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Attualità di Lamartine economista- economista-poeta

1. — Quando mi piace definire il periodo più brillante della letteratura francese dell’Ottocento, io non esito a stagliarlo fra la caduta di Napoleone e le rivoluzioni del quarantotto. Royer-Collard, Berryer, Villemain, Cou- sin, Guizot, Ozanam, Lacordaire, Montalambert, Victor Hugo, Balzac, Ago­ stino Thierry, Thiers, Mignet, ecc. Letteratura viva, aderente alla febbrilità del tempo, antitradizionalista, o tradizionalista nell’unico senso accettabile di questa parola, se voglia dire conservazione di principi che non hanno tempo perchè sono eterni, che non hanno sede perchè sono universali: sul cui robusto ceppo, qualunque presente può trovare fecondità d’innesti.

Un nuovo mondo si sta formando, acquistando una sua spiccata per­ sonalità, attraverso un dolore umano nuovo, una miseria nuova, un nuovo sforzo per trarre dalla vita la vita: attraverso angosce di massa, che de­ stano fremiti tutt’intorno. È al suo centro un proletariato che rumoreggia: che s’impazienta: che lascia presagire esplosioni di collera. Codesto mondo si potrà disprezzarlo od amarlo: si potrà comprenderlo o restare chiusi alla sua intelligenza: non si potrà ignorarlo. La letteratura, specchio della com­ plessa vita dell’umanità, prenderà dunque contatto con classi di cui sin’al- lora non si era granfatto curato: i cui interessi assumono posizione di primo piano. Ecco, nel cavo dell’anima oceanica, la voce di quel mondo coglie ed esprime Hugo: la coglie Balzac: la coglie Lamennais, pur con gli

vismi della sua indole, nelle Paroles d’un croyant: la coglie nel ventennio fra il 1830 e il 1850, sulle orme del solitario di La Chesnaie e d’altri a lui affini, Alfonso di Lamartine (1790-1869).

2. — La situazione dell’economia politica, quale intorno al 1830 si de­ linea in Francia, è la seguente. Saint-Simon e Bazard sono appena morti: vivono Fourier, Considerant, Cabet, ecc. La loro influenza è notevole: quella di Saint-Simon, grandissima. È l’ala dell’opposizione social-comunista, densa di « umanitarismo » e di utopia, quando non anche di fanatismo e di allu­ cinazione. A ll’estremo diametrale, G. B. Say, Bastiat, Dunoyer, alimentano una spiccata tendenza a considerare il « lasciar fare » come un dogma; a ritenere 1’« economia » una custode intangibile dell’ordine economico di fatto; a presentare ogni ingerenza dello Stato a disciplinamento di quest’or­ dine come una pretesa cui qualunque concessione sarebbe stata troppo; a denegare ammissibilità pur di libere istituzioni associative, che si prefig­ gessero di riscattare i ceti del lavoro da quanto avesse di eccessivo e di non umano la loro inferiorità di fronte ai ceti della proprietà e del capitale. Frammezzo, un inizio di reazione alle intemperanze di sinistra e di destra, che conta già una serie di nomi, cui un giorno la storia delle discipline eco­ nomiche serberà elogio, così per l’altezza dei principi ai quali traevano la propria fondamentale ispirazione, come per la nobiltà degli intenti e della vita. Accenno a Joseph Droz (1773-1850), che nei suoi Principes de la Sciences des ricbesses, pubblicati in prima edizione nel 1829, detta il bel ca­ pitolo finale sugli abusi che si possono fare dell’economia politica: ad Al­ bano de Villeneuve Bargemont (1784-1850), che, lasciate le pubbliche ma­ gistrature, offre ai buoni studi nostri, nel 1834, il volume Economie poli-tique cbrétienne; a Federico Le Play (1806-1882), che inizia i suoi grandi itinerari alla scoperta delle ragioni « per le quali i popoli vivono contenti o soffrono, prosperano ed avanzano o regrediscono e decadono e poi ripren­ dono e riconquistano la stabilità e la pace sociale » (Einaudi, Il peccato originale e la teoria della classe eletta in Federico Le Play, nella « Riv. di storia econ. », A. I, n. 2).

N ell’ambiente lamennesiano, ove non poco si lavora per quella esor­ diente reazione da parte di un gruppo di eletti spiriti (D e Coux, Lacor- daire, Gerbet, Rohrbacher, Montalambert, D ’Ault-Dumesnil, ecc.) e di cui Lamartine è parte, un famoso giornale che non vivrà più di un anno (16 ottobre 1830-15 novembre 1831), Y Avenir, di tratto in tratto, particolar­ mente per la penna di De Coux che nel 1834 andrà ad occupare la prima

cattedra d’economia politica all’università di Lovanio, prende in esame i massimi problemi della struttura grandindustriale, con tendenza aperta­ mente riformatrice. Della qual cosa fanno chiara testimonianza, per dire d’alcuni, gli studi 19 ottobre 1830 sulle «associazioni o p eraie»; 29 dicem­ bre 1830 e 10 gennaio 1831 sulle «scuole econom iche»; 22 giugno 1831 sulle « macchine ».

Con minore spirito combattivo, ma insomma con non diverso intento, si lavora nel circolo del Cortespondant, la rivista oggi secolare, ove si alli­ neano schietti nomi d’aristocratici, nel pensiero come nel blasone: D ’Eck- stein, De Cazalès, D e Carnè, D e Champagny, De Montreuil, ecc.

Il vivace diffondersi delle teoriche ribelli all'ordine economico stabi­ lito, l’esempio d’uomini d’alto animo e di eletto ingegno non restii ad ima revisione dei dogmi dell’economia classica, i minacciosi atteggiamenti delle folle operaie, circondano Lamartine e lo attraggono nella sfera delle idee economiche, portandolo ad occuparsi particolarmente delle questioni so­ ciali sorgenti dal lavoro industriale, che sono all’ordine del giorno. L’at­ teggiamento del suo pensiero può essere rilevato sopratutto dai seguenti scritti, che si stendono in un periodo ventennale: La politique rationnelle, di cui la «Revue européenne » pubblicava nel 1831 i principali frammenti, sotto forma di lettera al suo direttore; ■— Des destinòes de la poésie, del febbraio 1834, che ebbero poi posto quasi di prefazione in recenti edizioni delle «Meditations poétiques » ; — Résumé politique du voyage en Orient, pure del 1834, inserito dal Lamartine stesso nel «V oyage en O rien t» ; — Le passò, le présent et l'avenir de la République, 1848; — Le conseiller du peuple; 3 volumi del 1849, del 1850 e del 1851; — infine, una raccolta

di studi e discorsi compresi fra il 1835 e il 1848, pubblicata in due volumi delle « Oeuvres de M. A. de Lamartine » al sottotitolo Tribune de AI. de La-martine ou Etudes oratoires ou politiques, pei tipi Firmin Didot, nel 1849.

3. — A ll’indomani della «rivoluzione di lu g lio » (1830), scrutando l ’avvenire della civiltà europea, egli vede dinanzi a sè {La politique ration­

nelle) una solenne alternativa : « o un’organizzazione progressiva e com­ pleta dell’ordine sociale sul principio della libertà d’azione e dell’egua­ glianza dei diritti » capace di animare « una serie di secoli liberi, religiosi, morali, razionali », oppure « un ordine sociale disfatto da principi nuovi, dubbi, contestati, insanguinati », caratterizzato da « un potere impossibile, una libertà impraticabile, una religione perseguitata o avvilita, una guerra europea senza frutti come senza limiti », capace di precipitare l’Europa « in

uno di quegli abissi che separano due epoche come l’abisso del mare separa due continenti ». Condurranno alla auspicabile realizzazione della prima ipotesi alcune fondamentali norme d'azione: « Dio come punto di partenza e come ultimo fine; il bene generale dell’umanità come oggetto; la morale come fiaccola illuminante; la coscienza come giudice; la libertà come via su cui camminare ». Appoggiata a codeste basi, l’epoca contemporanea dovrà assolvere « la missione d’organizzare il diritto e l’azione di tutti » : respinte invece queste basi, la civiltà europea cadrà in un spaventoso caos. Non s’illuderà Lamartine che facile sia l’impresa! « L e idee umane hanno condotto l'Europa a una di quelle grandi crisi organiche, di cui la storia non ha conservato che una o due date nel suo ricordo; epoche nelle quali una civilizzazione succede ad un’altra, quando il passato non avvince più, e l ’avvenire si presenta alle masse con tutte le incertezze e tutte le oscurità dell’ignoto; epoche terribili, se non siano feconde» (Résumé).

È una cornice di massima: dove più è posizione del problema generale di civilizzazione, che economia.

M a la presa di contatto di Lamartine con l’economia non tarda ; ecco :. il male è stato portato al colmo « dal movimento industriale ».

Quali, nel suo giudizio, le colpe di questo movimento?

Sono queste : « ha strappato le popolazioni ai costumi e alle abitudini di famiglia, ed alle occupazioni serene e moralizzanti della terra » ; — « ha sovreccitato il lavoro con l’assillo di un guadagno che, a colpi e a ondate,, si eleva e ricade » ; — « ha tratto al lusso e ai vizi della città uomini che non possono più tornare alla semplicità e alla mediocrità della vita rurale, donde un’alternativa di masse oggi occupate e domani senza lavoro, facile preda alla sedizione e al disordine » ; — infine, ha determinato il sorgere di una classe proletaria: «classe numerosa,.,, abbandonata a se stessa per la soppressione del padronato e per l’applicazione dell’individualismo, in condizione peggiore di quant’altra mai sia stata, provvista di diritti sterili e sprovvista del necessario, disposta a sommuovere l’organizzazione sociale sino al trionfo del socialismo » (Résumé).

La situazione di questi proletari ha fatto sorgere una « questione della proprietà » : la quale si risolverà un giorno « per mezzo della violenza e della redistribuzione », se l’epoca corrente non si deciderà a risolverla « presto, per mezzo della ragione, della politica, della carità sociale ». Erano termini traducibili in questi tre altri: formazione dell’opinione pubblica,, intervento della legge, restaurazione del principio religioso, come sommo arbitro del conflitto economico. Su quest’ultimo punto particolarmente in­

siste e insisterà fino alla fine Lamartine, poiché, se non è contrario allo spi­ rito del Cristianesimo che si consideri la proprietà come « condizione sine qua non di qualunque società, non essendo possibile, senza di essa, nè fa­ miglia nè lavoro nè civilizzazione », è però nello spirito del Cristianesimo il monito che « la proprietà non è soltanto istituita per l’individuo, ma per l'umanità intera », nel senso che colui il quale ne sia investito non può ri­ tenere giustificata la sua condizione se « giustizia, utilità, accessione per tutti » non la collaudino (Résumé).

4. — Questione di proprietà.... questione di lavoro. Affiorano i temi che affanneranno tutto l'Ottocento: con i quali, nel ventennio successivo,

Lamartine si cimenterà. Lamartine non è un antirivoluzionario. Figlio del suo tempo, egli accetta le idee di libertà: ma non si nasconde che nel mondo economico queste idee, innestate sul tronco di un utilitarismo e di un na­ turalismo sottratti all’azione di un superiore comando etico, si sono risolte in un groviglio di concorrenze spietate, di cui gli economicamente deboli fanno le spese.

Lo spettacolo del contrasto fra il lusso insolente e una spaventosa mi­ seria si svolge troppo eloquente sotto gli occhi di lui, perchè egli non com­ prenda come l'armonia degli interessi, condizione elementare di pace so­ ciale, mal s'affidi al solo gioco dei tornaconti individuali, che possono es­ sere imperfettamente interpretati o difesi con troppo aggressivo furore. Bi­ sogna che l ’uomo, sviluppando le profonde aspirazioni tendenziali della sua coscienza ed elevandosi al disopra del piano degli aspetti immediati della sua vita materiale, lasci che s'affacci, e prenda figura di fattore dominante, il senso innato che, al di là della distinzione di utile e di non utile, vi è una distinzione di giusto e di ingiusto, i cui termini non combaciano necessa­ riamente e totalmente con quelli della prima. In questo collocamento ge­ rarchico dei termini complessi di azione tornacontistica individuale e di con­ trollo morale, l’idea di giustizia s’inserisce come un’idea-forza capace d’at­ tenuare con le sue progressive realizzazioni i troppo violenti distacchi che un incontrollato despotismo del predominio economico è destinato per na­ tura sua a determinare fra datori di lavoro e prenditori di lavoro.

Vero è che nel groviglio dell’economia operano certe altre forze, la cui glaciale freddezza di imperativi è spesso tale da rendere quasi ¡r is o l­ vibile il problema di giustizia che in qualunque caso involge il rapporto eco­ nomico. Sono certe necessità esteriori, certe tendenze che derivano dalle in­ catenanti interferenze dei fenomeni economici, certe costanze che

l’osserva-zione discopre e la scienza coordina, con le quali non si può a meno di fare i conti, e fuori dalia cui base è impossibile fantasticare ricostituzioni ra­ zionali dell’ordine economico. E tuttavia, come nel conflitto fra spirito e materia è la legge dello spirito che deve moderare la legge della materia, così nel conflitto fra esigenza etica e legge economica è alla prima che si deve cedere il passo. L'idea di eticità, ricca di umane armonizzazioni, pre­ valga sull’idea di meccanicità, ricca di attriti.

N è perchè questo avvenga occorrerà scegliere fra un ritorno al privi­ legio economico e al regolamentarismo, facendo getto della libera inizia­ tiva, ed un’accettazione di formule sovvertitrici del nuovo ordine econo­ mico quali rampollano dalla fantasia d’un Saint-Simon, d’un Fourier ecc. Si tratterà di trovare una via di mezzo, che permetta di salvare gli innegabili benefici del principio di libertà applicato all’economia, e, ad un tempo, di assicurare a un superiore indirizzo etico il governo fondamentale della pra­ tica economica, serbando così di quel principio i benefici, di questo indi­ rizzo le temperanze moderatrici e i carismi equitativi. Si tratterà insomma di elevare al rango di dominante questa idea: essere di assoluta necessità che si completi con acconce applicazioni pubbliche (giustizia) e private (ca­ rità) del dato etico l’organizzazione economica della vita materiale.

5. — A tale assieme di considerazioni si inspirava la corrente di pen­ siero cattolico che a quell’epoca studiava i problemi di quest’organizzazione. De Coux, Villeneuve-Bargemont, D e Gérando, Gratry, vi insistevano pre­ mendo piuttosto sull’idea di carità, non giudicando insomma inaccettabile l’economia politica classica. Lacordaire, Montalambert, Ozanam, Melun, facevano leva piuttosto sull’idea di giustizia, levando critiche su quell’in­ dirizzo dell’economia.

Lamartine appartiene a quella corrente ;• ma non sempre è facile iden­ tificarne la tendenza. Egli stesso dichiarasi un isolato. « Io siederò al sof­ fitto », aveva risposto ad un amico che, dopo la sua prima elezione a depu­ tato nel collegio di Bergues (1832), gli aveva chiesto in qual settore della Camera avrebbe preso posto. Ma insomma, egli è per un piano di modeste riforme. Ai 221 deputati che all’epoca della coalizione, riunitisi presso il generale Jacqueminot, l’avevano voluto capo di una specie di controcoali­ zione, aveva opposto un cortese e leale rifiuto: « Io sono con voi, ma non dei vostri. V oi siete conservatori; io, progressista». Intendeva prendere da ciascuna corrente, liberale, socialista, cattolica, ciò che gli sembrasse conte­ nere qualche verità, senza adottarne quelle che a lui sembrassero le

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sioni, le ambizioni, gli errori. Proposito non comodo, in tempo di rivolu­ zione; ricchissimo di incomprensioni, di sospetti, di impopolarità. Era tut­ tavia un atto di coraggio. Ed era, in un certo senso, garanzia che i problemi più scottanti della rivoluzione industriale lo avrebbero avuto indagatore imparziale.

6. — La proprietà egli esalta frequentemente. Nel discorso « sul pro­ getto di costituzione » egli dichiara con enfasi di poeta di « adorarla ». Poi, rientrando nella calma del ragionamento, ecco definirla « movente di ogni lavoro, riserva di ogni risparmio, stimolo a tutte le industrie, salario di tutti i lavoratori,... fibra costitutiva della natura dell’uomo,... istinto e condizione inerente » a quella natura. Soggiungeva che « le condizioni della costitu­ zione della proprietà sono la misura esatta del perfezionamento o della degradazione della società d'un paese » : cosicché, « se nemici dell’ordine sociale, che fossero animati da sataniche perversità, da odi inestinguibili contro il genere umano, volessero fare tutto il male che all’umanità possa farsi quaggiù, non avrebbero bisogno di studiare grandi piani: basterebbe ch’essi colpissero a morte la proprietà. N ell’istante medesimo del suo crollo in un paese, tutto crollerebbe con essa. La vita sarebbe colpita al suo cen­ tro vitale ».

D a questa risoluta difesa del principio di proprietà come piedestallo di vita e di ordine sociale, di cui si rintracciano le più vigorose espressioni lungo tutti i suoi scritti politici ed economico-sociali, male tuttavia s’inferi­ rebbe che Lamartine fosse cieco sostenitore di un assoluto spregiudicato ri­ gidamente individualistico jus utendi et ubutendi che spettasse al proprie­ tario. Egli ha chiaro il senso del limite sociale nell’uso della proprietà. E se l’idea di una « funzione sociale » della proprietà non è da lui direttamente teorizzata, è certo da lui intuita. Invero, con un processo ideologico di esten­ sione del principio di proprietà, dopo di aver affermata la proprietà della terra e del capitale egli affermava, per coloro che nè di terra nè di capitale fossero provvisti, una « proprietà delle braccia lavoratrici » : nè questa ve­ deva come un astrattismo, ma come un autentico diritto all’uso di quelle braccia, cui Dio ha dato per funzione di apprestare all’uomo i mezzi della sua esistenza.

Diverse, coesistenti, internecessarie, doveva fra queste tre zone della proprietà correre un rapporto di armonia : un ordine. Or è evidente che ciò implicava per ciascuna una limitazione sociale del rispettivo arbitrio.

Lamar-tine, il problema del lavoro. Era logico. Dato atto che ogni uomo vivente sulla terra ha bisogno dei frutti sulla terra per conservare e sviluppare la sua esistenza, e tenuto conto del fatto storico per cui la maggioranza degli uomini, sorgenti alla vita nei paesi a popolazione densa ed a civiltà com­ plessa, debbono chiedere al lavoro puro di farsi tramite perchà abbiano parte nella distribuzione di quei frutti, — bisognava pur ammettere che la difesa del diritto a possedere non era che una faccia del problema sociale posto dalla struttura economica moderna, l'altra faccia essendo necessaria­ mente la difesa del diritto a lavorare. La prima difesa postulava la seconda.

7. — Era il tema del giorno. E il tema non era nuovo.

La costituzione del 1791 aveva dichiarato che si sarebbe provveduto ad « un’organizzazione generale di pubblici soccorsi per l’allevamento dei fanciulli abbandonati, pel sollievo degli infermi poveri, per fornire lavoro ai validi poveri che non avessero potuto procurarsene ».

La costituzione del 1793, con frase più ampia, mentre riaffermava es­ sere « i pubblici soccorsi un debito sacro », attribuiva alla società « l’ob­ bligo di assicurare la sussistenza ai cittadini disgraziati, sia procurando loro del lavoro, sia donando mezzi d’esistenza a coloro che non fossero in grado di lavorare ».

Succeduto il governo rivoluzionario prima che questo piano avesse avuto anche soltanto un principio di attuazione, la formula del ’93, non più riprodotta, era entrata nel bagaglio dottrinale delle scuole socialiste, sboccando con Fourier (1772-1837) nell’affermazione di un «diritto al la­ voro », primo e fondamentale fra i « diritti dell’uomo », e da intendersi come « il diritto al genere di lavoro a cui siamo stati preparati » (Théorie de l’unité universelle, 1819).

Chiaro è il senso che questo « diritto al lavoro » aveva, nell’afferma­ zione socialista. Come i « diritti dell’uomo », nello spirito onde la rivolu­ zione li aveva formulati, rappresentavano una sfida alla struttura tradizio­ nale della società imperniata sulla proprietà, cosi quel « diritto al lavoro » era, dal Fourier stesso che lo affermava, esplicitamente riconosciuto come antitetico al « diritto di proprietà », e affidato, per le future realizzazioni, al « meccanismo societario che un giorno restituirà all’uomo tutti i suoi diritti naturali » (Eod. lo.). — Lo teorizza un discepolo di Fourier, il Con- sidérant (Théorie du droit de propriété et du droit au travail, 1839), pre­ sentandolo come una cotal specie di compenso sociale che toccava ai ceti

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dimessi dalla possibilità del possesso terriero e dunque dalla possibilità primitiva di trar mezzo a vivere dalla caccia, dalla pesca, dalla raccolta di frutti, dal pascolo. Pareva precisarsi via via, nelle elucubrazioni socialiste, come una specie di ipoteca sulla proprietà altrui, come un'azione perma­ nentemente accordata all'individuo contro la società. Ed era cosa ben di­ versa dal « diritto di lavorare », consistente nella libera disposizione delle proprie facoltà lavorative, davvero rivendicazione della più sacra fra tutte le proprietà dell’uomo.

D al terreno delle speculazioni teoriche, l’idea del « diritto al lavoro » aveva cominciato a volgersi a quello di un jus condendum, ad opera di Luigi filane (1813-1882), il quale, dopo d’averla propugnata come principio (Or­ ganisation du travail, 1839), la propugnava come materia di legge nella sua qualità di presidente della commissione del Lussemburgo, in particolare op­

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