• Non ci sono risultati.

Rivista di storia economica. A.02 (1937) n.1, Marzo

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Rivista di storia economica. A.02 (1937) n.1, Marzo"

Copied!
96
0
0

Testo completo

(1)

duietta da Jluigi SinaudL

Direzione: Via lamarmora, 60 - Torino. Amministrazione: Giulio Einaudi editore. Via Arcivescovado, 7 - Torino — Abbonamento annuo per T Italia l. 40. Estero l. 50. Un numero l. 12.

Anno il - Numero 1 - Marzo 1937 - XV

Luigi Einaudi: La leggenda del servo fuggitivo . . . Pag. I Federico Marconcini: Attualità di Lamarline «economi­

sta-poeta » ...» 31 NOTE E RASSEGNE:

Luigi Einaudi: Dei tipi di finanza e dell'invidia dei con­

tribuenti nell' antica G recia...» 55 --- Un monumento di storia economica... » 58 — Per la ricostruzione del « sistema » di Law . . » 62 Giovanni Proni: Intorno alla relazione sul catasto di

M essedaglia...» 64 Luigi Einaudi: Tema per gli storici dell'economia: quale

fu II saggio di frutto degli investimenti di capitale? » 70 RECENSIONI :

di opere di Carli iGino Luzzallol, Senior, Ruffini e So­

lari il. E . | ... » 77 TRA RIVISTE ED ARCHIVI:

(2)

un libro il quale si è proposto la dom anda: quanto c’è di vero nella tesi divulgatissima che le città m edioevali debbano la loro origine alla fuga dalle campagne dei servi della gleba, oppressi dalle angherie e dalle estorsioni d ei signori feudali? I servi, radunati nelle città, le avrebbero fortificate, si sarebbero potentem ente riuniti in corporazioni di arti e mestieri, dalle al­ leanze d elle corporazioni sarebbe sorto il comune, il quale andato poi, colle armi e col denaro, alla conquista delle campagne, avrebbe assogget­ tato gli orgogliosi castellani, costringendoli a porre dim ora nelle città. La tesi è una leggenda, risponde il Plesner, dopo un minutissimo studio sui docu­ menti di un castello fortificato e di un borgo aperto della Toscana. Il « ca­ stello » non era la roccaforte d el feudatario ma la dim ora fortificata di con­ tadini praticamente liberi signori dei loro terreni; e dai castelli e dai borghi migravano nelle città i m igliori tra i nobili; gli artigiani e gli agricoltori. Città e campagna [erano una cosa sola, nè si può parlare di lotta d i classi e di guerre fra rustici e cittadini. Forse la confutazione della tesi è incom­ piuta; forse si riferisce ad un momento solo della storia di una piccola parte della Toscana; ma essa è atta a suscitare discussioni feconde. N ella disputa risentiamo l’eco d el contrasto fra due modi di concepire la storia contem­ poranea: l'Italia d ’oggi è il frutto di lotte fra nobiltà e borghesìa, tra bor­ ghesìa e proletariato ovvero di una lenta trasform azione la quale porta dalle campagne alle città i m igliori atti ad eccellere nella scienza, nelle arti, nel­ l’industria e nel governo? E chi sono i migliori?

« Lamartine, economista e poeta », è il titolo di un suggestivo studio di Federico Marconcini. L a figura di questo singolare poeta, storico, roman­ ziere, uomo politico viene illuminata sotto il punto di vista d el suo credo sociale economico. Egli è alieno dal comuniSmo, dai sogni di organizzazione d el lavoro e d el diritto al lavoro alla Louis Blanc; ma forse ancor più alieno dalle tesi delle armonìe e della assenza dello stato alla Bastiat. Lamartine non è però un puro sentimentale, un rom antico; ha studiato, ha riflettuto e ha propugnato programmi concreti di colonizzazione, di lavori pubblici, di pensioni alla vecchiaia, di salari fam i gli ari. Multa renoseentun

(3)

taluni importanti recenti contributi alla storia econom ica: la ricostruzione del compianto Andreadés dei tipi di finanza tirannica e sacra accanto a quelli pseudo aristotelici della finanza regia, satrapica e cittadina; la monumentale edizione dei libri dei Per uzzi compiuta dal Sapori; la rivendicazione della genialità d el più grande inflazionista moderno, Giovanni Law, quale risulta dai suoi scritti finalm ente raccolti dall’Harsin; la riedizione del\celebrato rapporto di M essedaglia sul catasto.

Oltre a recensioni varie ed alla diligente rubrica tra « Riviste ed Ar­ chivi » il direttore propone agli storici un tem a: ci fu e quale fu nel secolo presente un frutto d el capitale? Che esista di fatto tale frutto è forse in m olti casi a sua volta frutto d i immaginazione, la quale scambia per reddito eco­ nomico un compiacimento sentimentale. A d ogni modo il problem a è stori­ camente degno d i riflessione.

T h M e m i c ò t t le t n n ó b a M i' .

I. Henry A. Wallace - Che cosa vuole l' A m e r ic a ?... L. 12 II. A. De Vit i De Marco - La funzione della b a n c a... » 1 2 III. Roberto Mich els - Il b o ic o tta g g io... » 1 2 IV . Marco Fanno - 1 trasferimenti anormali dei capitali e le c r i s i... » 12 V . Franco Ballarini - Dal liberalismo al co rp o r a tiv ism o... » 1 2 V I. J j A. Sch u m peter - E. Chamberlin - E. S. Mason - D. V . Brown - S. E. Harris

- W . W . Leo n tieff • O. H . Taylor - Il piano R o o s e v e l t...» 12 V II. Mario Segre - La b o r s a... » 12 — L e borse italiane nel 1935 ...» 6 V ili. Henry A. Wallace - Nuovi orizzonti... » 1 2 IX. Edoardo e Luciano Gir ett i - Il protezionismo e la crisi ... » 12

X. Lionel Robbins - D i chi la colpa della grande crisi? e la via d’uscita . . . . » 12 XI. Luigi Federici, S an zion i... ...» 1 2 X II. W . H. Chamberlin - V e ti del ferro della R u s s i a... » 1 5 X III. Roberto Tremelloni - Le industrie tessili i t a l i a n e...» 1 5

(4)

-P R I N C I -P I I

DI

S C I E N Z A E C O N O M I C A

SCAMBIO - PRODUZIONE - REGIME DI COALIZIONE ECONOMIA CO RPORA TIVA - Q U ESITI

Un volume in 8° di pagine XX-522 della Collezione di OPERE SCIENTIFICHE. L. 50.

I « principi! » di Riccardo Bachi vengono a soddisfare un bisogno oggi vera­ mente sentito nel campo della scienza economica: quello di possedere un libro, il quale non sia soltanto di teoria pura ma guida per la interpretazione dei fatti concreti quotidiani, senza però considerare questi fatti sotto un punto di vista puramente contingente ed empirico. Il Bachi, adottando il metodo delle appros­ simazioni successive, procede dalle nozioni più generali ed astratte a quelle parti­ colari e concrete, cosicché il lettore gradatamente e bellamente viene condotto ad interpretare i fenomeni della vita al lume dei principii generali.

La ripartizione della materia ricorda quella del grande economista italiano Francesco F errara: 1) econom ia, in dividu ale (bisogni, beni, utilità, costo, risparmio);

2) econ om ia sociale (scambio, mercato, prezzi, costo di produzione, fattori della produzione, impresa, coalizione). Dopo l'economia sociale il Ferrara còllocava

(5)

devono trattare (scambi interregionali e intemazionali, moneta, credito, crisi) ad un secondo ed ultimo volume. M a prima di passare a questi argomenti, l’A. colloca una terza indagine, quella d e ll’econ om ia corporativa, intesa a mettere in luce l'aspetto collettivo e statale del fenomeno economico, specie dal punto di vista della organizzazione corporativa dell’economia propria dell’ Italia. Cosi si chiude questa che, in linguaggio piano e con sistemazione chiara, è una trattazione compiuta della scienza economica in generale. Cresce il pregio dell'opera una appendice di qu esiti. Aveva, unico in ’Italia, fatto tempo addietro un tentativo in tal campo

il Pantaleoni, in un volume a sè compilato in collaborazione col Broglio d'Ajano. Il Bachi egregiamente risponde all’impegno offrendo 1 0 6 4 quesiti o domande su problemi economici, a cui lo studioso dovrebbe, dopo avere studiato il volume e col sussidio del ragionamento, essere in grado di rispondere. Ognuno vede di quale aiuto alla preparazione autonoma dello spirito possano essere siffatti quesiti oppor­ tunamente scelti per rendersi ragione idi fatti storici, di teorie correnti, di errori ripetuti e di fatti della vita quotidiana. I giovani i quali sono ansiosi di porsi i problemi sui quali saranno chiamati a rispondere sia negli esami universitari sia in quelli di concorso troveranno nei mille c più quesiti del volume una guida preziosa. Gli uomini colti ne trarranno stimolo a riflettere e suggerimenti per interrogarsi e concludere.

D i prossima pubblicazione:

VOLUME SECONDO : Sc a m b i i n t e r r e g i o n a l i e i n t e r n a z i o­

(6)

NUOVI GIUDIZI DELLA STAM PA

'hiOMUri' tiiu hu tiió'

¿ ella ' ¿U fudU ica- ¿U

hm

* *

d i Iw u n c e T SóM m i

Un volume In 8° di pagine 302 della BIBLIOTECA DI CULTURA STORICA. L. 20.

Si legge un libro di scienza e par di leggere un romanzo. Ciò si deve in parte all'es­ sere i fatti stessi leggendari, ma sopratutto all'arte ed all'umanità dello storico che ce li narra. Il Bonomi con felice ispirazione ha mirato sopratutto a darci un'esposizione organica, colorita, ed ha eliminato qualsiasi apparato erudito che potesse sviare l'attenzione del lettore nuocendo alla continuità della narrazione. In fondo al libro troviamo delle note sobrie che si riferiscono ai varii capitoli e che mostrano come l'informazione del Bonomi sia accurata ed approfondita.

C è da augurarsi che la collezione storica Einaudi accolga altri volumi come questo, i quali abbiano da un lato carattere rigorosamente scientifico e possano dall'altro interessare per i loro pregi letterari non già la ristretta cerchia degli specialisti, ma il pubblico più vasto delle persone colte. Opere di questo tipo non abbondano presso di noi, giacché raramente si riesce a tenere la via di mezzo tra la dissertazione storica meramente accademica ed erudita e la storia romanzata.

Enzo Tagliacozzo nella n u o t a b i t i n t a n t o b i c a

Questo libro lungamente studiato e meditato, molto bene ideato, compiuto e armo­ nico nelle sue diverse parti e sapientemente condotto, merita senza riserva alcuna la lode più

ampia.

li’ ITALIA CHE NCBITE

Mazzini triumviro della Repubblica romana, il Mazzini che agisce per incarnare quel­ l'idea che maturata da lui nella solitudine aveva data forza operante a tanti italiani, quelli stessi che ora accorrevano a Roma d'ogni parte della penisola, il Mazzini che prova al fuoco dell’azione s i e i suoi, questo vuol dipingere Ivanoe Bonomi. E lo fa bene, aiutato da una prosa avvincente e scorrevole, che delinea in pochi tratti suggestivi gli episodi guerreschi, e narra con sobrietà le discussioni parlamentari.

BIBLIO O BAITA FA M IIT A

Con sicura coscienza critica e in uno stile chiaro e nello stesso tempo commosso, Ivanoe Bonomi rievoca l’azione di Mazzini nel fortunoso 1849 che vide il profeta triumviro di Roma e nelle mura contese della città eterna il sorgere di una repubblica, effimera certo nel tempo, ma il cui valore ideale appare grande, se si pensa che nell’intendimento di chi la diresse e la difese doveva rappresentare il centro di un coordinamento unitario nazionale. ;

Felice Battaglia nella b i t i n t a n t o b i c a i t a l i a n a

(7)

\

E in d is p e n s a b ile che alla

chiarezza del pensiero

cor-*

risponda la chiarezza degli

scritti che lo esprimono. Gli

studiosi, perciò, non scrivono

più a m a n o : e s s i u s a n o

l a O l i v e t t i P o r t a t i l e .

(8)

Camnteuiale

Italian a

BANCA DI DIRITTO PUBBLICO M I L A N O

F on data n el 1894 * C apitale 700 m ilion i

2 0 0 F IL IA L I IN IT A L IA - 4 F IL IA L I E 1 4 B A N C H E A F F IL IA T E A L L ’ESTERO - COR­ R ISPO N D EN T I IN T U T T O IL M O N D O T U T T E L E O PER A ZIO N I E T U T T I I SERVIZI D I B A N C A A L L E M IG LIO RI C O N D IZ IO N I

G ratuitam ente, a richiesta, il V ade M ecum d el risparm iatore aggiorn ato e interessante

(9)

La leggenda del servo fuggitivo.

1. — Alcuni anni fa, discorrendo di un libro stupendamente costrutto intorno alle finanze della repubblica fiorentina (1), lamentavo che « tra gli storici di Firenze e delle città medievali italiane fosse da tempo venuta di moda la spiegazione economica della storia » e questa li facesse propensi ad una certa quale « applicazione di schemi generici » e ad una « rappresen­ tazione di battaglie inventate da astrattisti i quali discorrono di rendita, di capitale, di proletariato, di artigianato, come se fossero persone viventi le une contro le altre schierate », laddove la storia economica dovrebbe essere la ricostruzione viva delle persone realmente esistite, di quei tali mercanti, grossi e piccoli, di quei tali magnati, di quelle tali vedove.... con i loro sen­ timenti veri, con i loro interessi specifici trapelanti dalle vecchie carte, con le loro fondamentali passioni umane, buone e cattive ».

Quando scrivevo, da laico, queste ed altre male parole contro insigni storici di null’altro colpevoli fuorché di accettare di tratto in tratto canoni correnti di interpretazione dei fatti e di lasciarsene occasionalmente guidare nel classificare ed apprezzare i fatti osservati, una bella battaglia contro i metodi usati nello scrivere storia era già stata condotta con dottrina e

suc-(1) Divagazioni moderne e proposito di un libro sul trecento (di Bernardino Barba-

doro su Le finanze della repubblica fiorentina. Imposta diretta e debito pubblico fino alla isti­ tuzione del Monte. Firenze, 1929) nel fascicolo del marzo-aprile 1931 di « La Riforma Sociale », riprodotto in Saggi, 1933, pagg. 257-73.

è 1, II.

(10)

cesso in questo medesimo campo del duecento e trecento fiorentino. Con­ fesso di aver letto soltanto or ora il libro di Nicola Ottokar su « Il comune di Firenze alla fine del dugento » che segnò nel 1926 l’inizio di una nuova concezione della storia delle rivoluzioni fiorentine. Scrisse l’Ottokar nel suo libro fondamentale, ribadendo in breve la tesi da lui illustrata prima sotto tutti i suoi aspetti:

« La vita fiorentina non fu affatto dominata da un contrasto fra due opposti gruppi della cittadinanza, organizzata nei « partiti » dei magnati e dei popolani. Il predominio di tali contrasti non si verifica nè nell’ambito della politica finanziaria ed economica, nè nel campo dell'azione militare e diplomatica del comune. Abbiamo invece la netta impressione che il solito modo di vedere la storia di Firenze di quel periodo sia basata su presupposti assolutamente arbitrari e Attizzi. Questo solito modo di vedere la storia consiste nel ricercare ovunque i segni di presunti antagonismi sociali e nel ricondurre ad essi il significato di tutti gli eventi e di tutte le situa­ zioni della vita pubblica fiorentina. L'artificiosa impalcatura di questi presunti con­ trasti sociali oscura la chiara visione dello storico, e non lascia intravvedere il nesso di continuità e il significato intimo dei fatti, cioè lo sprito della realtà storica fioren­ tina di quel periodo. Tutte le manifestazioni della vita pubblica di Firenze vengono, infatti, interpretate dagli storici dal punto di vista di contrasti fra magnati e popo­ lani; e tutte le leggi o i provvedimenti amministrativi nel periodo 1 2 8 2 -1 2 9 2 si so­ gliono generalmente attribuire a influenze o prevalenze di uno di questi cosidetti « partiti » . Tale modo di trattare la storia fiorentina si basa su preconcetti arbitrari ed erronei, e non si trova minimamente giustificato da quei presunti dati di fatto che generalmente vengono addotti a suo sostegno » (2 4 3 -4 4 ).

I consigli del comune legiferano intorno agli affitti? Subito gli storici dell’« interpretazione economica» esclamano: ecco un episodio della lotta fra i « grandi » proprietari di casa ed i minuti affittuari di botteghe e fon­ dachi! Ottokar ribatte: di chi sono le case?

« L ’affermazione, completamente gratuita, di alcuni storici che i Cerchi, dopo aver comprato nel 1280 le case dei conti Guidi, diventarono proprietari di «quasi tutto il sesto di Por San Piero » , è semplicemente enorme.... Moltissimi rappresen­ tanti dell’alto ceto popolano, che governava Firenze nel penultimo decennio del trecento possedevano vasti complessi di case, torri e palazzi nel centro stesso della città.... Atti di compra e vendita di case o di locazione in affitto di locali per uso di abitazione o di traffico, da parte di più umili artefici fiorentini, sono frequen­ tissimi » ( 157).

Si deliberano provvedimenti intesi ad impedire l ’esportazione del grano oltre i confini del territorio fiorentino e a favorire viceversa l’importazione di esso o comunque a rendere meno cari i generi alimentari? Ec) ebeo quei

/

(11)

provvedimenti diventare un episodio dei contrasti fra magnati e popolani e significare una conquista del regime popolare impersonato nel governo del priorato artigiano. Gli economisti sanno trattarsi di un solitissimo esem­ pio della politica tenuta dai governanti d’ogni tipo e partito e classe per tener quieto il popolo minuto; ma fa piacere sentirsi ridire da Ottokar che guelfi e ghibellini, magnati e popolani, nobili e plebei a gara ricorrevano alle medesime grida. L'insigne storico va più in là: è un errore credere che la politica annonaria dei bassi prezzi sia diretta dai popolani cittadini contro i magnati grandi proprietari di terre nel contado. La lotta del nascente capitalismo industriale e mercantile della città contro la proprietà fondiaria

feudale del contado è mera fantasia. ,

(12)

L ’importanza del brano ora riprodotto non sta nei particolari, i quali possono essere controversi. La terra del contado era « passata » alla fine del X III secolo in piena proprietà di liberi contadini ovvero, dopo essere stata da questi posseduta stava passando ad altre mani? o quale importanza com­ parativa avevano i due processi?

Lo « sfruttamento » dei contadini da parte di cittadini a mezzo di ope­ razioni « usurarie » aveva il peso che l'O ttokar suppone? È corretto dal punto di vista linguistico-tecnico l’uso del vocabolo « usura » che si fa oggi da chi sa che esso era usato in passato in un senso diverso da quello presente e sa che l’interesse non ha alcun connotato immorale di sfruttamento e nor­ malmente è vantaggioso nel tempo stesso al debitore ed al creditore? Non sarebbe necessario tentare la casistica delle situazioni che nel duecento con­ sentivano e di quelle che escludevano i fatti i quali grosso modo si vo­

gliono segnalare colla parola di sfruttamento?

Se i particolari meritavano di essere approfonditi, il brano era gran­ demente suggestivo. Esso sostituiva all’immagine di un contado dominato dalla grande proprietà feudale, e di una città che muove alla distruzione dei nobili con l’arma dei provvedimenti annonari di ribasso dei prezzi dei prodotti agricoli e con le arti sottili di prestiti usurari a nobili desiderosi di lusso un’altra immagine: di un contado, nel quale la grande proprietà feu­ dale sopravvive solo agli estremi confini ed è invece posseduto da nume­ rosissimi piccoli e medi proprietari, contadini e cittadini; e di cittadini grandi, medi e minuti, vogliosi di acquistar terra, di condurla ad economia in af­ fitto od a mezzadria, di dotarla di case di piantagioni e di bestiame; sicché la città non appare nemica al contado ma a questo associata e di esso pa­ trona.

2. — Immagine suggestiva c punto di partenza, anche per rapporti da maestro a discepolo, di un libro che segna davvero una pietra miliare nella storia dei rapporti fra città e campagna nell’epoca più gloriosa delle città medievali italiane. Direi che il libro di Johan Plesner su « L’emigration de la campagne à la ville de Florence au X IIL siècle » (2), dovrebbe suscitare almeno tanto fervore di controversia come, a ricordare un solo esempio, i famosi libri del W eber, del Sombart e del Tawney intorno alle origini pro- testantiche del capitalismo; se ad ottenere uguale successo non facessero

(2) Traduction du manuscrit danois par F. Gleizal en collaboration avec lauteur. Un voi. in 8° di pagg. XVI-240. Gyldendalske Bcghandel-Nordisk Foclag - Kòbenhavti, 1934.

/

(13)

ostacolo la faticosa stesura in incerto francese (3) e la faticosissima illustra­ zione di un materiale archivistico ristretto ad un paio di villaggi del con­ tado fiorentino. Gran parte del pubblico ama tuttavia i voli d’aquila, le tesi cosidette nuove, le visioni del mondo suffragate da fatti tratti da molti luo­ ghi ed assai tempi, le formule riassuntive. Se non c'è un po’ di borghesie nascenti o decadenti, di capitalismi bassi o alti o tardi, di profitti rendite sa­ lari personificati, di capitale bancario o mercantile vampireggianti il capi­ tale industriale o la terra o il lavoro; se magnati e popolani, servi e feuda­ tari, castelli e conventi, non scendono in campo a singoiar tenzone; o se le rivoluzioni, inglese francese americana italiana, non sono ridotte al brodo concentrato di circolazione di classi scelte o di cerehie sociali più o meno dotate degli istinti degli aggregati o delle combinazioni e più o meno atte a maneggiare questa o quella formula o derivazione, il pubblico non è con­ tento. Si intende che il pubblico non contento non è composto di lettori di libri e di studiosi desiderosi di comprendere o di far comprendere il mondo circostante o l’epoca studiata; ma di inventori di interpretazioni economiche e sociali e di teorizzatori di leggi regolatrici delle forze e delle vicende so­ ciali.

Leggendo interpretazioni e teorizzazioni storiche, sono talvolta indotto a chiedermi se non avesse un fondo di verità la repugnanza degli economisti tedeschi della cosidetta scuola storica verso le leggi astratte dalla scienza economica classica. Quel fondo di verità pare consista nell’illogica reciproca usurpazione degli ufficii proprii del teorico e dello storico. Lo storico, il quale neghi la possibilità di leggi teoriche economiche, confonde l’indagine sua che volge sull’individuale e sul concreto con l’ipotesi astratta, la quale è necessariamente arbitraria ed, anche quando trae le sue astrazioni dal mondo reale, definisce con precisione alcuni pochi dati del ragionamento che si intende di condurre. Se il teorico deve sempre ricordare che le conclusioni raggiunte sono valide soltanto entro i limiti dell’ipotesi originaria e non può azzardarsi, se non consaputamente, a suggerimenti di opere concrete, lo sto­ rico dal canto suo non può disprezzare quei ragionamenti o quelle conclu­ sioni, perchè astratte, anzi può giovarsene a guisa di strumenti di interpre­ tazione dei fatti concreti accaduti. Se lo strumento è usato con cautela con­ sapevole delle sue limitazioni, esso può essere utilissimo, alla pari di

(14)
(15)

si tratta, o di quel sacrificio, se l’uomo ha sacrificato se stesso al compimento di quel che credeva il suo dovere, la pallida fraseologia combinatoria o ag­ gregatoria, nella quale il trecento muore nel quattrocento e questo non è dissimile dal seicento, e le differenze si riducono ad un diverso dosaggio di a e di b e di altre simili sicumere. Lo storico, il quale apertamente adopera questa o quella teoria propria della scienza economica o sociologica o poli­ tica nel narrare o ricostruire vicende di fatti, se anche sia scienziato di gran classe, manca di buon gusto. La teoria per lui deve essere uno dei tanti ferri del suo mestiere; e nel modo stesso con cui, liberandone il testo, si ordinano in appendici od introduzioni metodologiche le avvertenze intorno alle fonti, al modo tenuto nell’adoperarle ed alla critica dell’uso fatto da altri delle fonti stesse, così i piani e le ombre del quadro di un tempo o di un luogo non devono essere guastate da fastidiose dichiarate applicazioni di teorie le quali, chi ne abbia voglia, può leggere meglio altrove.

3. — Il libro di Plesner è stato scritto per guardar dentro ad una, fa­ migeratissima, fra le tante marionette economico-sociologiche inventate a spiegare storia e rivoluzioni storiche: quella del «servo fuggitivo».

(16)

Al fondo romano della popolazione artigiana cittadina si aggiunge, presto sommergendo il nucleo originario, l’emigrato dalla campagna:

« Romolo Caggese, Robert Davidshon ed altri hanno narrato, a forti tratti, come la « borghesia » ed il « proletariato » fossero nati dalla fuga nella città dei contadini servi della gleba e reputano di avere cosi spiegata la mentalità dei borghesi che, divenuti grandi mercanti e grandi finanzieri, conquistarono il « contado » con il sangue e con l'usura. La teoria suppone che il forte incremento della popolazione urbana sia principalmente dovuto ai « servi fuggitivi » i quali « abbandonano le capanne poste sulle terre dei monasteri e dei signori feudali. Si legge di « falliti, di scontenti, di disorientati, di vittime del regime feudale » che « d'ogni parte preci­ pitano verso la città numerosa e fervida di vita » . Come i ruscelli della montagna inondano la pianura, cosi i miserabili servi fuggendo il duro giogo feudale vengono alla città a cercar rifugio dietro le sue mura fortificate, dove la vendetta dei signori non li potrà raggiungere» (1 1 6 -1 7 ).

4. — Plesner saggia al lume delle fonti la teoria e la scopre calante. Il predominio della dottrina economico-giuridico aveva, volutamente o in­ consapevolmente, indotto gli studiosi a seguire metodi pericolosissimi di ri­ cerca.

« Posti dinnanzi alla necessità pratica di dover fare una scelta tra un mate­ riale di ricchezza imbarazzante, gli storici si sono quasi sempre attaccati a docu­ menti isolati di cui il contenuto poteva servire ad illustrare o modificare le classiche teorie. Persino in Robert Davidsohn, in apparenza dotato di spirito così critico, le innumerevoli citazioni di documenti sinora sconosciuti, sono in maggior parte una scelta fortuita frammezzo all'enorme materiale esistente » (pag. X ).

N el 1933, quando il libro del Plesner non era uscito, scrivevo altrove — e per non ripetermi riproduco senz’altro — a proposito del metodo della scelta arbitraria dei fatti citati a dimostrazione di una tesi. N el caso speci­ fico si voleva dimostrare la tesi che « gli uomini del duecento informavano grosso modo la loro condotta economica alla regola tomistica la quale con­ sidera la ricchezza mezzo alia beatitudine eterna ed invece gli uomini del quattrocento agivano massimamente in base all’altro fondamento della ric­ chezza mezzo alla felicità terrestre».

« Sfilano fatti c fatterelli scuciti relativi a singole azioni di uomini pratici, che, per la paura deH’inferno, si pentono in punto di morte del mal guadagnato, che im­ brogliano il prossimo meno o più secondo capita l'occasione, che se gela ed i ger­ mogli delle uve sono bruciati, alzano il prezzo del vino e si infischiano dei rimbrotti del confessore, ma se ne infischiarono nel duecento come nel quattrocento; o si leg­ gono le solite grida dei soliti legislatori rompiscatole contro il lusso e l’usura; ovvero, ancora, le consuete lodi al buon tempo antico in cui anseatici ed indigeni e

/ /*

• I

(17)

turchi non guastavano le ova nel paniere ai fiorentini ed ai senesi e perciò tutti si gua­ dagnava in Firenze e Siena, e si faceva la figura dei cuor contenti e dei generosi, ossia, secondo la terminologia inventata dai moderni, dei « pre-capitalisti » , ed i solitissimi confronti col tempo posteriore in cui c'è qualche crisi o bisogna lottare con la con­ correnza ed i tempi si sono fatti duri e non si possono avere tanti riguardi ai vicini, epperciò gli uomini sono afflitti dallo spirito « capitalistico ».

Critiche, queste, mosse non alla dottrina e neppure ai fa tti; ma alla pretesa di dimostrare una dottrina con la citazione di fatti sparpagliati. E consigliavo di limitarsi ad un piccolo territorio e ad un breve tempo e di scavare a fondo. E prima di ragionare sulla sostanza del problema, « di quel che veramente gli uomini comuni pensassero intorno alle ordinarie occor­ renze della vita e del modo come conformassero le azioni ai pensamenti » chiedersi :

«E siston o fonti in merito? Quale è il valore effettivo delle leggi, dei testa­ menti, delle scritture contabili, dei carteggi, delle novelle? Esiste un inventario di queste fonti redatto dal punto di vista del loro valore probatorio rispetto alla con­ dotta reale tenuta dagli u o m in i?» (in « L a riforma sociale», luglio-agosto 1933, e in N u ovi saggi, 1933, pagg. 339-40).

(18)

relazione all'altro, per ricavarne il quadro di un castello fortificato e di una piccola parrocchia rurale aperta. Supponiamo di non saper niente e di vo­ lere imparare dalle vecchie pergamene che cosa erano « quel » castello e « quella » parrocchia. A furia di leggere e rileggere gli stessi documenti, si fa la conoscenza degli uomini che vivevano là entro, che ivi litigavano e contrattavano, arricchivano ed impoverivano, ascendevano o calavano nella scala sociale; se ne traccia l’albero genealogico, si impara chi era il bisnonno, il nonno e chi il figlio, il nipote, lo zio e il fratello; si appurano i legami di matrimonio e l'intreccio dei casati; si accertano qualità e professioni e mutazioni di esse; si seguono le migrazioni dall’uno all’altro castello o par­

rocchia, e quelle dal contado alla città; si vedono i rustici farsi cittadini, acquistar case e fondachi in città, conservare o vendere o crescere le terre nel contado. £ un mondo vivo che rivive sotto i nostri occhi: e quand’esso è vivo e ben conosciuto, lo storico si azzarda a cercare altrove, in documenti di altre provenienze, fatti riguardanti sia gli uomini già noti o sia altri uo­ mini venuti in relazione con quei di Pasignano e di Giogole. Un po’ per volta il quadro si allarga al contado ed alla città di Firenze fra il 1200 e il 1300; ma non è un quadro di maniera, artificiosamente messo insieme da indizi, fatti e fatterelli racimolati qua e là, senza nesso necessario vicende­ vole o dotati soltanto di quel nesso che la fantasia ha voluto ad essi attri­ buire a suffragio di una qualsiasi interpretazione della storia. N o; il quadro raffigura quegli uomini realmente vissuti e quei rapporti reciproci così de­ finiti ed accaduti in quel tempo. Il punto di gravità dell’edificio di Plesner sono i 16 alberi genealogici delle famiglie di Pasignano e le due tabelle dei contribuenti e degli ufficiali del popolo di S. Alessandro di Giogole. Egli, naturalmente, ha collocato alberi e tabelle in appendice; ma ha scritto il libro solo dopo essere riuscito a costruire— dio sa con quale fatica! — quei solidi fondamenti alla sua ricerca.

V a da sè che la stessa ricerca avrebbe potuto essere condotta, gli stessi alberi costruiti, le stesse tabelle compilate, gli stessi uomini conosciuti senza ottenere alcun risultato, fuorché di mera erudizione. Plesner, oltreché di pazienza erudita, ha dato prova anche delle attitudini fantastiche senza le quali non si scrive storia. Ma con quei freni e quella preparazione la fantasia ricostituisce realtà e non crea leggende.

5. — La realtà ricostruita è ben diversa dalla leggenda. Chi, passando attraverso a foreste vaste e seguitate, per strade locali giunge all’abbazia di Pasignano, fortezza imponente e solitaria, sul lato sud di uno dei

con-/ ¡ )

(19)
(20)

da contadini quasi sempre dipendenti dal monastero, noi siamo alla fine e non, come gli storici immaginano, all’inizio del processo storico.

6. — A ll’inizio, il castello toscano non è la fortezza feudale circondata da capanne di servi; è invece il nido fortificato sulla cima di un colle, dove tra il 1000 ed il 1300 gli uomini del contado, proprietari e coltivatori del territorio circostante, si riunivano per dimora e sicurezza. Sulla som­ mità della collina la piazza del castello, e nello sfondo la chiesa. Attorno le case in salita, intersecate da vie e vicoli. A mezza costa un giro di muro e sotto le case del borgo, a sua volta circondato da un giro di mura più ampio.

Chiesa piazza vie mura e case sono una unità che si può chiamare feudale, in quanto dipende da una autorità pubblica, che può essere un conte vicino o lontano, un vescovo e talvolta persino l’imperatore medesimo. Ma la dipendenza non è di tipo uniforme, da signore a servo della gleba; anzi è varia da caso a caso. V i sono, in un medesimo castello, proprietà libere od allodiali e proprietà feudali, livellane (enfiteutiche) ed a censo. Il medesimo uomo era libero rispetto a certe case ed a certe terre, dipen­ dente rispetto ad altre per cui doveva pagare censo o livello o riconoscimento periodico od in casi di morte o di vendita. I diritti di proprietà si interseca­ vano in modi curiosi. Tale che dicevasi proprietario di un quarto del ca­ stello non faceva, vendendo la sua quota, acquistare al compratore il di­ ritto ad una qualsiasi cosa in particolare, ma solo il diritto ad un quarto della signorìa feudale del castello. Egli stesso, se era proprietario di una casa posta nel castello, la poteva, nonostante avesse venduto il suo quarto del castello, conservare o vendere separatamente, incassandone il prezzo. Tizio, che era servo di Caio rispetto ad una terra poteva essere a sua volta signore feudale del suo padrone rispetto ad un’altra terra. Si poteva essere liberi proprietari della casa e servi rispetto all’area su cui la casa era co­ strutta; ed i giudici sentenziano che il proprietario della casa possa por­ tarsela via e ricostruirla altrove (licenziavi abeant ipsum edijicium in alio loco reportare et jacere quod voluerini). Le proprietà allodiali o libere o « jure proprio » sono numerose. Gente minuta vende case nel borgo con garanzia di piena proprietà rispetto a chiunque: « a b omni homine per­ sona et loco, collegio et universitate ». Grandi signori appartenenti a no­ bili famiglie posseggono in proprietà libera appezzamenti di terra fram­ misti ad altri posseduti al medesimo titolo da contadini qualunque.

(21)

del X II secolo il castello di Paterno nella valle superiore dell’Arbia era stato distrutto. G li abitanti, desiderosi di ricostruirlo, si indirizzano al co­ mandante inviato da Firenze a tenere il forte di Montegrossoli e gli dicono : « se tu vuoi proteggerci, noi ti riconosceremo nostro signore ». Il coman­ dante li eccita al lavoro; ma nòn può dar risposta prima di essersi consi­ gliato con i reggitori di Firenze. Ritornato, comunica che la città non vuole impacciarsi della cosa, perchè il legato dell’imperatore fa già campo in Lombardia. Si rivolgano a lui quando sarà in Toscana.

Il diritto di sovranità su un castello si fraziona e si frantuma come il diritto alla proprietà di un qualsiasi appezzamento di terra. Si contrattano parti di castelli, un quarto, un sesto, e fino un ventesimo; ossia si negoziano il diritto di giurisdizione, di nomina del podestà, di approvazione degli statuti. Un qualsiasi uomo del castello può acquistare siffatte quote parti e diventare in parte signore di se stesso e dei suoi compaesani.

L’idea della « signorìa » era, nel pensiero dei rustici i quali popolavano tra il 1000 ed il 1300 i castelli toscani, assai vicina all’idea della cosa co­ mune, del vantaggio collettivo. N el 1156 uno dei signori del castello di Monteficalle concede ad un uomo certe terre prossime al castello coll’obbligo perpetuo di un canone fisso — e questa è vendita vera e propria di terre a titolo privato — ; ma aggiunge che l’acquirente dovrà altresì partecipare alle spese pubbliche « prò comune terre » come fanno gli altri uomini. Trat- tavasi, in sostanza, di un modo di attuare la partecipazione degli abitanti di un luogo alla vita collettiva. Un testo del 1155 così dichiara gli oneri ai quali l’acquirente di un terreno dal signore feudale si assoggettava: « e t opera castelli et adjutorio prò civitate Florentie et prò marchione et rege secundum quod faciunt alios suos homines prò comune terre, secundum suam possibilitatem et non amplius ». Il possessore di una terra o casa nel castello doveva contribuire alle spese comuni del villaggio, riparare le mura, andare in aiuto della città di Firenze o del re; ma non più di quanto faces­ sero gli altri uomini del villaggio, ed entro il limite, oggi si direbbe, della sua capacità contributiva. C’è forse taluno, anche oggi, il quale non sia servitore della cosa pubblica «secundum suam possibilitatem ?». Ed è forse minore d’ allora il rischio di vedere violato il limite del « non amplius?».

(22)

pendenza quasi assoluta ». Tale, che appare legato da vincoli formali severi, è in realtà uomo praticamente libero; laddove altri, con vincoli minori, è dipendente.

Può convenire ad uomini liberi di farsi passare per servi. N el 1198 dodici inviati di Figline, nella valle superiore deH’Amo, giurano fedeltà per il loro castello alla lega toscana e si obbligano, in segno di sudditanza, a

pagare tributo per ogni fuoco. Dal tributo erano esenti i cavalieri ed i « masnaderii », i primi perchè nobili ed i secondi perchè soldati al servizio altrui e formalmente non liberi. V i erano invece soggetti i « pedites », capi­ famiglia più o meno liberi. A Firenze evidentemente avevano supposto che nel castello di Figline abitassero sovrattutto « pedites » ed in questa opi­ nione dovevano essere venuti anche nel vedere l’ambasoiata di Figline com­ posta di sei cavalieri e di sei « pedites », ed uno di questi ultimi era il podestà del luogo. Tuttavia, quando la popolazione ratificò il trattato si vide che tutti quelli ¡q u ali non poterono dirsi cavalieri (questi furono 13), si definirono « masnaderii », la qualifica di « pedites » rimanendo ai cin­ que che, col podestà, avevano firmato il trattato a Firenze. Parrebbe una beffa del novelliere, se non fosse indice della rilevanza unicamente pecu­ niaria attribuita alle qualità , di cavaliere libero fedele livellario o servo nella Toscana del principio del duecento. Per pagare solo 26 denari (diritto di fuoco dell’uomo dipendente da altri) invece di 12 soldi (che erano 144 danari, pagati dall’uomo libero), ognuno metteva, nelle liste dei contri­ buenti, in mostra quel che v’era di dipendente nella sua persona piuttostochè quel che v’era di libero. Poiché, a causa dell’intrecciarsi dei rapporti giuridici fra terra e terra e ir a uomo e uomo, era possibile sempre scoprire in sè stessi qualche aspetto di servizio o censo o canone da rendere altrui, la città di Firenze dovette verso il 1250, se volle riscuotere tributo, acconciarsi ad abbandonare le vecchie finzioni giuridiche e ricorrere all’estimo della for­ tuna netta a qualunque titolo posseduta.

N el 1233 il notaio e giudice Messer Salvi redige (4 maggio) la lista dei fuochi idi Pasignano. Non vi sono registrati i religiosi, che nel 1242 sono, oltre l’abate, 13 monaci e 37 fratelli laici; chè questi fan parte, se monaci, della comunità religiosa alla quale spetta la sovranità del castello o coltivano, se fratelli laici, le terre proprie del monastero. Il notaio registra 78 uomini adulti, divisi forse in 69 famiglie, di cui 5 son cavalieri, 2 soli non si dichiarano espressamente dipendenti dal monastero, 55 sono fittaioli perpetui di questo e di essi 51 gli hanno giurato fedeltà, 5 sono suoi fittaioli semplici, uno gli paga fitto e un altro si dichiara uomo del monastero.

/ ¡'

(23)
(24)

migliaia di possessori. Eppure chi fra qualche secolo leggesse libri catastali e contratti notarili spettanti a qualche comune della Lombardia o del­ l’Italia meridionale potrebbe dipingere un quadro di maniera sulle soprav­ vivenze della servitù perpetua della gleba all’alba del secolo ventesimo!

8. — L ’intreccio dei diritti è talvolta spinto all’estremo. Borgnolino di Borgno, padre di Ristoro, uno dei cinque cavalieri esenti da focatico nel 1233, litigò, lui e i suoi discendenti per intiere generazioni, col mona­ stero, che era il suo signore feudale. Un arbitrato della fine del X II secolo (1193) ci descrive la situazione patrimoniale di quella famiglia. V e uno zio, il quale possiede certe terre franche, in nome proprio, altre per cui paga canone al monastero, ed altre ancora che dipendono da altri domini. Borgnolino ed il monastero si contendono la qualità di livellari, ossia di servi, verso un Arrigo da Montespertoli. Un tal C oki possiede un podere, in parte suo allodiale, in parte dipendente dal monastero e in parte da Borgnolino. Costui ha acquistato da certi venditori terre che in parte erano proprie di costoro e in parte erano tenute in concessione dal mona­ stero. Egli ha ricevuto dal monastero certe terre in pegno e il monastero ha in pegno terre appartenenti a un tale, che, a sua volta, essendo dipen­ dente da Borgnolino, non aveva diritto di impegnarle. Borgnolino sarebbe dunque, contemporaneamente, servo del monastero, ed insieme di volta in volta conservo e consignore insieme col monastero ed ancora creditore di questo e oppositore di vantati diritti del monastero verso un suo servo!

L’intrico in verità non era tale agli occhi di gente la quale era abituata a considerare i rapporti di servitù personale e reale sotto la specie di merci negoziabili. A tirar le somme, non si sa talvolta chi avesse mag­ gior ricchezza, se il domino o il servo. Nel 1295 il monastero ed il notaio ser Monacho di Giovanni si accordano per una che si direbbe liquidazione generale dei reciproci rapporti. Il monastero riceve certe terre appartenenti « jure proprio » al notaio, i diritti a questi spettanti sulle mura ed i fossati del castello, la promessa di non comperare altre proprietà nei castelli di Pasignano e di Poggio al V ento; ed in cambio il notaio acquista « ju re proprio » certe terre e una casa nel borgo di Pasignano ed insieme la piena liberazione da ogni dipendenza personale « de omni vinculi et conditione colonaria ». Non è suggestivo vedere il servo diventar uomo in tutto libero anche grazie alla rinuncia a muover concorrenza al proprio signore nel- l’accaparrar terre? I figli di Baroncetti nel 1277 vengono altresì ad un accomodamento generale col monastero. Oltre ad uno scambio complicato

(25)
(26)

9. — La conclusione del Plesner rispetto alla vera natura del castello a questo punto è precisa:

« Il ’ castello ' tipico, ossia uno degli innumerevoli castelli medievali italiani era cosa ben diversa da una fortezza privata circondata da terre private facenti corpo unito, come fu creduto sin qui dagli storici. Il castello era un borgo fortificato costruito su un piano bene ordinato di città, il quale presupponeva un grado notevole di uguaglianza fra un gran numero di proprietari privati. Costoro erano responsabili in comune per i pesi pubblici ed in una certa misura dipendevano dalla nobiltà feu­ dale investita dell’autorità pubblica locale. Caratteristica della popolazione primitiva del castello è una grandissima indipendenza economica la quale, insieme al godi­ mento di certi diritti originari, garantisce in ogni caso a gran parte degli abitanti una situazione sicura » (9 4 ).

10. — Chi partiva dai castelli per emigrare in città? e chi dei cittadini acquistava le terre dei castelli? Il castello medesimo di Pasignano offre una illustrazione curiosa delle storture che una concezione aprioristica fa dire a valorosi storici. Noi sappiamo che per tutto un secolo gli abati si erano sforzati, talvolta con sacrifici notevolissimi, di acquistare ad una ad una le case e le terre situate nella cinta del castello, insieme con i diritti sulle piazze vie mura e fossati, allo scopo di costituire una proprietà pri­ vata, su cui potere ampliare gli edifici del monastero sottraendoli ad in­ gerenza e servitù fastidiose. Verso il 1300 gli uomini del castello erano stati respinti nel borgo ed il monastero poteva chiudersi entro le mura. Naturalmente all’uopo gli abati dovevano a tratti indebitarsi, specie quando si offriva l’occasione di qualche grosso acquisto, e si voleva sventare la minaccia che un fondo cadesse in altre mani. Nel 1204 l’abate Uberto si confessa debitore di 1500 lire e di 110 moggie di frumento; somma assai considerevole se si pensa che tutto il reddito 'del monastero ammontava in quel tempo a 1200 lire l’anno; nel 1243 l’abate Rodolfo, che già aveva pensato l’anno prima di impegnare o vendere i diritti feudali sul castello di Poggio al Vento e sul borgo medesimo di Pasignano, contraeva un grosso prestito con la casa fiorentina dei Bardi per pagare il prezzo dei beni vendutigli dalla più cospicua famiglia del castello. ¡Da questi fatti, visti a sè, separatamente dagli altri, gli storici ricavarono riprove della teoria della conquista dei grandi feudi del contado da parte dei mercanti usurai della città. Caggese crede di sapere che un bel giorno nel 1205 il monastero era in fallimento. Davidsohn discorre della sua rovina: « le con­ dizioni sono peggiori che in ogni altro luogo, in questo Pasignano un tempo così fiorente ». Il ricco Pasignano cadeva in rovina e quel che pii

/ i\J

‘ J

\ • •/

(27)

donatori avevano offerto per il mantenimento di religiosi contemplativi passava in maggior parte in possesso di gente di finanza senza scrupoli, che nelle oscure botteghe della città ammucchiava ricchezze e stendeva dappertutto le sue reti.

Pura fantasia. Come gli abati si siano liberati dalle crisi di indebita­ mento non si sa con precisione; ma è certo che essi ne escono trionfanti e l’imponente fabbrica del monastero sopravvissuta sino a noi è testimo­ nianza del dominio pieno acquistato alla fine sul castello e degli ampi possessi terrieri accumulati. Ancora nel 1284-85 vi sono 60 famiglie che posseggono poderi a titolo enfiteutico, con obbligo di pagamento di canoni più o meno nominali; e si possono contare dentro il castello 30 patrimoni distinti di case private. N el 1330 vi erano solo più di 26 poderi a canone perpetuo ossia praticamente di proprietà privata, ed il monastero aveva cresciuto a 25 i poderi di suo diretto dominio, affittati a breve scadenza a fittaioli veri e proprii. I debiti sono pagati in varii modi: rivendendo alle famiglie nobili patrone del monastero terre ricevute in donazione e lon­ tane da Pasignano; prendendo a mutuo 600 lire da gente dei dintorni, rimborsabili con un’imposta sugli uomini del luogo. Le case fiorentine di banca dei Cavalcanti, dei Bardi, degli Ubriachi di Firenze sono noverate fra i prestatori; ma fra costoro sono altresì nobili del contado, come gli Scolari ed un Priore di Monteficalle. Il più grosso creditore del monastero era nel 1204 il padre di messer Tolosano, il fabbro Gianni figlio del fabbro Gianello. Famiglia in ascesa questa, se già Gianello si era costruito un mulino ad acqua sul Pesa ed aveva potuto acquistare i terreni attraverso a cui doveva passare il canale adduttore delle acque. L’essere creditori del­ l’abate forse giovò a facilitare la concessione della nobiltà a Messer Telo- sano; ma non turbò i rapporti fra il monastero e questa singolare famiglia di suoi servi. N el 1210 i debiti del 1205 dovevano essere stati pagati, se il nuovo abate ricomincia ad acquistar terre.

(28)

Ottokar aveva già scolpito i rapporti fra città e campagna:

« La città italiana continua di fatto ad essere un centro verso cui conver­ gono e in cui si raccolgono le forze più cospicue della campagna circostante. I no­ bili feudatari e i grandi proprietari della campagna frequentano la città, vi tengono case e fortilizi, vi fanno dimora almeno per una parte dell’anno, partecipano alla vita locale del centro urbano. In queste condizioni è naturale che la città, la quale è anche sede stabile dei maggior domini che si estendono pure sul contado (sopratutto quelli dei vescovi), divenuti centro di tutto un sistema di forze feudali dipendenti, che si raccolgono e si organizzano entro le mura e stabiliscono di fatto legami più ordinati e continui fra la città e il territorio circostante. Queste forze costituiranno più tardi il nerbo del comune cittadino (« Storia del comune medievale » , in « Enci­ clopedia italiana » , voi. X I, pag. 18-1).

Nobili banchieri commercianti artigiani professionisti, in breve tutte le classi sociali, mantengono rapporti continui fra la città ed il contado.

11. — Le grandi famiglie dei patroni, eredi di coloro che nel nono secolo avevano fondato il monastero di Pasignano, posseggono feudi nel Mugello, al nord di Firenze e nella valle superiore dell’Arno, al sud verso Arezzo; esigono, ancora alla fine del X III secolo, pedaggi sulla strada di Arezzo, hanno palazzo e torre a Firenze ancora nel 1260 alla vigilia della rotta della parte guelfa a Montaperti. Il giudice messer Guinizingo da Barberino, uno dei patroni di Pasignano, è nel tempo stesso feuda­ tario influente nel contado e cittadino ascoltato in Firenze. L’idea che la borghesia cittadina sia mossa alla conquista del contado feudale è anti­ storica. N ella città e nel contado le classi dirigenti erano le medesime. Le più antiche famiglie mercantili della città appartenevano alla nobiltà dirigente nel tempo stesso rurale e cittadina.

12. — Quale era l’estrazione del resto, ossia della massa dei citta­ dini fiorentini? Non certo dai servi fuggitivi. Il podestà di Firenze giu­ rava di considerare libero colui che avesse dimorato durante dieci anni in città o nei sobborghi, in casa propria o in casa di affitto, senza che sia giunto reclamo o querela contro di lui al tribunale del comune. Per ecce­ zione il termine era talvolta ridotto da 10 a 5 anni; ma nella Toscana sino al 1300 non fu mai applicato il principio tedesco « Stadteluft macht irei », la dimora per un anno nella città rende libero l’uomo servo. Trat­ tati frequenti regolano la estrazione dei fuggitivi da città e città; e tra le grandi famiglie comitali del contado. N el 1200 la città di Firenze, che pure lottava con i conti Alberti, fece a questi una sola concessione; di

(29)

aiutarli contro i servi di cui essi reclamassero l'estradizione. Due anni più tardi il console della corporazione dei mercati di Firenze promette ai vinti del castello di Semifonte di obbligare i coloni a non abbandonare il castello, trattandoli come se fossero suoi proprii coloni. Il monastero di Pasignano intenta cause dinnanzi ai tribunali fiorentini contro uomini suoi dipendenti, su fondamenta in apparenza tenui; e le vince sempre, sia che la città fosse in mano al « primo popolo », od alla parte guelfa od ai quattordici.

(30)

volle un secolo perchè il trapianto dal castello rurale di Pasignano alla città provinciale fosse definitivo. Un figlio di Rodolfo viveva già verso il 1200 a Poggibonsi; ma ancora nel 1280 vi erano discendenti che possedevano e vivevano 'ed erano consoli e consiglieri a Pasignano; e solo dopo il 1300 paiono essersi stabiliti definitivamente a Poggibonsi.

Par di vedere i membri delle famiglie più facoltose inviare in città i rampolli più avveduti o ardimentosi, mentre i vecchi -e i fratelli restano in campagna; ed i figli che hanno studiato e sono notai e medici far la spola fra la campagna e la città, per curare la vecchia clientela rustica e frattanto mettere radici nella nuova cittadina. La città incoraggiava i legami con i migliori uomini della campagna. Otto von Freisingen a metà del secolo X II già notava: « Le città italiane, per avere uomini con cui sottomettere i vicini, non disdegnano dare la cintura di cavaliere a giovani di bassa estra­ zione, a quegli artigiani medesimi che in altri paesi sono temuti come la peste dagli uomini nobili e liberi. Perciò le città italiane sorpassano tutte le altre in potenza ed in ricchezza » (Gesta Fridericis Imperatoris, Líber II, cap. 13, come citato da Plesner a pag. 135). La città medievale italiana irraggia la sua potenza ben lungi dagli stretti confini del territorio imme­ diato, grazie alla attitudine _ trarre a sè tutto che era vivo e progressivo nel contado. Questi rurali, che erano diventati cavalieri grazie al possesso dei prati e dei campi necessari a mantener sè ed il cavallo, vivono a tratto a tratto, nei momenti agitati, in città; ne acquistano le abitudini; ed a poco a poco sono tratti a stabilirvisi.

La famiglia di Borgnolino, uomo ligio dell’abbazia di Pasignano e nel tempo stesso in perpetua lite col suo signore, è anch’essa presto attratta dalla città. Uno zio, pur pagando per le sue terre canone al monastero, atten­ deva alla tessitura delle calze (calzaiolo) in città fin dal 1130. Un fra­ tello di Borgnolino, verso il 1200, è prete. Nella generazione successiva il cavalier Ristoro ha terre a Pasignano, dà a mutuo al monastero e litiga con questo; ma possiede altrove, verso il 1231, terre dipendenti dal vesco­ vado di Firenze. I nipoti del cavalier Ristoro sono definitivamente cittadini di Firenze, proprietari di case in Santa Maria sopra Porta, ghibellini, e come tali ribelli e banditi dopo il 1267. Solo dopo il 1290 si decidono a vendere terre e case di Pasignano al monastero per buona somma di denaro; e si veggono in stretti rapporti con le famiglie magnatizie degli Scolari e degli Acciaiuoli.

D a un Arrigus vocatus Sirigattus, il quale ha in fitto perpetuo terre dell’abbazia di cui è uomo ligio, discendono un ser Paganello, giudice e

/

(31)

notaio del popolo di S. Simone in Firenze ed un Lapo di Niccolino, che nel 1307 era iscritto come maestro nella corporazione dei mercanti di seta, e, quando il « popolo minuto » partecipò al governo della città, divenne nel 1334 membro del collegio dei priori e nel 1341 gonfaloniere di giustizia. Da questo Lapo discesero 48 priori e 12 gonfalonieri al tempo della re­ pubblica; e la famiglia dei Niccolini-Sirigatti, nobilitata dai granduchi, ancora adesso conserva il palazzo avito in Firenze e la tradizione della pro­ venienza da Pasignano.

14. — Il primo scalino da cui comincia l’ascesa e l’inurbamento degli uomini di Pasignano è la professione di notaio. N el X III secolo le 16 fa­ miglie di cui la genealogia ha potuto essere ricostruita dal; Plesner contano

18 notari e 30 notai si noverano nel solo castello di Pasignano. Forse l’ascesa era agevolata da una scuola rudimentale aperta nel monastero ai figli dei borghigiani; forse la perizia professionale si acquistava dai più avveduti frequentando lo studio di un notaio esercente ed iscrivendosi poi, alla paro di qualsiasi altro artigiano, nella corporazione; e forse i giovani erano attratti numerosi alla professione dalla speranza di partecipare ai vantaggi delle operazioni delle grandi case di banca e di commercio a cui rendevano servizi. V ’era una scala nella dignità notarile; e le liste dei membri dell’arte dei giudici e dei notai in Firenze tra il 1280 ed il 1290 ci dicono di 240 notai stabiliti nei distretti rurali dei sei quartieri urbani, di 442 stabiliti in città e dei più reputati che hanno, invece di quello di sere, il titolo di messere e posseggono la competenza atta a farli sedere come giudici nei tribunali ordinari della città. Dei notai residenti in città, tra un terzo e la metà sono detti originari dal contado; e forse son più., non essendo di tutti dichiarata l’origine. N è si diventava notai a Pasignano per rimanervi. Tra il 1270 e il 1280 ser Bonfrade, che pare fosse il solo notaio residente di continuo a Pasignano, dichiara almeno due volte di non avere in luogo trovato altro notaio il quale potesse aiutarlo in certi casi nei quali occorreva per la validità dell’atto l’assistenza di un secondo notaio.

(32)

castello era diventato una fortezza privata e la terra, accentrata nelle mani di un solo proprietario ecclesiastico, era coltivata da poveri villani, ai quali era negata la speranza di elevarsi. Ad uno ad uno i proprietari maggiori e medi avevano venduto le loro terre al monastero, il quale si trasformava così da semplice dominio feudale in proprietario effettivo. L’emigrazione cessa appunto quando nel X IV secolo sorgano le condizioni immaginate dagli storici per cagionare la fuga in città dei servi scampati dagli artigli del signore feudale. L’emigrazione dal contado nelle città non fu mai un movimento disordinato di masse povere al par di quello che contemplammo in Italia e in Europa lungo taluni decenni del secolo X IX : fu invece un lento inavvertito trasferirsi individuale degli uomini migliori per fortuna o per abilità professionale dal contado alla città dove le speranze di salire erano più varie e promettenti.

16. — Sarebbe interessante seguire passo passo, così come si fece per Pasignano, l’esposizione minuta che il Plesner fa dell’emigrazione a Firenze dal borgo aperto, posto a sette chilometri al sud della città, di S. Alessan­

dro di Giogole. Era S. Alessandro la chiesa battesimale o pieve, centro di un plebato composto di dieci parrocchie più piccole (popoli), di cui essa era prima per dignità. Popoli e plebati erano nomi di circoscrizioni ammi­ nistrative oltreché religiose. G li uomini del popolo eleggevano i loro rettori e questi il sindaco della pieve, che la rappresentava dinnanzi al sesto urbano od alla comune. Ufficio dei rettori e dei sindaci era sovratutto il reparto

dei tributi imposti dalla città.

D a fogli sparsi cuciti tra i protocolli del notaio Attaviano di Chiaro (ser Tano di Giogole), il Plesner ha ricostruito le liste dei contribuenti del popolo di S. Alessandro di Giogole alle quattro date del 1266, del 1271 e del 1276. Il primo foglio è incompleto e riguarda solo una ventina di uomini di Giogole dimoranti in Città.

17. — Caratteristiche fra le molte notizie ordinate dal Plesner sono quelle che si riferiscono alla lotta fra cittadini e contadini per la iscrizione nei ruoli dei contribuenti in Giogole. G li estimi parrocchiali scemano da una volta all’altra: da 2.376 lire nel 1268 sii scende a 1878 nel 1271 ed a 1000 nel 1276. La diminuzione può essere apparente, se il comune ha ripartito un contingente di lire di estimo (4) minore su tutto il territorio; ma può

(4) Le lire di estimo non erano nulla di reale, ma un numero puramente astratto utile a ripartire con equità un carico tributario effettivo separatamente fissato. Che Giogole avesse

’ ' . •I

(33)

essere indice, se il contingente totale di lire d’estimo rimase costante, di una diminuzione proporzionale della capacità contributiva di Giogole in confronto alla capacità totale del territorio fiorentino. C’è qualche pre­ sunzione che ciò sia accaduto; non per effettiva diminuzione dei frutti ri­ cavati dalle terre e dalle case di Giogole; ma perchè un numero crescente di proprietari rurali si trasferisce alla città o, pur dimorando ancora in campagna, riesce a farsi iscrivere nei ruoli cittadini. Quale fosse l’interesse di costoro a pagare in città non è ben chiaro; se perchè in campagna la loro situazione di fortuna fosse meglio conosciuta che in città, ovvero per sot­ trarsi ad oneri specifici locali (stipendi e trasferte ai rettori e sindaci, spese di strade, riattamento di ponti). V i sono sentenze arbitrali del 1270 che obbigano certi sedicenti cittadini a continuare a contribuire ai carichi locali, pur essendo esenti dai tributi già soluti nella parrocchia urbana; se, trascorsi dieci anni, risultasse poi che veramente essi dimoravano in città, cessava il diritto della parrocchia rurale ad esigere alcunché; ma se essi dimoravano in campagna, dovevano ivi essere reintegrati come contribuenti regolari. Tutti i membri delle 11 famiglie più importanti di Giogole iscritte nelle liste del 1226-68 tentarono di diventar « citta d in i» ; il tentativo riuscì per 13 e forse per 10 altri, non riuscì per 5. Tutti questi cittadini o sedicenti cittadini erano contadini dimoranti sulle loro terre di famiglia. Vengono, in seguito, sulle liste 18 altre famiglie di media statura economica. Parecchi dei membri di esse nel 1276 e 1278 sono divenuti cittadini. Caratteristica la vicenda di due fratelli Collazino e Villano di Cambio che nel 1266 avevano in­ sieme un estimo di 105 lire, bastevole a collocarli nella categoria più alta dei contribuenti: 65 spettavano a Collazino e 40 a Villano; cifre astratte, prive di significato intrinseco ed atte solo a chiarire la relativa situazione di fortuna. Collazino, che nel 1260 era ancora noverato fra i rustici, doveva essere industrioso se in quell’anno pagò qualcosa a suo fratello perchè que­ sti lo sostituisse nella prestazione di lavoro, con asino, per il servizio di approvvigionamento dell’esercito. N el 1269 egli mutua denaro a suo fra­ tello, che lo rimborsa fornendolo d’olio in città, dovè già doveva essersi trasferito; e nel 1271 acquista la metà e nel 1276 l’altra metà di un po­ dere di Villano. Questi discende sempre più in giù, riducendosi a coltivare

(34)

come mezzadro il podere che era suo; e vendendo, per dare 50 Lire in dote alla figlia, altre terre al nobile messer Gianni degli Amidei. Frattanto, Collazino dotava le figlie con 121 e 194 lire; ed ereditava dal fratello, morto nel 1295, probabilmente per anticipi fattigli. NeL 1278 il popolo di Giogole reclamava per sè il fratello povero V illano; ma non turbava il ricco Collazino nel possesso del titolo di cittadino.

18. — Un solo tentativo di inurbarsi da parte di proletari è conosciuto da’ Plesner; e non riesce. In verità Firenze non era città da operai forniti di solje braccia. Essa abbisognava di artigiani che animassero i moltissimi laboratori famigliari indipendenti, attraverso a cui la materia prima pas­ sava sino alla compiuta finitura ed alla vendita. Solo i maggiori proprie­ tari rurali avevano i mezzi di diventare padroni di botteghe e di laboratori a Firenze. V i era tra la via di Casellino (poi Maggiore ed ora via Maggio) ed il borgo di Piazza (ora via Romana) una colonia di Giogole, gente ac­ corta, che si accomodava con elasticità a Guelfi ed a Ghibellini; e, anche quando doveva chinare il capo per lasciar passar la raffica, non trascurava gli affari. Uno di questi, Arriguccio, deve ritirarsi, come ghibellino, in cam­ pagna, in un suo podere in Camposorboli, popolo della pieve di Giogole. Benché cittadino fiorentino, si consola del confino attendendo ai poderi, mu­ tuando denaro a parenti, acquistandone i terreni. Quando egli è, nel giugno del 1277, sul letto di morte, Ser Tano gli porta in casa coloro a cui egli aveva dato a prestito ad usura; prima tre, e poi cinque, e poi sei e due; e lo induce a rimborsare tutto o parte dell’usura percepita. Alla fine Arri­ guccio deve essersi stancato delle premure di ser Tano e non fa redigere da lui il testamento. I figli e la vedova si ripartono case forni e poderi. Ar­ tigiani e mercanti nuovi e modesti sanno barcamenarsi fra Guelfi e Ghibel­ lini. Poiché gli Uberti contavano tra le maggiori famiglie nobili ghibelline che dominarono in Firenze tra il 1260 ed il 1266, quei di Ardinghello di Giogole, riflettendo alla casa di commercio da essi condotta, con altri soci, in Firenze, cercano di procacciarsi un patrono dando una loro donna, prov­

vista di dote, a un membro povero della grande famiglia degli Uberti, Brunetto di messer Ildebrandino. Nel; marzo 1261 la dote, fissata in 167 lire, era quasi tutta versata, ma non era ancor stabilito chi fosse la donna; e solo dopo qualche anno la scelta cade sulla loro stessa madre donna Ce­ cilia, vedova di Bonaffede di Ardinghello. Col 1267, messer Brunetto deve andare in esilio e forse si ritira colla moglie in quel, di Giogole; e subito i pieghevoli Ardinghelli pensano alla contro assicurazione. N èl gennaio

Riferimenti

Documenti correlati

(1) Per chi ritenesse eccessivo il giudizio morale mio sul comunismo, giova far pre­ sente una riserva. Ma nelle società complicate civili moderne — forse il

L'idea dello stabilimento di un Banco nella Repubblica facea parte delle diverse misure, che vi siete proposto di coltivare, cittadino vice presidente, sino dai

Sebbene la sua descrizione della steppa russa e della influenza che essa ha esercitalo nella vita dei popoli che l’abitarono o la traversarono sia una delle

« Basta rovesciare la descrizione fatta per un lato per avere quella dell'altro lato. Dalla parte americana, tutto è attività ed affaccendamento. La foresta è

Prù che affermazioni, le mie sono proposte di indagine. Lo stato delle cono­ scenze a proposito della natura delle trasformazioni che si stanno verificando nella

Certo, in via di fatto il problema dell’equilibrio di tali scambi è com­ plesso, quando esaminiamo il numero dei fattori che vi partecipano: gli attriti dello

« Non meno lamentevole e fatale fu la cecità anzi l'autosoddisfacimento con cui si lasciò libero corso ad una evoluzione industriale, la quale, con disprezzo

— La minuta della prima stesura della « Ricchezza delle nazioni » sembra, quanto allo scienziato, offrire la prova definitiva che le idee svolte nei primi due