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1. Il concetto di disabilità: il contesto nazionale e sovranazionale.

La nozione di disabilità ancora oggi desta perplessità. Nonostante si siano fatti passi avanti verso la creazione di una definizione di “disabile” univoca essa risulta ancora oggi non universale. Una delle cause di tale assenza risiede nel fatto che,

la disabilità, è un concetto mutevole nel tempo, capace di cambiare a seconda del contesto culturale e sociale di riferimento.

“Utilizzare termini impropri e fare confusioni linguistiche può essere un modo per aumentare la disabilità invece che ridurla”303: parlare a sproposito della stessa finisce per distogliere l’attenzione dal vero obiettivo.

La nozione che ad oggi risulta essere quella più accreditata è il frutto di un percorso storico a tappe.

“Nell’ambito del dibattito dottrinale sull’accezione assegnata alla disabilità si ritiene che essa venga comunemente intesa come sinonimo di menomazione, cioè̀ una perdita o anomalia strutturale o funzionale che afferisce al fisico, alla mente, ai sensi. Si tratta di uno scostamento dalla media della normalità̀ valutabile con logiche sanitarie. Essa riguarda e risiede esclusivamente nella persona che ne è affetta. Gran parte del corpus normativo ricalca tale accezione che assume la forma del paradigma, ossia del modello interpretativo della realtà̀”304.

Dal punto di vista nazionale dobbiamo citare tre leggi fondamentali: la legge n. 118/1971, la n. 104/1992 e la n. 68/1999; mentre a livello sovranazionale l’attività più proficua e copiosa è stata svolta dall’ Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che ha elaborato due diversi sistemi di classificazione per porre fine al problema della definizione: “l’International Classification of Impairments,

303 A. CANEVARO, “Le parole che fanno la differenza”, Roma, 2000.

304 A. INNESTI, “La nozione di disabilità nel contesto italiano e internazionale” in

Disabilities and Handicaps” (ICIDH) e il successivo “International Classification of Functioning, Disability and Health” (ICF).

L’articolo 2 della legge 118/1971 prevedeva che si considerassero “mutilati ed

invalidi civili i cittadini affetti da minorazioni congenite o acquisite, anche a carattere progressivo, compresi gli irregolari psichici per oligofrenie di carattere organico o dismetabolico, insufficienze mentali derivanti da difetti sensoriali e funzionali che abbiano subito una riduzione permanente della capacità lavorativa non inferiore a un terzo o, se minori di anni 18, che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età”. Gli “invalidi civili” erano

(e sono) coloro divenuti tali per cause non inerenti a lavoro o guerra.

Con i termini invalidità, handicap e disabilità, si fa riferimento a situazioni diverse che, però, come abbiamo appena visto, sono stati frutto di confusioni terminologiche. Infatti l’articolo n. 2 della sopracitata legge attribuisce alla parola “invalido” il significato di “disabile”. Ugualmente viene fatto dal legislatore del ’92 che con l’articolo n. 3, co. 1 della legge n. 104 andrà a equiparare il termine “disabile” con quello di “handicappato”: “presenta una minorazione fisica,

psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione”.

La legge che per la prima volta utilizza la parola “disabile” e non più “invalido” o “handicappato”, è la legge n. 68 del 1999 la quale detta “norme per il diritto al lavoro dei disabili”. Essa all’articolo 1 dispone che “la presente legge ha come

finalità la promozione dell'inserimento e dell'integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di collocamento mirato”. Riferendosi alle abilità della persona la legge ha spalancato la strada al

concetto moderno di disabilità da sempre legato al dibattito internazionale305. La vera innovazione però “consiste nel guardare alla disabilità non come una questione di tipo assistenziale ma come una questione di diritti umani e di partecipazione alla vita della comunità”306.

305 Cfr. A. INNESTI, “La nozione di disabilità nel contesto italiano e internazionale” in

www.bollettinoadapt.it

306 M. BARBERA, “Le discriminazioni basate sulle disabilità”, in “Il nuovo diritto

Dal punto di vista sovranazionale, invece, l’OMS con il metodo di classificazione denominato “ICIDH” mette in atto la distinzione tra menomazione, disabilità e handicap:

• per menomazione s’intende “una qualsiasi perdita o anomalia a carico di strutture o funzioni psicologiche, fisiologiche, anatomiche. È caratterizzata da perdita o anormalità transitorie o permanenti, esistenza o evenienza di anomalie, difetti, perdite a carico di arti, organi, tessuti o altre strutture del corpo, incluso il sistema delle funzioni mentali. Essa è l’esteriorizzazione di uno stato patologico e in linea di principio riflette disturbi a livello d’organo307;

• la disabilità “si caratterizza per spostamenti, per eccesso o difetto, nella realizzazione di compiti e nell’espressione di comportamenti rispetto a ciò che sarebbe normalmente atteso. Si parla di disabilità transitorie o permanenti, reversibili o irreversibili, progressive o reversive. Le disabilità possono insorgere come conseguenza diretta di una menomazione o come reazione di un soggetto, specialmente dal punto di vista psicologico, a una menomazione fisica e sensoriale. La disabilità si riferisce alla perdita delle capacità funzionali estrinseche (attraverso arti e comportamenti) che per generale consenso costituiscono aspetti essenziali della vita di ogni giorno”308;

• l’handicap invece “è una condizione di svantaggio vissuta da un soggetto in conseguenza a una menomazione o ad una disabilità che limita o impedisce la possibilità di ricoprire il ruolo normalmente proprio a quella persona (in base a età, sesso, fattori culturali e sociali…). L’handicap è caratterizzato dalla discrepanza fra l’efficienza o lo stato del soggetto e le aspettative di efficienza e di stato sia del soggetto stesso, che dal particolare gruppo di cui fa parte”309. Questo primo documento verrà sovrascritto nel 2001 dal cosiddetto “ICF”, ovvero il nuovo sistema di classificazione della disabilità elaborato dall’OMS.

L’ ICF definisce la disabilità come “la conseguenza o il risultato di una complessa

relazione tra la condizione di salute di un individuo e i fattori personali e ambientali che rappresentano le circostanze in cui vive l’individuo”.

307 M. FELTINI, “Dall’ ICIDH all’ ICF” in

http://www.disabilitaintellettive.it/index.php?option=com_content&task=view&id=100&Itemid=0

308 M. FELTINI, “Dall’ ICIDH all’ ICF”, op. cit. 309 M. FELTINI, “Dall’ ICIDH all’ ICF”, op. cit.

Il concetto di disabilità è strettamente legato, a differenza del precedente documento, alla salute. Con l’ICF la disabilità non appare più̀ una conseguenza delle condizioni fisiche dell‘individuo nate dal connubio fra lo stesso e le condizioni del mondo esterno310, bensì raggiunge la posizione di valore universale relativamente al fatto che ognuno nella vita può ritrovarsi successivamente in una situazione di quel tipo e non necessariamente nascervi.

Per concludere questo percorso storico come non citare a livello internazionale le fonti che si sono prodigate nei confronti della disabilità:

• la convenzione OIL n. 159 del 1983 all’interno della quale all’articolo n. 1 troviamo una definizione di disabilità che si riferisce ai soli soggetti affetti da handicap mentali e fisici. Essi costituiscono la categoria dei soggetti con maggior difficoltà nel trovare lavoro;

• la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità del 2006 che grazie all’articolo 1, comma n. 1 e n. 2, ci ha fornito la definizione di disabilità e di disabile ponendo fine (o quasi) al dilemma internazionale:

“1. Scopo della presente Convenzione è promuovere, proteggere e assicurare il pieno ed eguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità, e promuovere il rispetto per la loro inerente dignità̀.

2. Le persone con disabilità includono quanti hanno minorazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali a lungo termine che in interazione con varie barriere possono impedire la loro piena ed effettiva partecipazione nella società̀ su una base di eguaglianza con gli altri”.

La convenzione inoltre, all’articolo n. 2, illustra tutte quelle situazioni in cui si può parlare di discriminazione basata sulla disabilità ovvero tutti quei casi in cui “qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che

abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento e l’esercizio, su base di eguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile

o in qualsiasi altro campo. Essa include ogni forma di discriminazione, compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole”.

La Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità “è il primo strumento giuridico vincolante nell’ambito dei diritti umani ratificato dall’Unione europea che si applica in tutti gli Stati membri. Grazie alla Convenzione ONU, a livello comunitario, è stato colmato un vuoto definitorio poiché́ non esisteva una nozione di disabilità condivisa tra gli Stati membri. Tale Convenzione ha contribuito a diffondere un concetto moderno di disabilità”311.

1.1 Modello medico e modello sociale della disabilità.

Nel passare degli anni si sono delineati due diversi tipi di modelli della disabilità: uno medico e l’altro sociale che hanno contribuito al cambiamento della definizione di disabilità.

Il primo modello da illustrare è quello utilizzato fino a qualche decennio fa e denominato “modello medico”. Esso si traduceva nello studio della disabilità attraverso la malattia. Il fulcro dell’osservazione non si fondava sulla persona bensì solo sulla malattia, come se gli aspetti della realtà che circondavano il disabile, fossero elementi trascurabili. Con il modello medico si svolgeva un “processo di oggettivizzazione della persona malata”312. Il modello sociale, invece, è un modello “più omnicomprensivo ed efficace, che tiene conto degli aspetti psicologici e sociali, che osserva la salute dalla prospettiva dell’organismo e dalla sua relazione con l’ambiente e riconosce l’importanza della persona”313. Mentre nel primo caso, quindi, l’attenzione era tutta focalizzata sulla malattia, nel secondo caso rileva l’importanza della persona nella malattia poiché “qualche volta la disabilità può essere superata se si ha la grinta di abbattere gli ostacoli, di cambiare l’ambiente, di rompere le catene”314.

311 A. INNESTI, “La nozione di disabilità nel contesto italiano e internazionale” in

www.bollettinoadapt.it

312 A. ZUCCONI, P. HOWELL, “La promozione della salute. Un approccio globale per il benessere

della persona e della società”, La Meridiana, Bari, 2007, p. 50.

313 A. ZUCCONI, P. HOWELL, op. cit., p. 58.

Per i sostenitori del primo modello i disabili erano dei malati incapaci di relazionarsi con i normodotati e idonei al raggiungimento della parità di trattamento solo se curati e guariti. La disabilità, però, non è questo: non è sinonimo di isolamento o di diversità. Questo è stato ben presto capito dai sostenitori e fautori del modello sociale, tutt’ora vigente.

Il secondo approccio pone al centro dei suoi studi la persona e non più la malattia, all’interno del contesto in cui vive e lavora. Per capirlo a fondo è importante precisare che fino a poco tempo prima della sua nascita e del suo sviluppo, “la disabilità veniva vista quasi esclusivamente come un problema medico del singolo individuo o come una "tragedia personale". Sebbene sia comprovato, dal punto di vista antropologico, che la risposta della società̀ alle persone con menomazioni, o con problemi di salute di lungo periodo, cambia considerevolmente a seconda del tempo, della cultura e dei luoghi, questo è il punto di vista che ha dominato la società̀ occidentale almeno dal tardo diciottesimo secolo. In conseguenza di ciò̀ le persone con disabilità sono state, nel tempo, tenute a distanza dai “normali” o “persone ordinarie”, perché́ ponevano apertamente in discussione valori unanimemente accettati, quali “sfortunato, inutile, diverso, oppresso e malato"315. Sebbene l’espressione modello sociale di disabilità “sia entrata per la prima volta nell'arena politica e sociale nel 1981, le sue fondamenta ideologiche sono sicuramente radicate nelle agitazioni politiche della metà del ventesimo secolo e nella politicizzazione della disabilità da parte di scrittori disabili e di attivisti nei primi anni sessanta”316.

Una “persona ha una disabilità non perché si muove con una sedia a rotelle, comunica con il linguaggio labiale, si orienta con un cane guida, ma perché gli edifici sono costruiti con le scale, perché si pensa pregiudizialmente che comunicare sia possibile solo attraverso il linguaggio orale, perché è possibile

315 P. HUNT, “A critical condition” in C. BARNES (traduzione di A. D. MARRA), “Capire il

modello sociale della disabilità”, in Revista Sociológica de Pensamiento Crítico ( http://www.intersticios.es) , 2008, p. 88.

316 C. BARNES (traduzione di A. D. MARRA), “Capire il modello sociale della disabilità”, in

orientarsi solo attraverso la vista”317:è la società, in primo luogo le istituzioni, che si devono operare per creare un clima idoneo all’inclusione sociale.

L’inclusione sociale avviene mediante l’introduzione dei disabili nella scuola, nel lavoro, nella politica e in tanti altri contesti che ruotano attorno alla società. Il modello sociale non vuole negare quanto affermato da quello medico in precedenza, ma dal momento che si basa sul rispetto dei diritti umani, vuole creare servizi che rimuovano le barriere sociali, ambientali e architettoniche al fine di favorire una partecipazione attiva del disabile alla vita di tutti i giorni. Questo nobile obiettivo consente di andare a contrastare le discriminazioni basate sulla disabilità318. Il modello sociale della disabilità “ci fornisce le parole per descrivere la nostra diseguaglianza. Tiene separate le barriere (che rendono disabili) dalle singole incapacità̀ (non essere in grado di camminare, di vedere, o avere difficoltà di apprendimento) [...], poiché́ il modello sociale della disabilità separa nettamente le barriere che ci rendono disabili dalle singole incapacità̀ e ci consente di concentrarci esattamente su ciò̀ che ci nega i nostri diritti umani e civili e sulle azioni che è necessario intraprendere”319.

2. Le discriminazioni fondate sulla disabilità.

Nel precedente capitolo abbiamo passato in rassegna tutti i fattori che possono provocare le discriminazioni e sugli eventuali altri fattori di discriminazione che esulano dal novero dell’elenco esemplificativo che ritroviamo all’interno delle direttive del 2000. Abbiamo volutamente lasciato fuori il fattore della disabilità che sarà oggetto di tutto l’intero capitolo.

317 R. BARBUTO, V. FERRARESE, G. GRIFFO, E. NAPOLITANO, G. SPINUSO, “Consulenza

alla pari. Da vittime della storia a protagonisti della vita, Comunità, L. Terme, 2007, p. 40.

318 R. BARBUTO, V. FERRARESE, G. GRIFFO, E. NAPOLITANO, G. SPINUSO, op. cit. pp. 44,

45.

319 J. MORRIS in C. BARNES (traduzione di A. D. MARRA), “Capire il modello sociale della

La disabilità, congiuntamente al trattamento riservato dagli umani agli animali e alla condizione dello straniero, è uno dei nodi ancora irrisolti; sono problemi che dovrebbero conformarsi a una teoria generale della giustizia sociale320.

La disposizione più importante a tutela delle persone con disabilità è la n. 104 del 1992, recentemente modificata dalla legge n. 53 dell’8 marzo 2000 e successivamente dal decreto legislativo n. 151 del 26 marzo 2001, che prevede l’attuazione dei diritti Costituzionalmente garantiti nei confronti delle persone disabili. Non solo; la legge mira anche all’eliminazione delle difficoltà relative all’integrazione del disabile all’interno della compagine sociale. L’articolo n. 3 definisce il portatore di handicap come “colui che presenta una minorazione fisica,

psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di vita di relazione, di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale e di emarginazione”.

La tradizione legislativa relativa alla discriminazione per disabilità non si arresta alla legge n. 104 ma prosegue con la legge n. 67 del 1 Marzo 2006. Questa legge subentra andando a colmare le lacune che il d.lgs. n. 216 del 2003 aveva prodotto. Infatti il decreto di attuazione della direttiva europea 2000/78, che prevede la realizzazione della parità di trattamento aldilà degli handicap, è limitata al solo ambito lavorativo, mentre con la legge del 2006, si va ad allargare il divieto di discriminazione in ragione del proprio stato di handicap in tutti i settori, garantendo ai disabili pieno godimento dei loro diritti civili, politici, economici e sociali. La vera innovazione “consiste nel guardare alla disabilità non come una questione di tipo assistenziale, ma come una questione di diritti umani e di partecipazione alla vita della comunità”321.

La citazione appena fatta viene a concretizzarsi con la legge n. 18 del 3 Marzo 2009: questa norma recepisce la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità. La legge del 2009, come recita all’articolo 1, si pone come scopo quello di “promuovere la piena integrazione delle persone con disabilità, in

attuazione dei principi sanciti dalla Convenzione di cui all'articolo 1, nonché́ dei

320 Cfr. M. NUSSBAUM, “Frontiers of justice, disability, Nationality, Species Membership,

Harvard University Press, Cambridge-London, 2006 in M. BARBERA, “Le discriminazioni basate sulla disabilità “, p. 77.

principi indicati nella legge 5 febbraio 1992, n. 104”. La Convenzione ha lo scopo

di “proteggere e assicurare il pieno e uguale godimento di tutti i diritti e di tutte le libertà dei disabili, il rispetto per la dignità intrinseca, l’autonomia individuale (compresa la libertà di compiere le proprie scelte) e l’indipendenza delle persone, la non-discriminazione, la piena ed effettiva partecipazione e inclusione all’interno della società, il rispetto per la differenza e l’accettazione delle persone con disabilità come parte della diversità umana e dell’umanità stessa, il rispetto per lo sviluppo delle capacità dei bambini con disabilità e il diritto a preservare la propria identità”322. Essa inoltre esorta gli Stati a “prendere ogni misura necessaria ad

assicurare il pieno godimento di tutti i diritti umani” e delle libertà fondamentali.

Richiede agli stati misure che vadano a tutelare maggiormente i bambini disabili sottoposti a doppie discriminazioni come l’espianto di organi, gli abusi e l’abbandono.

Gli Stati si devono impegnare a realizzare situazioni di:

• occupabilità, agevolando nell’entrata del mercato del lavoro; • razzismo e xenofobia;

• adattabilità, e quindi promuovere l’assunzione e il mantenimento del posto di lavoro di chi soffre di discriminazioni e disuguaglianze di trattamento nel mercato del lavoro323.

La legge del 18 Marzo 2009, oltre alla autorizzazione della ratifica della suddetta Convenzione introduce l’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità, che all’articolo 3, comma 5 enuncia il suo scopo:

a) promuovere l'attuazione della Convenzione di cui all'articolo 1 ed elaborare il rapporto dettagliato sulle misure adottate di cui all'articolo 35 della stessa Convenzione, in raccordo con il Comitato interministeriale dei diritti umani;

322 T. ONIDA, “Convenzione sulla disabilità” in https://www.minori.it/it/minori/convenzione-sulla-

disabilità.

323 F. BUFFA, “La disciplina lavorativa e previdenziale per i diversamente abili”, Giuffrè, Milano,

b) predisporre un programma di azione biennale per la promozione dei diritti e l'integrazione delle persone con disabilità, in attuazione della legislazione nazionale e internazionale;

c) promuovere la raccolta di dati statistici che illustrino la condizione delle persone con disabilità, anche con riferimento alle diverse situazioni territoriali;

d) predisporre la relazione sullo stato di attuazione delle politiche sulla disabilità, di cui all'articolo 41, comma 8, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, come modificato dal comma 8 del presente articolo;

e) promuovere la realizzazione di studi e ricerche che possano contribuire ad individuare aree prioritarie verso cui indirizzare azioni e interventi per la promozione dei diritti delle persone con disabilità.

Le autorità giudiziarie si sono dovute pronunciare sulle presunte discriminazioni in molti casi. Le loro pronunce riguardano ogni settore e non solo quello lavorativo. Ne sono un esempio le ordinanze del Tribunale di Milano, del Tribunale di Catania, del Tribunale di Pisa e la sentenza della Corte di appello di Torino:

• il Tribunale di Milano con ordinanza del 10 Gennaio 2011 ha confermato la presenza di una discriminazione andando a condannare la Pubblica Amministrazione del luogo a causa del decurtamento di ore di sostegno per alunni diversamente abili: “l'associazione Ledha, legittimata ad agire ex art. 4 l. n. 67 del 2006 e gli altri ricorrenti, tutti genitori esercenti la potestà̀ sui figli minori disabili iscritti agli istituti scolastici di Milano, lamentavano che nell'anno scolastico in corso (2010/2011) gli alunni disabili si erano visti ridurre sensibilmente per ragioni di bilancio le ore di "sostegno" e deducevano che tale scelta delle amministrazioni scolastiche avrebbe generato un'illecita discriminazione dei minori rappresentati, i quali in tal modo avrebbero visto leso il loro diritto allo studio costituzionalmente garantito, in violazione della disciplina antidiscriminatoria prevista nella L. n. 67 del 2006” 324;

• il Tribunale di Catania con ordinanza del 2 agosto 2012, accogliendo la domanda cautelare della ricorrente, ha dichiarato la nullità̀ del licenziamento della lavoratrice disabile, anche se sostenuto formalmente da ragioni prettamente organizzative che celavano però l’intento discriminatorio, con obbligo di reintegro immediato325;

• il Tribunale di Pisa con l’ordinanza del 16 aprile 2015 ha dichiarato discriminatorio il licenziamento nei confronti di una dipendente disabile che recriminava la violazione dell’articolo 5 della direttiva 2000/78, il quale prevede soluzioni ragionevoli per garantire il rispetto del principio della parità̀

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