggiustati, che si agì alla cieca e si diede alla demagogia la pruova che l’autorità locale ignora i veri nemici della Stato. Ella valuterà quanto siano di peso queste mie osservazioni nella opinione pubblica, e quanto faccia questo procedere scapitare il potere tutelare della polizia[…]366

L’indignazione trovava sua giustificazione nella scoperta di “intrighi demagogici” tra Palermo, Messina e Catania. Pur colpiti dagli arresti l’organizzazione cospirativa palermitana avevano deciso di dar comunque “moto alla macchina” rivoluzionaria. I patrioti palermitani per avere le idee più chiare sulla reale situazione in quelle città avevano inviato, verso la metà del mese di marzo, un

363 Cfr. A. Sansone, Cospirazioni e rivolte.., cit., pp. 53-55

364 ASCT, Misc. ris., b. 33, fasc. III, doc. 54, ministeriale n. 422, dal luogotenente all’intendente

di Catania , Palermo 15 marzo 1853

365 ASCT, Misc. ris., b. 33, fasc. I, doc. 330-331, rapporto n. 643, dal commissario di polizia Di

Silvestri all’intendente di Catania, Catania 13 gennaio 1853

366 ASCT, Int. borb., b. 3305, ministeriale n. 840, dal luogotenente all’intendente di

loro uomo, fornito di segni di riconoscimento e lettere, ignorando però che il prescelto fosse un agente borbonico. I patrioti messinesi avevano confessato al messo palermitano che lo “spirito rivoluzionario era sempre vivo e numeroso il partito per la causa italiana”, ma che gli avvenimenti milanesi avevano influito negativamente sulla possibilità di avviare un “generale insorgimento” 367; i membri

del comitato di Catania pur manifestando una certa sfiducia nei confronti delle iniziative palermitane, avevano riferito di essere pronti a seguire movimenti in senso italiano. Al comitato di Palermo il messo consegnava la lettera dei fratelli catanesi, nella quale si leggeva:

Fratelli

Ho ricevuto la vostra dalla quale tutto compresi, ma siccome lo stato attuale non richiede che noi seguissimo una rivoluzione parziale in Sicilia, le nostre intenzioni sono ( non meno quelle delle provincie contigue alla nostra) di seguire un movimento italiano, quindi vi preghiamo a tutta possa di non far movimento di sorta alcuna, di tenervi uniti per quando sarà l’ora, ch’è il segnale d’una rivoluzione in Italia per quindi seguire il movimento italiano, che sarà Europeo. Non v’illudete di protezione di Potenze estere, ciò non sono che chimere, il vostro latore v’istruirà d’avvantaggio sulle vostre risoluzioni prese a questo riguardo. Fate che si spedisca un messo in Malta recando seco le nostre lettere in quest’ultima dirette, dalle quali possiamo avere più esatte istruzioni.368

Tale lettera aveva allarmato il governo borbonico e costretto il luogotenente a ribadire alle autorità catanesi l’importanza di sorvegliare la “demagogia”. Specificatamente furono chiesti attenti controlli sul gabinetto di lettura diretto dal sig. Fanoy, essendo quest’ultimo noto come luogo dove convenivano persone che potevano essere considerate di “tristi opinioni politiche” e dove spesso si tenevano “dei parlari sediziosi”369. Gli arresti eseguiti in tutte le province consentono di

considerare l’attività cospirativa, svolta in questa fase dai patrioti democratici

367 ASPA, Min. affari di Sicilia – polizia, f. 1233, fasc. 2°, officio n. 690, dal luogotenente al

ministro per gli affari di Sicilia in Napoli, Palermo 8 aprile 1853

368 ASPA, Min. affari di Sicilia – polizia, f. 1233, fasc. 2°, doc. 146, lettera dei fratelli catanesi

del 31 marzo 1853 consegnata alla polizia borbonica dal messo.

369 ASCT, Misc. ris., b. 7, fasc. I, doc. 66 ministeriale, dal luogotenente all’intendente di Catania,

Palermo 5 aprile 1853. Il gabinetto di lettura era stato aperto nel novembre del 1846 in un locale attiguo a quello del caffè dei civili, in via Stesicorea, dal sig. Ettore Fanoy , fiorentino, il quale per il suo progetto aveva chiesto consigli direttamente a Gian Pietro Vieusseux . Per approfondimenti si veda A. Signorelli, A teatro, al circolo…,cit., pp.197- 208

isolani, se non segnatamente di rete, sicuramente orientata dalla volontà di azione concertata al fine di superare la dimensione locale dell’iniziativa insurrezionale. Anche in altre province si ebbero numerosi arresti. Nella provincia di Siracusa, in particolare a Vittoria e Comiso, vennero colti quegli elementi che sin dal 1851 si erano prodigati, istituendo in quei comuni dei comitati in stretta relazione con il comitato palermitano e con quello provinciale di Siracusa, oltre che con patrioti esuli a Malta370. Una cospirazione veniva ancora sventata in ottobre a Regalbuto,

grazie alla dichiarazione, resa da un ecclesiastico, sulla base di quanto aveva appreso da un penitente durante la confessione, circa dei disordini che dovevano colpire il paese. Le indagini condotte dalla polizia sul caso fecero emergere una cospirazione politica collegata a Messina, Palermo e Trapani e avente come centro propulsivo Leonforte, luogo prescelto per nascondere le armi e le munizioni da utilizzare nell’ora della rivolta. I cospiratori di Regalbuto avevano attiva corrispondenza epistolare con la famiglia Pracanica di Messina. Durante l’istruzione del processo si rilevarono ulteriori legami dei patrioti di quel comune con i fratelli di Catania e di Adernò.

Gli interventi repressivi del governo non riuscirono, comunque, a bloccare l’attivismo patriottico, che continuò a trovare al suo interno elementi di rigenerazione e di rinnovamento. Il fallimento dei tentativi mazziniani avevano influito negativamente, ma nuove speranze venivano fornite all’isola dal Kossuth, il quale era convinto della possibilità di legare il destino della Sicilia al movimento del comitato europeo. Rosolino Pilo fu invitato a stabilire un collegamento tra quest’ultimo e i fratelli siciliani. Si decise insieme al Fabrizi e, pare, con parere favorevole del Mazzini, di inviare in Sicilia un emissario autorevole che potesse agevolare l’azione. L’agente borbonico, infiltrato nel gruppo del Fabrizi a Malta, confermava questa pressione mazziniana orientata ad incitare i partiti italiani. La prospettiva, che sembrava profilarsi all’orizzonte, di

370 Cfr. F. Stanganelli, Una congiura mazziniana a Vittoria e Comiso: da un processo inedito

contro i liberali siciliani nel 1853-54, in «Archivio Storico per la Sicilia orientale» anno XIX,

un attacco dell’Austria alla Russia avrebbe potuto agevolare, per il Maestro, un “movimento italiano”. Perciò Mazzini diramava diverse lettere, che invitavano all’accordo tutti i partiti italiani per l’azione, per realizzare un programma comune, basato su una “parola d’ordine, da cacciarsi per ogni dove” e una “raccolta di mezzi” a favore di un moto interno.

Esemplari della lettera “dell’agitatore Giuseppe Mazzini sull’accordo dei partiti italiani per l’azione” (appendice doc. n.22), incitante “i popoli all’insurrezione”, erano pervenuti anche nelle mani del governo napoletano371.

Mazzini, con l’aiuto di Pilo e Crispi, aveva cercato di avvicinarsi a gruppi di autorevoli democratici meridionali e una sua possibile venuta al Sud fu molto temuta dalle autorità borboniche372. Nel contesto di tale nuovo slancio cospirativo

rientrava l’incontro a Londra tra Mazzini e Garibaldi, il quale si sarebbe poi recato a Genova373. L’idea era di inviare nel regno meridionale una guida autorevole,

capace di facilitare un movimento, ma Garibaldi rifiutò.

La cospirazione isolana instancabilmente lavorava mantenendo vivi i collegamenti interni e con l’estero, in particolare con Genova e il Comitato d’azione. A Malta, intanto, il gruppo di Pasquale Calvi, antagonista del comitato del Fabrizi, preparava, forse seguendo le ultime direttive mazziniane, una spedizione in Sicilia, disapprovata da molta parte dell’emigrazione. Da ciò che Antonino Pracanica scriveva da Marsiglia a Pilo alla fine di novembre del 1853, si intuisce la preoccupazione per ciò che due compagni, residenti a Malta, gli avevano riferito sull’agire della “setta Calvi e compagni”, i quali affermavano di aver avuto “dal nostro sig. Mazzini l’incarico di far un movimento in Sicilia, apprestandogli ogni soccorso, armi, ecc. Come tali, cotesti signori hanno diggià

371 ASCT, Misc. ris., busta 34, fasc. III, doc. 6 Circolare, dall’intendente di Catania al

sottintendente del distretto di Caltagirone , Catania 19 maggio 1854

372 E. De Marco, La Sicilia nel decennio…, cit., p. 45, Ministeriale n. 1487 del 17 ottobre 1854 da

Maniscalco all’intendente di Catania. Segretissimi rapporti giunti a Napoli fecero sospettare le autorità che Mazzini fosse diretto in Sicilia, perciò Maniscalco si affrettò a darne comunicazione a tutti gli Intendenti.

373 ASPA, Min. affari di Sicilia – polizia, f. 1190, fasc. 19, rapporto, dall’agente borbonico in

Malta al direttore di polizia in Palermo, Malta 12 maggio 1854 e lettera in stampa del Mazzini del 28 marzo 1854

spedito cinque emissari, fra i quali v’e il celebre Pellegrino ed un certo Patti, trapanesi, di cui ignoro la morale”374. Lo scetticismo sull’impresa dei Calvisti era

espressa da molti. Il Bagnasco scriveva a Pilo, in data 12 dicembre 1853, di temere il movimento dei Calvisti perché il “mettere su sopra un paese” poteva far “indignare tutta l’Isola” contro il partito democratico; lo preoccupava che Calvi potesse divenire “dominatore della sorte del paese” e chiedeva a Pilo di sventare ogni cosa. Pare che la spedizione del Calvi fosse stata fissata per i 1° dicembre del 1853 e consisteva in un tentativo insurrezionale, con l’invio di Luigi Pellegrino insieme al Patti, al messinese Francesco Savona e altri due elementi, a Trapani, dove poi sarebbero dovuti arrivare armi e aiuti da Malta. Pare che il Pellegrino, anziché giungere a Trapani, si sia recato a Tunisi attendendo da lì il sollevamento degli isolani. Le iniziative del Calvi, condotte tra la fine del 1853 e il maggio 1854, furono tutte fallimentari. La più nota, quella che produsse l’arresto dei due patrioti siciliani Giovanni Interdonato e Giuseppe Scarparia, quasi subito dopo lo sbarco nella costa ionica, nelle vicinanze di Roccalumera, era stata minata dal proficuo lavoro svolto dall’agente borbonico in Malta, il quale aveva dato preavviso della spedizione al direttore di polizia, non meno dalla stessa organizzazione democratica vicina al Fabrizi. I fratelli in patria non erano stati informati del progetto e seppero dello sbarco dei compatrioti solo dopo il loro arresto.

Il messinese Savona, che era ritornato deluso dalla partecipazione alla spedizione capeggiata dal Pellegrino, si era rivolto a Onofrio Giuliano, uno dei più autorevoli cospiratori dell’isola, tenuto in gran considerazione anche da Pilo. Il Savona confidò al Giuliano che Calvi aveva intenzione di ritentare una spedizione in Sicilia. Savona, in cerca di collaboratori, scelse Giuseppe Scarparia, da Castelvetrano, poiché costui era desideroso di rientrare nell’Isola, dalla quale era stato bandito dal 1850375. Intanto, continuando i preparativi, Giuliano dalla Sicilia

metteva Savona in contatto con Fabrizi, il quale avrebbe potuto agevolare

374Citata in E. Casanova, Lo sbarco di Roccalumera,cit., p.264

375 Ministeriale n. 323, Palermo 26 ottobre 1850, dal Luogotenente Generale Satriano

l’azione con gli aiuti economici necessari per avviare la spedizione. Ma Fabrizi più che offrire mezzi inviò delle istruzione, redatte il 17 maggio 1854, per la spedizione dell’emissario prevista per il 20 maggio. Le istruzioni del Fabrizi non furono preparate solo per Savona e Giuliano, furono spedite anche al suddito inglese Vincenzo Fenech. Dalle Istruzioni, che il Casanova riporta integralmente dalla bozza originale autografa di Nicola Fabrizi, si possono ricavare nettamente le ragioni della missione, i sentimenti che la ispirarono376. Il Fabrizi accennava

alla missione come legata al tentativo nell’Italia settentrionale. Questo atteggiamento del Fabrizi può sembrarci coerente se si considera entro il complesso delle nuove prospettive che il Mazzini delineava dopo il 6 febbraio 1853 e che giustificherebbero il primo e il secondo tentativo in Lunigiana (settembre 1853 e maggio 1854) e il tentativo dell’agosto del 1854 in Valtellina; tali tentativi per il Mazzini dovevano essere “le scintille iniziatrici dell’incendio generale”377. La Sicilia per le condizioni in cui versava e per le potenzialità

insurrezionali in essa presente, come più volte avrebbe ripetuto Rosalino Pilo, non chiedeva parole, ma necessitava piuttosto di fatti: non prediche bisognava inviare, ma mezzi e aiuti per fare l’insurrezione. Quelli del Fabrizi rimasero solo parole, parole che per altro Savona non ebbe nemmeno la possibilità di leggere, ma solo d’ascoltare per bocca di un intermediario. Per questo, ancora alla ricerca di mezzi Savona e Scarparia cedettero alle insistenze che da Calvi giungevano attraverso l’amico Interdonato. Savona e Scarparia parteciparono alle adunanze che si tennero a casa del Calvi e seguirono poi la progettazione che prevedeva il noleggio di una speronara per tre viaggi: il primo per portare Savona e Scarparia in Messina, il secondo per altri individui da sbarcare, il terzo per portare armi e munizioni. La notizia dei preparativi di Calvi giunsero al Fabrizi, il quale disapprovava non solo Calvi, ma anche i suoi tentativi, spesso incauti, di

376Istruzioni per una missione d’informazione e di riconoscenza locale in Sicilia, in E. Casanova,

Lo sbarco di Roccalumera - documenti, in «Archivio Storico Siciliano», nuova serie, anno XLIX,

Palermo,1928, pp. 301-311

377 F. Della Peruta, La spedizione dei mille nella prospettiva dell’«iniziativa meridionale», in

sollevazione. La presenza nella spedizione di Giovanni Interdonato fu fortemente voluta dal Calvi, ma era osteggiata dal Fabrizi e dai suoi sostenitori. Lo stesso Savona tentò in tutti i modi di convincere Calvi a non lasciarlo partire per la missione. Savona interpellò direttamente Interdonato invitandolo a mantenere la promessa di non partire; la risposta dell’amico fu: “non potere in tutto su me fidare”. Quando dichiarato dall’Interdonato conduceva il Savona a rinunciare all’impresa. Nella notte tra il 19 e il 20 maggio Giovanni Interdonato378 e

Giuseppe Scarparia partivano da Malta sulla speronara di padron Scichilone Pisani alla volta del litorale messinese “colle magre e inadatte istruzioni del Calvi, controfirmate dal vecchio Giuliano, con un solo incerto recapito e dubbie accoglienze, ignari di quel che veramente si fosse dal Savona e dal Fabrizi combinato con gli amici di Messina, a loro sconosciuti, e del punto preciso e dei segnali per lo sbarco”379.

I preparativi e la partenza non furono coperti dalla segretezza richiesta da una spedizione del genere, tant’è che, in data 30 maggio, giungeva all’Intendente di Catania una ministeriale firmata dal Maniscalco in cui si legge:

Signore

Questa polizia nei decorsi giorni venia in conoscenza che il 19 spirante una speronara di bandiera inglese di Pr. Scicolone Pisani muovea da Malta e recava per disbarcare in una spiaggia di Messina i tre fuorusciti a manca scritti [Giovanni Interdonato di Roccalumera di anni 55,statura regolare, capelli e barba castagni, occhi cerulei, naso aquilino, fronte regolare, carnagione bianca. Giuseppe Scarparia da Castelvetrano, di anni 26, statura alta, capelli neri, senza barba, occhi neri, naso aquilino, poco rosso, carnagione pallida. Francesco Savona] coll’intendimento di predisporre uno sbarco che dovrebbe aver luogo fra non molto di un gran numero di emigrati in armi per sollevare le popolazioni e dar moto al tanto promesso insorgimento italiano…380

378 Il Giovanni Interdonato che partecipa alla spedizione non va confuso con il cugino omonimo, il

famoso avvocato , membro del Comitato di Genova e prima ancora membro designato dal Comitato Centrale siciliano quale rappresentante presso il Comitato Nazionale a Londra. Anche quest’ultimo fu amico del Calvi, ma non vi collaborò così strettamente come il cugino che fu un ardente patriota, uomo d’azione e, più avanti, colonnello Garibaldino. Si veda in proposito E. Casanova, Lo sbarco di Roccalumera,cit., p. 260

379 Ibidem, p. 290

380 Foglio n. 1427, Palermo 30 maggio 1854, da Maniscalco all’intendente Panebianco della Prov.

Nel contesto dello stesso foglio Maniscalco informava l’Intendente di Catania di aver già avvisato l’Intendente di Messina , al quale era stato ordinato di disporre la sorveglianza delle coste e le ricerche nella Provincia, impegnando le compagnie d’armi a far sorprendere di notte la casa di Interdonato in Roccalumera, dove si sospettava “potessero quei tre ribaldi annidarsi”. La Compagnia d’arme quando circondò la casa venne accolta con delle fucilate, che lasciavano a terra feriti due compagni d’arme. Dopo un “vivo fuoco d’ambo le parti” i ribaldi riuscivano a scappare381. La fuga dei fuorusciti portava ad un primo importante

provvedimento: una lista preparatoria di fuoribando per i tre nominativi “giunti a notizia alla Polizia borbonica”, datata 31 maggio 1854 fu preparata da una commissione composta dall’Intendente G. Castrone, dal Generale Giuseppe Diversi e dal Procuratore generale del Re Fortunato Jannelli , ordinando che essi fossero, siccome rei di morte, “da chiunque impunemente uccisi”382. Altri

provvedimenti furono presi per la sicurezza e il controllo della costa orientale compresa tra la città di Messina e la città di Catania; si temeva che i tre fuorusciti potessero tentare la fuga via mare da uno dei porti sullo Ionio. Maniscalco manifestava preoccupazioni per il fatto che i fuorusciti potessero avere fautori e complici anche a Catania, capaci di agevolarne la fuga, perciò consigliava all’Intendente di Catania di “raddoppiar di vigilanza”383. Vari rapporti semaforici

confermano l’avvio di una ferrea sorveglianza delle coste. Misure precauzionali per impedire la fuga interessarono i porti vietando l’uscita di tutte le imbarcazioni, comprese le barche da pesca, prima dell’alba e la perquisizione delle speronare maltesi o di Real bandiera nel caso in cui queste avessero avuto la necessità di “mettersi a vela” durante la notte384. I fuorusciti venivano ricercati per mare e

per terra. Si preveniva anche l’eventualità che essi avessero potuto pensare di

381 Ibidem

382 Lista preparatoria di «Fuoribando» del 31 maggio 1854 dell’Intendenza della Provincia di

Messina; ASCT, Fondo Intendenza borbonica, b. 3240

383 Foglio 1430, Palermo 30 maggio 1854, da Maniscalco all’intendente Panebianco; ASCT,

Misc. ris., busta 34, fasc. I , doc. 36

384 Foglio 1443, Palermo 1giugno 1854, da Maniscalco all’intendente Panebianco; ASCT, Misc.

utilizzare un percorso terrestre per raggiungere un porto meno controllato. Anche le via dell’Etna andavano controllate. Qui nei boschi sarebbe stato più difficile essere rintracciati. Nel contesto delle ricerche che il Sotto Capo di S. Giovanni D. Alfio Grasso (odierno S.Giovanni Montebello) aveva condotto per ordini ricevuti dal Capo Urbano di Giarre, in contrada Montarsi si era imbattuto in un uomo a cui aveva chiesto se per caso aveva incontrato degli uomini travestiti. L’uomo aveva riferito di aver incontrato tre individui che dall’aspetto sembravano civili, ma che erano travestiti da villani e che tali signori gli avevano raccomandato di non dire a nessuno di averli visti. Il SottoCapo insospettito dal numero di quegli uomini e dal travestimento comunicava il proprio impegno a proseguire le ricerche nell’area. Il Real Giudice, cui il Sotto Capo aveva consegnato rapporto, temeva per la veridicità dei fatti, poiché riteneva impensabile che “dei fuggitivi volessero camminare di pieno giorno per contrade sparse di abitazioni e di genti