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Il diritto di essere uguali: le discriminazioni e la disabilità nei rapporti di lavoro.

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Tesi di Laurea

Il diritto di essere uguali: le discriminazioni e

la disabilità nei rapporti di lavoro

Candidata

Relatore

Giulia Salvi

Chiar.mo Prof. Pasqualino Albi

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“Per quanta strada ancora c’è da fare, amerai il finale.”

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INDICE

INTRODUZIONE……….…pag. 7

CAPITOLO I

Origine e sviluppo della tutela antidiscriminatoria.

1. Legislazione antidiscriminatoria precostituzionale……….…...pag. 10 2. Costituzione e tutela antidiscriminatoria……….…....pag. 18 2.1 Uguaglianza e parità di trattamento……….….…pag. 21 3. Legislazione antidiscriminatoria nel periodo post

Costituzionale………...……….…………..…pag. 26 3.1 Il contesto Nazionale……….…pag. 27 3.1.1 Le azioni positive ……….………...pag. 31 3.2 Il quadro europeo e i d.lgs. di recepimento nazionale n° 216/2003 e n°

215/2003………...……….…….pag. 35

(4)

La discriminazione: definizione, configurazione e fattori.

1. La definizione di discriminazione………..pag. 42 1.1. Le discriminazioni dirette e indirette………...….……..pag. 43

1.1.1 Le molestie………...pag. 47

1.1.1.1. I ricatti sessuali……….pag. 49 1.2 La configurazione del comportamento discriminatorio……….pag. 50

1.3 L’onere della prova……….……pag. 52

1.4 Le aree di inoperatività dei divieti: deroghe e

eccezioni………...…pag. 56

2. I fattori di discriminazione……….…….…pag. 61 2.1. Gli ulteriori fattori di discriminazione……….………...pag. 62

2.2. L’età……….………….………...pag. 67

2.3. Il sesso……….………pag. 80 2.4. L’orientamento sessuale……….……….pag. 88 2.5. La religione e le convinzioni personali…………..…...….…...pag. 95

2.6. La razza e l’origine etnica ………...pag. 101 2.7. La legittimazione ad agire, il procedimento e l’onere

probatorio………..……...…pag. 108

2.7.1 Le decisioni del giudice………...……..……...….pag.111

3. Il Mobbing………...…….……...pag. 113

3.1 I criteri di accertamento del mobbing……...………..….pag. 120

3.2 I requisiti del mobbing………...pag. 122

3.3 La tutela dal mobbing……….…....pag. 123

3.4 La responsabilità del datore di lavoro e l’onere della

prova……….…..…..pag. 126

3.5 Le conseguenze del mobbing………...……..pag. 128

3.6 Il “bossing” o mobbing verticale e il “bullying”………….…...pag. 129

(5)

CAPITOLO III

Lavoro e Disabilità.

1. Il concetto di disabilità: il contesto nazionale e

sovranazionale………..…pag. 131

1.1 Modello medico e sociale della

disabilità……….pag. 135 2. Le discriminazioni fondate sulla

disabilità………...pag. 137

2.1 La Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità: origine e sviluppo………..……..pag. 148 3. Le eccezioni, le esclusioni e gli esoneri nei confronti del divieto di discriminare e del lavoratore disabile………..…....…pag. 150

3. 1 Le compensazioni e le sospensioni dell’obbligo di

assunzione………..…….pag. 155

4. I soggetti protetti e l’obbligo di

assunzione………....……..pag. 158

4.1 l’accertamento della

disabilità………...pag. 165

4.2 le Convenzioni per l’inserimento o l’integrazione

lavorativa………...…..….pag. 167

4.3 il licenziamento del lavoratore divenuto

inabile………...…pag.175

4.4 le agevolazioni nell’assunzione del

disabile……….…….. pag. 180

4.5 le sanzioni a carico del datore e del disabile che rifiuta il

(6)

5. Le azioni a difesa delle discriminazioni fondate sulla disabilità e l’onere della

prova………..…….…………..pag. 182

5.1 disabilità e società: strumenti di

denuncia………...…….….pag. 186

CONCLUSIONI………

..………pag. 191

BIBLIOGRAFIA………

...…………..pag. 195

(7)

INTRODUZIONE:

Il diritto antidiscriminatorio, e in particolar modo il divieto di discriminazione, ha assunto un ruolo fondamentale negli ultimi anni, specialmente grazie agli interventi della Corte di Giustizia e al sostegno legislativo nazionale e internazionale. Per capire meglio l’origine e il fulcro del diritto antidiscriminatorio, e nel nostro caso il divieto di discriminazioni nel rapporto di lavoro, dobbiamo precisare che il “diritto al lavoro” è un diritto universale, tutelato sia a livello nazionale che internazionale nei confronti di ogni cittadino. Esso è connesso a principi importanti come la parità di trattamento e l’eguaglianza: ogni lavoratore non deve essere infatti discriminato e tanto meno escluso dalla possibilità di adempiere le proprie mansioni o privato della possibilità di accedere al suo posto di lavoro, per molteplici motivi quali sesso, razza, l’origine etnica, la religione, le convinzioni personali, gli handicap, l’età o l’orientamento sessuale. I principi però che reggono questo diritto, sono spesso oltraggiati in ambito lavorativo e i soggetti investiti da tale pregiudizio sono molteplici. In questo elaborato sarà mio compito illustrarli e far luce sul fatto che le discriminazioni sul posto di lavoro sono in continua crescita rispetto a quanto possiamo credere.

Lo studio vuole offrire un’analisi a 360 gradi sulle discriminazioni sul lavoro e sul diritto antidiscriminatorio sottolineando gli aspetti più significativi e le zone che ancora oggi presentano molteplici lacune. Non solo: questo studio approfondirà il tema della condizione di disabilità e del suo impatto nell’ ambito lavorativo. L’elaborato si apre con un “viaggio” all’interno delle varie fasi storiche che hanno portato all’affermarsi di un vero e proprio diritto antidiscriminatorio, costituendone uno dei capisaldi a livello nazionale e internazionale. Partiremo da un’analisi del periodo pre-costituzionale, soffermandoci sulle fasi storiche del diritto del lavoro, dove si vengono a tracciare le prime linee di intervento contro le discriminazioni, per proseguire con le leggi regolatrici della materia dell’orario del lavoro di fine ottocento e inizio novecento, per arrivare poi fino alla legislazione fascista, che

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introduce alcune norme sfavorevoli alle donne lavoratrici. L’excursus storico prosegue con l’avvento della Costituzione e la nascita dei principi fondamentali e dei diritti dei cittadini, relativi ai rapporti economici. In particolar modo ci soffermeremo sull’articolo 3 della Costituzione, il quale al primo comma indica “una serie di discriminazioni tipiche vietate dalla Costituzione, il c.d. “nucleo forte” del principio di uguaglianza, ovvero una serie di qualità (sesso, razza, lingua, religione, ecc.) che il legislatore è tenuto a non considerare come eventuali presupposti giustificativi per operare scelte legislative differenziate” 1.

In conclusione del primo capitolo, una speciale attenzione viene data al graduale sviluppo del diritto antidiscriminatorio in ambito europeo: infatti mentre a livello interno eravamo già a buon punto, grazie anche allo statuto dei lavoratori e alle sue successive modifiche, a livello europeo questo sviluppo arriverà solo con l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam nel 1999 e il successivo Trattato di Lisbona, in vigore dal 2009.

Non solo: lo sviluppo del diritto antidiscriminatorio è anche il risultato dell’emanazione delle direttive di seconda generazione, in particolare la direttiva 2000/43 CE attuativa del principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica”, recepita nel nostro ordinamento con il D.lgs. 9 luglio 2003, n. 215; la direttiva 2000/78 CE attuativa del principio della parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro indipendentemente dalla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, recepita nel nostro ordinamento con il D.lgs. 9 luglio 2003, n. 216 ;la direttiva 2002/73 CE attuativa del principio del principio della “parità di trattamento tra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro, recepita nel nostro ordinamento con il D.lgs. 30 maggio 2005, n. 145 ed infine la direttiva 2006/54 CE “riguardante l'attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego”.

Tutto questo costituisce un processo di continuo arricchimento e rafforzamento

1 F. DAL CANTO, “Manuale di diritto costituzionale, italiano ed europeo” a cura di R.

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indirizzato ad offrire sempre più tutele alle vittime di discriminazioni e ad allargare il campo normativo.

Nel secondo capitolo ci soffermeremo sulla nozione di discriminazione, e sulle varie tipologie di discriminazione. Non sono tralasciate le modalità con cui si configura un comportamento discriminatorio e sui fattori discriminatori alla luce delle direttive europee e dei D.lgs. 215/2003 e D.lgs. 216/2003, includendo fenomeni particolari come le molestie e il mobbing.

Nel terzo ed ultimo capitolo l’attenzione si focalizzerà nello specifico sulla discriminazione del disabile sul posto di lavoro con ampi riferimenti giurisprudenziali. Occorre infatti affrontare casistica concreta, per verificare come la giurisprudenza abbia integrato le disposizioni di legge integrando i principi sovranazionali e come si sia data attuazione alle norme che tutelano il diritto al lavoro dei disabili.

Concludendo, in questa elaborato si è voluto presentare il sistema previsto dal diritto antidiscriminatorio nella sua globalità, soffermandoci particolarmente su una delle discriminazioni più diffuse degli ultimi anni: infatti è passato molto tempo, da quando l’unica discriminazione riconosciuta era quella legata al genere.

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CAPITOLO I

ORIGINE E SVILUPPO DELLA TUTELA ANTIDISCRIMINATORIA

1. Legislazione antidiscriminatoria precostituzionale.

L’attuale tutela antidiscriminatoria è figlia di scelte e di continue modificazioni sia a livello nazionale che internazionale. Per andare a ricercare le sue origini, dobbiamo tornare indietro nel tempo e focalizzarci soprattutto sul periodo precedente all’entrata in vigore della Costituzione.

Nonostante la legislazione precedente all’entrata in vigore della carta costituzionale non presenti un copioso numero di norme in materia, è possibile individuare ugualmente tre fasi storiche, che costituiscono il primo nucleo della disciplina antidiscriminatoria.

La prima fase è definita “della legislazione sociale” ed è nata a seguito della rivoluzione industriale. È chiamata così perché in questo periodo “lo Stato comincia ad emanare singole leggi volte, timidamente o no, a risolvere piaghe della situazione esistente. In tutti i paesi il primo intervento fu a favore delle donne e dei fanciulli, per limitare gli orari di lavoro o per inibire le attività̀ più̀ pesanti o pericolose”2. La legislazione sociale è quindi l’insieme di quelle norme e dell’istituti giuridici, dirette alla protezione di coloro che si trovano in particolari condizioni di bisogno, soprattutto donne e fanciulli3.

“Sul piano formale, la legislazione sociale si presenta in posizione eccezionale rispetto al sistema del diritto comune, come risposta dell’ordinamento alla questione sociale sorta per effetto del processo di industrializzazione”4.

2 G. PERA, “Diritto del lavoro”, Giuffrè, Milano, 1990, p. 7. 3 O. MAZZOTTA, “Diritto del lavoro”, Giuffrè, Milano, p. 5.

4 E. GHERA, A. GARILLI, D. GAROFALO, “Diritto del lavoro”, Torino, G. Giappichelli, 2017,

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La seconda fase è quella “dell’incorporazione” dove assistiamo ad un amalgamarsi della disciplina del lavoro in quella di diritto privato, pur rimanendo dotate di propria autonomia5.

Infine l’ultima fase detta della “costituzionalizzazione”, dove molti principi propri della normativa lavoristica, vengono inglobati in quella che oggi è la nostra Costituzione6.

Come già detto la fase della legislazione sociale si caratterizza per un intervento dello stato nei confronti delle classi sociali più deboli. Ed è quindi in questo contesto che nasce la legge Berti, dell’11 Febbraio 1886 n. 3657, legge del Regno d’Italia, che venne promulgata durante il governo “Depretis VII”, e che prende il nome del ministro dell’istruzione proponente “Domenico Berti”. Attraverso questo provvedimento, viene fissata un’età minima e un orario minimo di lavoro per donne e bambini. “Questa legge introduceva il divieto di utilizzare il lavoro dei minori di nove anni in opifici, cave e miniere; limitava a otto ore giornaliere l’orario di lavoro per i minori di dodici anni e a sei ore il lavoro notturno dei fanciulli dai dodici ai quindici anni nei lavori pericolosi e insalubri. Con questa legge avrebbe dovuto esaurirsi tutta la legislazione sociale italiana”7.Invece si rivelò essere uno dei peggiori provvedimenti sociali europei: il più incompleto e difettoso.

In effetti, la legge del 1886 “taceva sul lavoro festivo dei fanciulli; fissava a nove anni l’età minima di ammissione al lavoro; proibiva il lavoro notturno solo per i minori di dodici anni, non regolava affatto il lavoro delle donne”8, mentre invece in altri paesi come Spagna, Francia o Danimarca, si era fatto un passo avanti in quella direzione.

Questa norma non fu mai attuata del tutto, perché oltre a mancare i presupposti economici e politici, lo stato non si occupò mai di nominare una commissione di ispettori per verificare la sua attuazione.

Una successiva legge fu quella del 19 Giugno 1902 n. 242, denominata anche Legge Carcano, in onore del ministro preponente. Essa sembrava essere il dolce epilogo

5 Cfr. O. MAZZOTTA, op. cit., p. 9. 6 Cfr. O. MAZZOTTA, op. cit., p. 11.

7 M.V. BALLESTRERO, “Dalla tutela alla parità: la legislazione italiana sul lavoro delle donne”,

Il Mulino, Bologna, 1979, p. 11.

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dei vari tentativi della riforma del 1886(che non aveva nessun riferimento alla tutela del lavoro femminile), grazie anche alla spinta dei vari movimenti femministi e della fazione socialista. Ma ben presto ci renderemo conto che essa anziché raggiungere gli scopi tanto agognati, arriverà alla soluzione diametralmente opposta.

La legge, andando a unificare la situazione di donne e bambini:

• fissava a dodici anni il limite di età per l’ammissione al lavoro dei fanciulli; • vietava il lavoro per coloro che avevano meno di quindici anni in luoghi

insalubri e dannosi per la salute;

• vietava i lavori sotterranei per “ragioni morali e sociali” e limitava l’orario lavorativo a dodici ore, per le donne di tutte le età; mentre per le donne minorenni veniva solo vietato il lavoro notturno;

• per le “donne minorenni era prescritto l’obbligo di un libretto e di un certificato medico per essere ammesse al lavoro; inoltre chiunque avesse avuto alle proprie dipendenze donne di qualsiasi età era tenuto a farne ogni anno regolare denuncia”9.

In questa legge sono presenti principi appartenenti ad altre norme straniere come la legge francese “sul lavoro dei fanciulli e delle donne” del 1892.

Questa disposizione fu molto cara alla compagine socialista, che si schierò sempre dalla sua parte anche se a seguito dell’entrata in vigore della stessa, nel Luglio del 1903, ci si rese ben presto conto, che i riscontri erano tutt’altro che positivi: anzi miravano ad andare a danneggiare la condizione della donna.

La vera novità di essa fu il congedo di maternità: infatti le madri reduci dal parto non potevano essere ammesse dal lavoro se non solo dopo almeno quattro settimane da lo stesso. Ovviamente questo congedo era gratuito: per avere una qualche retribuzione, anche minima bisognerà aspettare la legge del 17 Luglio 1910 n. 520. Con il congedo di maternità non retribuito il legislatore introduce un principio nuovo ovvero quello della “difesa sociale della madre operaia”10. In realtà, come precedentemente accennato, nonostante il perno della legge ruotasse attorno alla

9 M.L. DE CRISTOFARO, “Tutela e/o parità? Le leggi sul lavoro femminile tra protezione

uguaglianza”, Bari, Cacucci, 1979, p. 52.

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“donna, fatta sacra dalla maternità”11, “la mancata retribuzione del congedo esprimeva non un embrionale riconoscimento del valore sociale della maternità, ma un giudizio di preminenza del ruolo familiare delle donne”12. La legge quindi tende a incentivare i datori di lavoro e ad incoraggiare l’assunzione di donne nubili: questo capovolgeva quello che era l’obiettivo iniziale. Esistevano fabbriche dove si preferiva assumere donne non sposate o stabilimenti dove venivano licenziate ragazze in occasione del loro primo parto.

Nulla in questa circostanza si dice sul periodo antecedente al parto. Da qui possiamo individuare due tipi di scopo di questa legge: uno scopo ideale, che consisteva nel tutelare le donne nell’industria; uno scopo reale, che voleva evitare che le donne minorenni si stancassero durante la giornata lavorativa e generassero una stirpe debole e gracile.

Dall’applicazione della legge resta escluso il settore agricolo e il lavoro a domicilio. “Il lavoro delle donne e dei fanciulli veniva accomunato in una legge protettiva di tipo sanitario, emanata in nome dell’interesse della nazione alla tutela della salute. In altri termini, la regolamentazione legislativa della materia era sostenuta, non dalla opportunità di colpire lo sfruttamento delle donne e dei minori, ma dalla necessità di salvaguardare la razza dai danni fisici e morali prodotti dal lavoro industriale”13 .

Quindi in definitiva la legge andava a tutelare la donna non in quanto lavoratrice, bensì in quanto genitrice.

L’esecuzione della legge venne affidata al Ministro dell’Agricoltura, dell’Industria e del commercio, mediante gli ispettori del lavoro. Se le disposizioni della presente legge non venivano rispettate, la pena inflitta era semplicemente un’ammenda nei confronti del trasgressore.

Novità ancora più grande fu la previsione dell’istituzione di una camera speciale per l’allattamento nelle industrie dove erano impiegate più di 50 operaie, anche se doveva comunque esser concessa alle madri abitanti nei pressi dello stabilimento,

11 G. CASALINI, “A difesa delle madri”, in Critica Soc.,1903, p. 113.

12 M.V. BALLESTRERO, “Sorelle di fatiche e di dolori”, “madri di pionieri e di soldati” (alle

origini della legislazione sul lavoro delle donne), in “Materiali per una storia della cultura giuridica”, 1977, p. 85.

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la possibilità di poter scegliere se recarsi nelle camere specialmente adibite oppure se allattare a casa il proprio bambino.

Il provvedimento successivo alla deludente legge Carcano fu la legge del 7 Luglio del 1907 n. 416, che andava a modificare parzialmente la legge del 1902 e che confluirà nel TU del 10 Novembre 1907 n. 816. Con essa verrà introdotto il divieto assoluto di lavoro notturno per tutte le donne di qualsiasi età, con un’eccezione: gli industriali avrebbero potuto valutare, secondo opportunità, se e quando fare ricorso al lavoro notturno14.

Successivamente troviamo la legge del 17 Luglio del 1910 n. 520, la quale istituiva per la prima volta il congedo per maternità con retribuzione: infatti con l’istituzione della Cassa di Maternità, le lavoratrici madri poterono cominciare a godere di un sussidio nel periodo di assenza dal lavoro: 30 lire le venivano erogate dalla cassa di maternità, mentre altre 10 lire venivano fornite dallo Stato. Tutto questo chiaramente aveva carattere assistenziale.

Nonostante questi primi tentativi di progresso, il primo conflitto mondiale provocò un periodo di inerzia, che non portò a nessuna novità legislativa.

Il conflitto mondiale generò una sempre più crescente richiesta di armi e armamenti e questo comportò l’impiego di molte donne nell’industria bellica per sostituire gli uomini chiamati al fronte: esse dovevano lavorare in continuazione e per questo motivo il divieto di lavoro notturno venne sospeso con il regio decreto del 14 Agosto 1914 n. 925. In questo contesto nasce quello che sarà il primo nucleo di discriminazione, in quanto le donne impiegate nelle industrie belliche, percepivano uno stipendio di gran lunga inferiore rispetto a quello che avrebbe percepito il lavoratore maschio, chiamato però al fronte: vi fu uno sfruttamento spietato della donna volta alla massimizzazione dei profitti dell’imprenditore per poi liquidarle una volta ritornati gli uomini dal fronte15.

Questo periodo fu poco fecondo a livello legislativo: per avere una qualche novità bisognerà aspettare la fine della guerra.

La legge del 17 Luglio 1919 n. 1176, segnò una tappa fondamentale di quello che era (messo in stand-by dagli eventi bellici) il percorso dell’emancipazione della

14 M.V. BALLESTRERO, op. cit., p. 27 e ss.

15 Cfr. M.V. BALLESTRERO, “Dalla tutela alla parità: la legislazione italiana sul lavoro delle

(15)

donna. La legge fu denominata “Sulla capacità giuridica delle donne” e di seguito riportiamo uno degli articoli, se non il più importante, il n. 7:

“Le donne sono ammesse, a pari titolo degli uomini, ad esercitare tutte le

professioni ed a coprire tutti gli impieghi pubblici, esclusi soltanto, se non vi siano ammesse espressamente dalle leggi, quelli che implicano poteri pubblici giurisdizionali o l’esercizio di diritti e di potestà politiche, o che attengono alla difesa militare dello Stato secondo la specificazione che sarà fatta con apposito regolamento.”

A partire dagli anni venti in Italia si avvia il periodo di dittatura noto come “ventennio fascista”, una fase segnata da una legislazione mista nei confronti delle donne e dei fanciulli.

Infatti “si può dividere la legislazione fascista nei confronti delle donne in leggi espulsive e discriminatorie e leggi protettive e di tutela”16. Quanto detto deve

riuscire a far capire bene ciò che non solo è l’ideologia fascista, ma anche l’idea politica che accompagnerà questo regime per tutta la sua durata.

L’ ideologia si concretizza nella campagna demografica con la quale il regime si propone di raggiungere un forte incremento del tasso di natalità.

“Non rischia certo l’originalità chi afferma che la propaganda demografica esprima, in sintesi l’ideologia antifemminista”17 . Infatti il ruolo che i fascisti, e in primo luogo il loro leader Benito Mussolini, volevano attribuire alla donna era quello di generatrici di figli (se possibile maschi) che avrebbero difeso la patria partendo per la guerra.

Non solo: nell’immaginario collettivo del fascista la donna era nettamente e soprattutto mentalmente inferiore all’uomo e quindi non avrebbe potuto lavorare ma avrebbe dovuto occuparsi solo dell’educazione dei figli e della cura della casa. Come diceva Benito Mussolini nel suo discorso del 20 Giugno 1937 alle donne fasciste “Come donne italiane e fasciste voi avete dei particolari doveri da compiere: voi dovete essere le custodi dei focolari, voi dovete dare con la vostra

16 S. LUNADEI,” Il fascismo contro le donne: l’ideologia, le leggi”, Milano, 2013 in

http://anpi.it/media/uploads/files/2013/03/Abstract_relazione_Lunadei.pdf.

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vigilante attenzione, col vostro indefettibile amore, la prima impronta alla prole che noi desideriamo numerosa e gagliarda”18.

Questa teoria si tradusse in legge: può essere considerata la sintesi dell’ondata di leggi e provvedimenti nei confronti delle donne, che specificano che l’unico tipo di lavoro tollerato era quello domestico (incentivato per fare in modo che ci fossero così più posti per gli uomini negli stabilimenti), seppure fosse idoneo a riuscire a integrare e arricchire il reddito portato dal capofamiglia:

1. A partire dal 1923 furono messi in atto provvedimenti espulsivi dal lavoro nei confronti delle donne, con l’obiettivo di limitare la loro occupazione in particolar modo nelle fabbriche: “si cominciò col proibire alle donne l’insegnamento della filosofia e dell’economia nelle scuole secondarie e a vietare loro la direzione delle scuole medie e secondarie”19; non solo: si vietò

alle donne di poter intraprendere la carriera di presidi, direttrici, di istituti e scuole medie, tranne che per le scuole professionali femminili che “preparavano le giovinette all’esercizio delle professioni proprie delle donne”. Ricordiamo che la scuola era il settore che vedeva il più alto numero di donne impiegate. 2. Legge n. 221 del 1934 vietò alla pubblica amministrazione l’assunzione delle

donne, comportando quindi una discriminazione di genere;

3. Durante il 1938 venne proibito ai datori di lavoro di ogni settore di assumere più del 10% delle donne: questo provvedimento però ebbe vita breve, in quanto l’esigenza militare che chiamò molti uomini al fronte, provocò uno spopolamento degli stessi in fabbrica e questo favorì l’occupazione (seppur temporanea) femminile.

Oltre a questi provvedimenti repressivi, ce ne sono stati altri di tipo invece protettivo nei confronti delle stesse che si tradussero nella legge promulgata il 26 Aprile del 1934 n. 653 che andava a modificare a precedente legge del 1907. Le principali innovazioni furono:

• l’estensione della lista dei lavori pesanti, pericolosi e insalubri vietati alle donne minori di ventuno anni con aggiunta di lavori “moralmente pericolosi”;

18 B. MUSSOLINI, “Discorso alle donne fasciste” in

http://www.adamoli.org/benito-mussolini/pag0679-.htm, 20 Giugno 1937.

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• estensione delle misure di controllo igienico-sanitarie20.

Queste nuove norme protettive, che in realtà non erano altro che un “restyling” della legge del 1907, non si applicavano in tutte i settori ma ne erano esclusi il lavoro familiare, domestico e a domicilio.

Le leggi di repressione del lavoro femminile miravano ad un unico scopo ovvero quello di scoraggiare gli industriali dall’assumere manodopera femminile e di prediligere il sottopagato e sotto protetto lavoro a domicilio, il quale costituiva una integrazione dei compiti della donna.

Altro provvedimento protettivo fu la legge n. 1347 del 5 Luglio 1934 a tutela delle lavoratrici madri che si pose come obiettivo quello di vietare il licenziamento della donna durante il periodo di astensione obbligatoria, che cambierà qui nome e assumerà quello che oggi è la “maternità”.

Nasce così “l’opera nazionale per la protezione e assistenza della maternità e infanzia” definita dal Duce, come “una creazione tipica del regime”. L’ONMI si occupava della donna dalla gravidanza all’allattamento e si preoccupava di tutelarla nella conservazione del suo posto di lavoro durante la gravidanza e il suo successivo periodo di astensione obbligatoria derivante dal puerperio e dall’allattamento. Non solo: anche di garantirle la possibilità di allattare il bambino durante la giornata di lavoro e di percepire il sussidio obbligatorio.

Con questi provvedimenti “la donna doveva tornare sotto la sudditanza dell’uomo padre o marito: sudditanza e quindi inferiorità spirituale, culturale, economica. Nell’abolizione del lavoro femminile, si vide soprattutto un mezzo per la restaurazione della indispensabile sudditanza della donna all’uomo”21. Con questa sua affermazione l’economista e studioso sociale, ispiratore della stessa politica sociale del regime fascista Ferdinando Loffredo, consigliò agli stati di vietare l’istruzione professionale alla donna e di ammettere solo quella che avrebbe fatto della stessa una brava madre e moglie.

I provvedimenti repressivi confluirono poi nella legge del 3 Aprile 1926 n. 563 chiamata anche “legge Rocco”, che volle regolare i rapporti collettivi di lavoro.

20 M.V BALLESTRERO, op.cit., p. 24.

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Questa legge “si incaricò, nella sostanza, più che nella forma, di bandire la libertà sindacale. In astratto infatti si ammetteva siffatta libertà, ma nei fatti si negava il pluralismo sindacale, dal momento che un solo sindacato di diritto pubblico per ciascuna categoria produttiva (sia per datori che per i lavoratori) poteva ottenere il riconoscimento legale dal governo”22.

I sindacati fascisti, che si scioglieranno con il D.lg. 23 Novembre 1944 n. 369, mantennero i salari della donna intorno al 50 % rispetto a quelli maschili, e concordarono la classificazione del lavoro femminile (operaio) in un’unica categoria “donne” di “grado inferiore all’operaio comune maschio23.

In questa legge troviamo una prima forma di discriminazione di genere: il tentativo di parità arriverà tra il 1927 e il 1931 quando che il divario tra i salari dell’uomo e della donna, scenderà sotto il 50 %.

“Con le amare vicende del dopoguerra e nel momento del passaggio dal sistema liberale al regime fascista, si concluse la prima (lunga e complessa) fase della legislazione sul lavoro delle donne”24.

2. Costituzione e tutela antidiscriminatoria.

Dopo la caduta del fascismo, il Re Vittorio Emanuele, istituì una luogotenenza in favore del figlio Umberto, dopo aver lasciato la corona, e affidò all’assemblea costituente l’incarico di scegliere tra monarchia e repubblica.

La soluzione della questione, arrivò con il referendum del 2 Giugno 1946, dove i cittadini italiani scelsero la repubblica.

Quasi due anni dopo, il 1 Gennaio 1948 entrò in vigore la legge fondamentale dello Stato: la Costituzione repubblicana.

22 O. MAZZOTTA, “Diritto sindacale”, Giappichelli, Torino, 2012, p. 4.

23 M.V BALLESTRERO, “Sorelle di fatiche e di dolori”, “madri di pionieri e di soldati” (alle

origini della legislazione sul lavoro delle donne) p. 110 in M.L. DE CRISTOFORO, “Tutela e/o parità? Le leggi sul lavoro femminile e uguaglianza”, Cacucci, Bari, 1979, pp. 118, 119.

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La Costituzione è composta di 139 articoli, e tra i primi 12 troviamo i principi fondamentali.

L’articolo fulcro è il n. 3 che esprime il “principio di uguaglianza”: “Tutti i cittadini

hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

A tal proposito dobbiamo anche segnalare l’articolo 4, che custodisce il principio lavoristico e i successivi articoli 35, 36, 37, 39, 40, 46 concernenti quelli che sono i rapporti economici.

L’articolo 4 riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Alla base dell’attuazione dell’articolo 4 non dobbiamo tralasciare quanto enunciato dall’articolo 3: infatti per garantire nel migliore dei modi le condizioni di lavoro lo Stato deve assicurare la parità di trattamento indipendentemente dal tipo di lavoratore che si trova dinanzi. Nel fare questo deve far si che i comportamenti discriminatori vengano duramente puniti e repressi. Non solo: deve creare le condizioni utili affinché questi atteggiamenti, non vengano proprio posti in essere.

Il principio lavoristico deve essere letto congiuntamente con il resto degli articoli: • articolo 35, in cui viene prevista la tutela del lavoro in tutte le sue forme; • articolo 36, nel quale si stabilisce che il lavoratore ha diritto a una retribuzione

proporzionata e sufficiente alla qualità e quantità del suo lavoro che sia in grado di permettergli il sostentamento della propria famiglia;

• articolo 37, “la Costituzione si preoccupa di tutelare i soggetti più deboli del rapporto di lavoro, stabilendo, in particolare, che la donna lavoratrice, debba avere lo stesso trattamento che spetta all’uomo per quanto riguarda, in particolare, l’accesso al lavoro, la retribuzione, la progressione in carriera25”: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse

25 F. DAL CANTO, “Manuale di diritto costituzionale, italiano ed europeo” a cura di R.

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retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”.

Esso comunque costituisce uno dei problemi ancora non risolti visto che in Italia la retribuzione femminile è tutt’ora inferiore rispetto a quella maschile26; • articolo 39, dove viene riconosciuta la libertà dei sindacati, vietati in passato; • articolo 40, dove si riconosce il diritto di sciopero, grande conquista dei nostri

giorni dato che in passato era stato vietato e punito penalmente fino al 1889. Questo articolo si riferisce solo al diritto di sciopero, mentre tace sulla serrata. La differenza tra sciopero e serrata risiede nel fatto che mentre lo sciopero “costituisce la forma più incisiva di autotutela degli interessi collettivi dei lavoratori, e una loro tipica azione di lotta”27, la serrata invece è “il mezzo di lotta sindacale più radicale utilizzato dagli imprenditori, che consiste nella chiusura totale o parziale dell’impresa e, cioè, nel rifiuto di accettare la prestazione di lavoro e, conseguentemente, pagare le retribuzioni”28. Entrambe sono forme di autotutela, che si sostanziano in azioni di lotta, che però vengono esercitata da soggetti diversi. Perciò, “nella Costituzione Italiana, mentre lo sciopero costituisce esercizio di un diritto, la serrata in quanto tale, cioè come mezzo di lotta nel conflitto collettivo, non trova una qualificazione giuridica specifica”29;

• articolo 46, riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende.

La Costituzione repubblicana costituisce una svolta anche per il diritto dl lavoro. Infatti, come possiamo ben vedere all’articolo 1 della stessa, i padri costituenti attribuirono al lavoro un’importanza così preminente, da farne addirittura fondamento della Repubblica30.

Nel modello di società prefigurata all’articolo 1 della Costituzione è “palese la speciale posizione rivestita dai lavoratori subordinati per il fatto che il grandioso

26 A. GRECCHI, “Globalizzazione e pari opportunità”, Angeli, Milano, 2001, p. 48. 27 M.V. BALLESTRERO, “Diritto sindacale”, Giappichelli, Torino, 2012, p. 369. 28 G. GIUGNI, “Diritto sindacale”, Cacucci, Bari, 2010, p. 285.

29 G. GIUGNI, “Diritto sindacale”, Cacucci, Bari, 2010, p. 233.

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moto storico di emancipazione di cui sono stati promotori e sono protagonisti, e che reca in germe una nuova concezione dei rapporti sociali, è ancora in fase di svolgimento, sicché permanendo tuttora il loro stato di parziale assoggettamento di fonte ad altre classi, viene reso necessario l’impiego di appositi, speciali mezzi di tutela, indirizzati a correggerlo”31. Questa imponente e importante affermazione del noto costituzionalista, trova il suo sfogo nell’articolo n. 3 della Costituzione noto come principio di uguaglianza, che al terzo capoverso, “assegna ai lavoratori dipendenti il ruolo e la funzione di propulsori della partecipazione effettiva al progresso morale e materiale della società in evidente contrapposizione al ruolo assegnato, nella stessa norma, alla persona umana”32.

La particolare importanza che la Costituzione dà al diritto del lavoro, rispetto ad altre branche come il diritto privato o commerciale, la ritroviamo anche all’articolo 41, il quale “garantisce l’iniziativa economica privata, ponendo come limite invalicabile l’utilità sociale, la dignità, la libertà e la sicurezza delle persone”33. L’articolo 41 quindi pone le basi della libertà d’impresa, ovvero poter iniziare, ridurre, o cessare l’attività.34

2.1 Uguaglianza e parità di trattamento.

La parità di trattamento, non può non essere affrontata unitamente al principio generale di uguaglianza, che trova, come è noto, formale riconoscimento nell’articolo 3 della nostra Costituzione35.

L’articolo suddetto è uno dei principi fondamentali, che contiene implicitamente, il principio di non discriminazione, in quanto vede al primo comma “precise

31 C. MORTATI, in O. MAZZOTTA, op. cit., p. 7. 32 O. MAZZOTTA, op. cit., p. 8.

33 E. GHERA, “Diritto del lavoro”, Cacucci, Bari, 1983, p. 19. 34 O. MAZZOTTA, op. cit., p. 9.

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limitazioni che hanno riflessi sia in campo pubblicistico sia in campo privatistico, vietando la formazione di atti comportanti discriminazioni derivanti dal sesso, dalla razza, dalla lingua, dalla religione, dalle opinioni politiche, personali e sociali”36. Questo importantissimo articolo può essere definito il cuore della costituzione perché ne rappresenta una delle sue principali chiavi di lettura: non a caso la corte costituzionale con la sentenza n° 25 del 1966 lo definì “principio generale che

condiziona tutto l’ordinamento nella sua obiettiva struttura”, necessario per lo

sviluppo dell’essere umano. L’articolo è la conseguenza dei valori che discendono dalla rivoluzione francese e dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. L’ entrata in vigore del principio di uguaglianza segna un passaggio decisivo nei confronti del passato, quando la titolarità dei diritti e dei doveri dipendeva dalla classe sociale, dalla religione o dal sesso di appartenenza.

Sulla base di quanto detto, la legge deve rivolgersi a tutti e nessuno può essere esonerato dal rispettarla. Il legislatore quindi non può emanare leggi “ad personam” che vadano a favorire alcuni cittadini e a lederne altri, indipendentemente dalle cariche istituzionali ricoperte.

L’articolo afferma il principio di matrice liberale di eguaglianza formale, situato al primo comma, mentre al secondo troviamo” l’incisivo principio” di uguaglianza sostanziale37.

Come è stato efficacemente scritto, il 2° comma della disposizione “prende infatti in considerazione due modelli contrapposti di struttura socio-economica e socio istituzionale: l’uno per rifiutarlo, l’altro per instaurarlo”38:

• Il primo comma enuncia l’uguaglianza formale, ovvero l’uguaglianza di tutti di fronte alla legge: governanti e governati, uomini e donne, cittadini e non cittadini. Nonostante la norma faccia riferimento ai soli cittadini, la corte costituzionale con la sentenza n. 120 del 1967, è intervenuta estendendo l’operatività di questo principio, anche nei confronti di apolidi, stranieri e clandestini, relativamente al godimento dei diritti insopprimibili dell’individuo. Quindi per uguaglianza formale s’intende la medesima titolarità di tutti gli

36 L. ANGIELLO, op. cit., p. 2. 37 O. MAZZOTTA, op. cit., p. 8.

38 U. ROMAGNOLI, “Art. 3, 2° comma”, in Commentario della Costituzione. Art. 1-12. Principi

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individui di diritti e doveri, in quanto tutti sono uguali davanti alla legge e tutti devono essere, in egual misura, ad essa sottoposti. Le varie specificazioni «senza distinzioni di» furono inserite affinché non avessero luogo le discriminazioni, quali, Così, l’uguaglianza «senza distinzioni di razza» serviva a preservare l’ordinamento costituzionale, mettendolo al riparo dall’infamia delle leggi razziali.

• Il secondo comma enuncia invece l’uguaglianza sostanziale, “imponendo alla Repubblica una serie di azioni positive con lo scopo di offrire a tutti le pari opportunità economiche, politiche e sociali che creano le condizioni di base del welfare state”.39 Le azioni positive “hanno la finalità di ‹‹eliminare le disparità di fatto di cui le donne sono oggetto nella vita lavorativa e favorire il loro inserimento nel mercato del lavoro››: questa è la definizione che il diritto della Comunità Europea e la Corte di Giustizia CE hanno nel tempo sostanzialmente mantenuto valida per introdurre nei corpi normativi dei singoli paesi tale strumento di attuazione delle politiche di pari opportunità”40; devono quindi concretamente andare a tutelare la maternità, i minori, gli indigenti, gli invalidi e i non abbienti. Attraverso l’uguaglianza sostanziale, lo Stato si assumono quindi l’impegno di rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini: il compito dello Stato è di agire concretamente per metter tutti nelle stesse condizioni di partenza, dotando ognuno di pari opportunità per sviluppare e realizzare pienamente e liberamente la propria personalità.

L’articolo 3, secondo l’autorevole opinione di Lelio Basso, giurista e membro della Costituente, non soltanto doveva essere “un comando per il legislatore futuro”, che avrebbe dovuto “fare le leggi per rendere effettiva l’uguaglianza” ma, molto di più, doveva introdurre nel cuore dell’ordinamento costituzionale una contraddizione la cui dinamica era destinata a trasformare le strutture della Costituzione in senso materiale41.

39 F. DEL GIUDICE, “Costituzione esplicata”, Simone, Napoli, 2018, p. 20. 40 Cfr. https://www.wikilabour.it/azioni%20positive.ashx.

41 L. BASSO, “Giustizia e potere. La lunga via al socialismo”, Quale giustizia, n. 11-12/1971, p.

654. In C. GIORGI, “L’uguaglianza tra diritto e storia (italiana). Momenti e figure di un principio Costituzionale”,2018, p. 4, in costituzionalismo.it.

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Corollario del principio di uguaglianza “è il più̀ generale principio di ragionevolezza alla luce del quale la legge deve regolare in maniera uguale situazioni uguali ed in maniera diversa situazioni diverse, con la conseguenza che la disparità di trattamento trova giustificazione nella diversità̀ delle situazioni disciplinate”42. La Repubblica ha quindi il dovere di rimuovere gli ostacoli economici e sociali, tutte le volte che essi impediscono lo sviluppo della persona e la quiete della convivenza sociale.

Attraverso il principio della ragionevolezza, i divieti di discriminazioni sono stati estesi, per via giurisprudenziale, agli orientamenti sessuali, all’handicap, all’età. Il principio di uguaglianza trova ampio riconoscimento anche in altri articoli della Costituzione come ad esempio il numero 29, che conferisce a entrambi coniugi parità morale e giuridica, oppure l’articolo 37, che parifica i diritti della lavoratrice donna a quelli dell’uomo. Anche a livello europeo il principio di uguaglianza trova la sua tutela e più propriamente nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione

Europea in particolar modo negli articoli 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26 che compongono

il titolo III. Essi assicurano: l’uguaglianza di fronte alla legge, la non discriminazione in senso assoluto, la parità di trattamento tra donne e uomini (affermative action) e i diritti di anziani, disabili e minori.

La carta introduce chiaramente un diritto, ovvero quello degli anziani a una vita dignitosa, che la nostra Costituzione non menziona espressamente.

Tuttavia esso è espressione del principio di non discriminazione, che non è altro che uno strumento del principio di uguaglianza capace di ribadire e rafforzare il concetto.

Strettamente legata al principio di uguaglianza e a quello di non discriminazione è la parità di trattamento, la quale allude in prima analisi al rapporto uomo-donna: questo rapporto è sempre stato travagliato e ha condotto perennemente la donna in una condizione di inferiorità. Il fine del trattamento egualitario non si esaurisce solo in queste due categorie bensì deve essere interpretato nel senso più assoluto in relazione a molte più categorie, quali ad esempio i disabili.

42 T. BAGLIONE,” Il principio d’uguaglianza nella giurisprudenza della corte costituzionale” in

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Fulcro del principio della parità di trattamento non è altro che la legge n. 903 del 1977. Essa nasce sulla spinta dei movimenti femministi che si fanno carico del problema generale della condizione della donna, soprattutto dal punto di vista lavorativo. Ricordiamoci che fino a questa “svolta” le leggi erano volte a disincentivare l’imprenditore ad assumere manodopera femminile43.

Essa si compone di “diciannove articoli, disomogenei per contenuto e per importanza riconducibili a tre direttive di politica del diritto. Le tre direttive sono le seguenti: statuizione formale della pari dignità delle lavoratrici e della parità di trattamento tra le lavoratrici e i lavoratori; promozione della parità delle donne nel lavoro; incentivazione dell’occupazione femminile attraverso la riduzione del costo del lavoro delle donne”44.

La legge mira in assoluto alla destituzione dei trattamenti sfavorevoli; la rimozione delle disposizioni a tutela del lavoro femminile (che rendevano in passato diversa la condizione della donna); al divieto di discriminazione in materia di lavoro per ragioni di sesso (gli atti discriminatori verranno considerati da questo momento in poi nulli). L’uguaglianza di trattamento è realizzata dal legislatore allineando il trattamento delle donne a quello degli uomini. A questo riguardo, molto importanti sono gli articoli 9, 10, 11, 12 della suddetta legge che vanno a ribaltare la situazione previgente in materia di lavoro. Non solo, “queste disposizioni riconoscono tra l’altro, sul piano della previdenza sociale, quella parità giuridica tra i coniugi già voluta dalla Costituzione Italiana (art. 29)”45

La legge n. 903/77 ribaltando completamente la situazione previgente e occupandosi di attuare la parità di trattamento si allinea all’articolo 37 della Costituzione, andando ad ampliare quanto già detto dallo stesso. A tal fine questa norma prevede il divieto di discriminazione e la nullità degli atti conseguenti. Ci sono però delle eccezioni tassative a queste regole che riguardano chi svolge mansioni particolarmente pesanti o lavora nel campo della moda o spettacolo46. La legge non termina qui, ma si estende anche all’ambito della retribuzione che

43 Cfr. M.V. BALLESTRERO, “Parità e oltre: parità, pari opportunità e azioni positive”, Ediesse,

Roma, 1989, p. 47 e ss.

44 M.V. BALLESTRERO, op. cit., p. 47. 45 M. V. BALLESTRERO, op.cit., p. 48.

46 Cfr. M.L DE CRISTOFARO, “Dalla tutela alla parità”, op. cit., p. 126 e ss.; cfr. G. VIDIRI, “La

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ancora oggi però lascia dubbi e perplessità.

Essa inoltre impone che i sistemi di classificazione professionale adottino criteri comuni per uomini e donne e vieta la discriminazione nell’attribuzione delle mansioni, delle qualifiche e nella progressione nella carriera.

A completamento di questa linea di intervento, la l. 903/77 ha inoltre:

• apportato una prima modifica all’ultimo comma dell’art. 15 St. lav., estendendo il divieto di discriminazione agli atti discriminatori per motivi di sesso, di razza e di lingua.

• ha perseguito l’obiettivo della parità di trattamento ai fini previdenziali per ciò che riguarda assegni familiari e pensioni.

Concludendo va però detto però che la norma non ha eliminato tutte le differenze oggettive esistenti nell’ambito lavorativo, tra maschi e femmine. “La generale presa di coscienza delle innegabili maggiori difficoltà che ancora oggi le donne incontrano nel mondo occupazionale ha reso evidente la non riuscita della legge n. 903 del 1977, che pur si prometteva di pervenire al superamento di quelle disparità di fatto che pregiudicano le opportunità delle donne, segnatamente nel mondo del lavoro”47.

3. Legislazione antidiscriminatoria nel periodo post Costituzionale.

A seguito dell’entrata in vigore della Costituzione il processo legislativo, che si pone come obiettivo la parità di trattamento e in generale la non discriminazione in campo lavorativo e non, non si arresta: esso continua a correre portando i suoi frutti sia in campo nazionale che internazionale e Europeo.

Di seguito vedremo quelli che sono i principali interventi:

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3.1 Il contesto Nazionale.

Negli anni successivi all’entrata in vigore della Costituzione, la prima legge da analizzare è quella del 26 Agosto 1950, n. 850 che venne intitolata “Norme sulla

tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri”.

Le novità importate da questa legge furono:

• estensione del periodo di interdizione dal lavoro;

• riposi giornalieri per allattamento fino al compimento di un anno di età del bambino;

• diritto all’indennità giornaliera pari all’80% della retribuzione per tutto il periodo di assenza obbligatoria dal lavoro;

• divieto di licenziamento durante il periodo di gestazione e fino al compimento di un anno di età del bambino48.

Questa legge venne considerata il “provvedimento più avanzato nel campo della protezione della maternità, fra quelli vigenti nei paesi occidentali”49. Lo era anche se faceva si che dei retaggi di legislazione passata continuassero a veicolare nell’epoca post Costituzionale.

Gli elementi che riescono a sfuggire all’abrogazione a seguito dell’entrata in vigore della Costituzione furono:

a) le clausole di nubilato, ovvero speciali clausole capaci di provocare l’estinzione del contratto di lavoro a seguito o in procinto delle nozze;

b) i licenziamenti in occasione delle nozze, strumento utilizzatissimo dai datori di lavoro;

c) i contratti a termine, utilizzati dal datore di lavoro per “manipolare” e “sorvegliare” le lavoratrici50.

Queste rimembranze del passato, continuarono ulteriormente ad allargare il divario tra lavoratore uomo e lavoratrice donna, e a preferire l’occupazione maschile creando una forte ondata di disoccupazione femminile.

48 M.V. BALLESTRERO, op. cit., p. 39; Cfr. M. V. BALLESTRERO, “Dalla tutela alla parità”,

op. cit., pp. 144, 145.

49 M.V. BALLESTRERO, op. cit., p. 39. 50 M. V. BALLESTRERO, op. cit., pp. 150, 151.

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Tutto questo ha però un termine che possiamo fissare nella legge del 9 Gennaio 1963, n. 7 che sancì il divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio e che modificò la previgente legge n. 860 del 195051.

La legge stabilì la nullità delle clausole di nubilato, specificando che dovevano essere considerate come non apposte qualora venissero previste; si considerarono come nulli i licenziamenti per causa di matrimonio nel periodo che andava dalle pubblicazioni a un anno dopo il matrimonio ed infine si prevedevano nulle le dimissioni presentate dalla lavoratrice nello stesso periodo per il quale si prevedeva la nullità dei licenziamenti sopra citati52.

La novità di questa legge fu il diritto al reintegro della lavoratrice ingiustamente licenziata e un indennizzo per il pregiudizio sofferto.

Gli anni successivi furono caratterizzati da un vuoto normativo in questa materia, che confluì nello Statuto dei lavoratori, ovvero la legge del 20 Maggio 1970, n. 300.

La legge contiene norme sulla tutela della dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro.

Lo statuto dei lavoratori si caratterizza proprio per aver garantito in termini di effettività quanto le disposizioni costituzionali prevedevano sul piano generale dei principi. Infatti ha articolato in modo più puntuale la vigenza del principio di non discriminazione avendo specifico riguardo alle discriminazioni connotate da antisindacalità53.

Gli articoli più importanti da trattare sono sicuramente il n. 15, n. 16 e n. 28, che contiene uno speciale procedimento nei confronti di comportamenti antisindacali del datore di lavoro.

L’art 15 costituisce la “consacrazione del principio di non discriminazione nei rapporti di lavoro”54: “È nullo qualsiasi patto od atto diretto a:

a) subordinare l'occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte;

51 M. V. BALLESTRERO, op. cit., p. 149. 52 M. V. BALLESTRERO, op. cit., pp. 157, 158. 53 O. MAZZOTTA, op. cit., p. 8.

54 F. CARINCI, R. DE LUCA TAMAJO, P. TOSI, T. TREU, “Diritto del lavoro, diritto sindacale

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b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero”.

L’articolo 15 pone come divieto generale quello degli atti di discriminatori. Andando a leggerlo attentamente, la prima cosa su cui dobbiamo focalizzarci è la locuzione “è nullo qualsiasi patto o atto diretto a”. Con questa frase si vuole sottolineare la generalità del principio. L’articolo 15 lettera b) si riferisce a ogni tipo di atto di qualsiasi natura esso sia e a qualsiasi comportamento posto in essere, come per esempio trasferimenti discriminatori o provvedimenti disciplinari. La particella “diretto” vuole essere sinonimo di “oggettivo”, ovvero oggettivamente idoneo a produrre la lesione del diritto tutelato55.

Infatti ogni comportamento, o ogni atto di qualsiasi natura esso sia, diretto alla lesione di un diritto tutelato o di un interesse del lavoratore, deve essere considerato nullo. Per quanto riguarda il regime sanzionatorio ogni comportamento discriminatorio, viene sanzionato con la nullità, senza far riferimento alla sanzione penale. Unico obiettivo è quello di ripristinare la situazione del lavoratore esistente prima che si fosse verificato il pregiudizio56.

Bisogna chiarire però che cosa s’intenda per discriminazione ovvero “una differenza di trattamento, che produca un effetto pregiudizievole e che sia direttamente o indirettamente basata su un fattore, la cui considerazione è vietata”.57 Quanto detto però inizialmente valeva solo per le discriminazioni recate in ambito sindacale: ovvero si considerava discriminato colui che veniva trattato in maniera diversa, arrecandogli addirittura un pregiudizio per la sola colpa di aver aderito ad un’associazione sindacale piuttosto che un’altra, maggioritaria nello stabilimento, oppure avesse deciso di aderire a uno sciopero.

Le norme dello statuto si riferiscono ad ogni atto di gestione del rapporto ed anche a comportamenti della vita di relazione.

Oggi l’articolo 15 non si applica solo alle discriminazioni per ragioni sindacali, ma è stato ampliato a seguito del susseguirsi delle leggi:

55 M.V. BALLESTRERO, “Diritto sindacale”, Giappichelli, Torino, 2012, p. 173. 56Cfr. O. MAZZOTTA, op. cit., p. 8.

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1. oltre ai motivi politici e religiosi, la legge n. 903 del 1977 è andata ad inserire le discriminazioni razza, lingua e sesso;

2. il d.lgs. 216/2003 si spingerà fino all’introduzione delle discriminazioni riguardanti handicap, età, orientamento sessuale e convinzioni personali; 3. infine il d.lgs. 145/2005 ha annoverato tra le discriminazioni anche le

molestie58.

Queste innovazioni però non hanno portato ad un’unificazione procedurale, per cui mentre le discriminazioni avente carattere sindacale vengono perseguite e sanzionate anche in base all’articolo 28 dello statuto dei lavoratori (condotta antisindacale), gli altri tipi di discriminazioni presentano un complesso e specifico procedimento.

Anche l’articolo 16 dello Statuto è utile ai nostri fini: “È vietata la concessione di

trattamenti economici di maggior favore aventi carattere discriminatorio a mente dell'articolo 15”. La discriminazione avente carattere sindacale può avvenire in

molteplici modi tra cui quella di andare a attribuire particolari benefici e vantaggi economici a lavoratori. L’articolo 16 vieta proprio questo: non solo per i casi di natura sindacale, ma per tutte le circostanze che hanno allargato il novero delle discriminazioni dell’articolo 15.

Per trattamento economico di maggior favore s’intende “qualsiasi beneficio, vantaggio o utilità, di tipo continuativo o anche occasionale, che non consiste necessariamente nella corresponsione di una somma di denaro, ma sia comunque valutabile in termini economici”59. Può avere natura individuale, e quindi rivolgersi a un solo lavoratore oppure natura collettiva e riguardare un gruppo di lavoratori. Tra i trattamenti economici di maggior favore, possiamo riscontrare il premio per chi non sciopera. L’unica differenza che possiamo riscontrare tra l’articolo 15 e 16, sta nel fatto che l’attribuzione di un vantaggio economico, non comporta la nullità dello stesso, bensì al datore di lavoro verrà inflitta una sanzione amministrativa60. L’iter legislativo va avanti e sfocia nella legge del 30 Dicembre 1971 la n. 1204 che attua una relativa parità di trattamento tra le lavoratrici impiegate in molti settori dell’economia e le madri adottive o affidatarie.

58 www.uilcaubibanca.it.

59 M.V. BALLESTRERO, op. cit., p. 175.

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La vera svolta (o almeno in teoria avrebbe dovuto esserlo) si ebbe con la già citata legge 903 del 1977: essa venne considerata l’anello della catena che vedeva contrapposte da una parte la parità di trattamento e dall’altra la non discriminazione. Sostanzialmente lo scopo della norma fu quello di andare ad abrogare tutte quelle previsioni che formalmente predicavano la parità, ma che in realtà allargavano ulteriormente il divario. Tuttavia questa legge che fece ben sperare non condusse al risultato auspicato.

Il legislatore, quindi, si rimise al lavoro ed elaborò la legge n. 125 del 1991 capace di modificare la precedente. Questa nuova disposizione, oltre a colmare le lacune precedenti, introdusse le cd azioni positive: iniziative volte a intervenire sulle cause strutturali della disparità tra uomo e donna e “dirette a favorire, l'occupazione femminile e realizzare, l'uguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel lavoro, anche mediante misure (denominate azioni positive per le donne al fine di rimuovere) volte alla rimozione degli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità”61.

3.1.1 Le azioni positive.

La “non completa riuscita della legge n. 903 del 1977 ha determinato l’emanazione della legge 10 Aprile 1991 n. 125, con l’introduzione nel nostro ordinamento delle c.d. azioni positive”62. La legge s’intitolava “Azioni positive per la realizzazione

della parità uomo donna nel lavoro”.

Le disparità di trattamento aumentavano e le discriminazioni erano all’ordine del giorno, per cui era doveroso continuare il percorso legislativo affinché si trovasse una soluzione a questo problema. Con questo tipo di azioni ci si poneva il duplice obiettivo di andare non solo a tutelare la donna, ma anche favorire tecniche di

61 L. CALAFA’, “Nuovi modelli di azioni positive nell’attuazione delle politiche di

antidiscriminazione razziale ed etnica” in formazionelavoro.regione.emilia-romagna.it/.../documentazione/.../nuovi_modelli.pdf.

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sviluppo che portassero ad avere un implemento dell’impiego della donna nel lavoro. Nonostante i vari interventi legislativi, lo scopo delle azioni positive è rimasto il medesimo.

L’espressione azioni positive “non nasce nel nostro ordinamento, ma è mutuata dall’esperienza statunitense, ricollegandosi alle affirmative actions: interventi di politica governativa finalizzati alla concessione di benefici a coloro che, a causa dell’appartenenza ad un gruppo specifico, fossero vittime di discriminazioni”63. Per quanto riguarda il loro ingresso nel diritto italiano, il sistema giuridico non ha trovato una definizione vera e propria, bensì si è focalizzata sul loro scopo: “tali azioni possono essere identificate come misure concrete, dirette ad assicurare alle donne pari opportunità di inserimento sociale, economico e politico, combattendo le forme di discriminazioni dirette e indirette di cui sono sempre state vittime e consentendo la predisposizione di un ambiente e di condizioni di lavoro ad esse favorevoli”64. Esse sono mezzi generali e astratti, caratterizzati dal criterio della temporaneità, che mirano al raggiungimento dell’uguaglianza sostanziale. Una differenza tra il divieto di discriminazione e le azioni positive, risiede nel fatto che mentre “il divieto di discriminazione ha valenza bidirezionale, le azioni positive sono destinate ad operare soltanto in favore del genere svantaggiato (delle donne)”65.

Alla legge del 1991, fece seguito la legge n. 53 del 2000 “Disposizioni per il

sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città”: con questa legge i padri ottennero il

privilegio di assentarsi dal lavoro per occuparsi dei figli al posto delle madri. L’argomento delle azioni positive non si esaurisce in queste due leggi bensì trovano espressa menzione nell’articolo 42 del decreto legislativo n. 198/2006 convertito poi nel Codice delle pari opportunità (contenente quindi la legge 125/1991) che recita al primo comma: “Le azioni positive, consistenti in misure volte alla

rimozione degli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari

63 D. POLITANO,” Legge 125/1991: azione positive per la realizzazione della parità uomo-donna

nel lavoro” in “Diritto&Diritti, 2014, https://www.diritto.it/articoli/lavoro/politano.html.

64 D.POLITANO, op. cit.

65 A. RIVARA, “Azioni positive di genere e per la conciliazione”, 2013 in

http://www.unife.it/progetto/cultura-di-genere/materiale-didattico/Azioni%20positive%20L08-11-2013-AR.pdf.

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opportunità, nell'ambito della competenza statale, sono dirette a favorire l'occupazione femminile e realizzare l'uguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel lavoro”.

Di mezzi per promuovere questo tipo di azioni ce ne sono stati molti, e tante sono le azioni positive promosse tanto che non riusciamo a racchiuderle entro uno schema tassativo ed esemplificativo. Possiamo però rifarci al secondo comma dello stesso articolo 42 del codice delle pari opportunità il quale stabilisce le finalità e gli scopi delle stesse:

a) eliminare le disparità nella formazione scolastica e professionale, nell'accesso al

lavoro, nella progressione di carriera, nella vita lavorativa e nei periodi di mobilità;

b) favorire la diversificazione delle scelte professionali delle donne in particolare

attraverso l'orientamento scolastico e professionale e gli strumenti della formazione;

c) favorire l'accesso al lavoro autonomo e alla formazione imprenditoriale e la

qualificazione professionale delle lavoratrici autonome e delle imprenditrici;

d) superare condizioni, organizzazione e distribuzione del lavoro che provocano

effetti diversi, a seconda del sesso, nei confronti dei dipendenti con pregiudizio nella formazione, nell'avanzamento professionale e di carriera ovvero nel trattamento economico e retributivo;

e) promuovere l'inserimento delle donne nelle attività, nei settori professionali e nei

livelli nei quali esse sono sottorappresentate e in particolare nei settori tecnologicamente avanzati ed ai livelli di responsabilità;

f) favorire, anche mediante una diversa organizzazione del lavoro, delle condizioni

e del tempo di lavoro, l'equilibrio tra responsabilità familiari e professionali e una migliore ripartizione di tali responsabilità tra i due sessi.

Dobbiamo soffermarci anche sugli altri articoli: 1. l’art. 43 indica i soggetti promotori;

2. l’art. 44 è dedicato ai finanziamenti;

3. l’art. 45 riguarda le azioni inserite nella formazione professionale; 4. l’art. 48 riguarda le azioni positive nella pubblica amministrazione66.

66 M. BARBERA, “Il nuovo diritto antidiscriminatorio, il quadro comunitario e nazionale”,

(34)

Le azioni positive sono strumenti capaci di eliminare le discriminazioni in corso andando a ristabilire la condizione iniziale e allineandosi al principio costituzionale della parità di trattamento. A tal proposito l’ambito in cui esse trovano maggior applicazione è quello relativo all’accesso al lavoro.

Questo strumento può certamente eliminare situazioni di inferiorità sociale ed economica o disuguaglianze, ma non potrà mai eliminare i diritti fondamentali garantiti reciprocamente ai cittadini in quanto tali. La corte costituzionale ha riconosciuto la illegittimità costituzionale delle misure che, nell’ “attribuzione dei diritti fondamentali introducono differenziazioni in ragione del sesso in quanto imposto per legge”67.

Tuttavia la stessa corte con la sentenza n. 422 del 1995, precisa che non devono essere valutate negativamente, quelle disparità di trattamento basate sul sesso, che vengono prese in esame da partiti politici o associazioni, durante la campagna elettorale o nel proprio programma68. Tutto questo risulta essere conforme con i principi del diritto comunitario: infatti già l’articolo 1, n. 1 della direttiva 76/207/CEE attribuisce alla stessa la finalità della parità di trattamento, andando invece a specificare all’articolo 2, n. 4 il dovere degli stati di proporre le misure idonee ad evitare tale disparità. Seguiranno poi le direttive 2002/73 e 2006/54. Questo importante principio viene ribadito anche all’articolo 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, la cosiddetta carta di Nizza del 2000 e presente anche nell’ articolo 157, 4° comma del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, che garantisce e assicura “l’effettiva e completa parità̀ tra uomini e donne nella vita lavorativa”.

In conclusione dobbiamo specificare che quanto detto fino ad ora non si riferisce solo alle azioni positive di genere, ma anche a quelle legate ad altri fattori come l’età, la disabilità e l’orientamento sessuale.

67 G. VIDIRI, op. cit., p. 168.

(35)

3.2 Il quadro europeo e i d.lgs. di recepimento nazionale n. 216/2003 e n. 215/2003. Grazie al processo d’integrazione europea, anche in Europa si venne a delineare una nuova stagione antidiscriminatoria.

Il primo passo verso una politica di unificazione del principio di discriminazione, venne portato avanti con il Trattato di Amsterdam entrato in vigore nel 1999 che, in linea con il suo scopo, incaricò il consiglio europeo di occuparsi del fenomeno antidiscriminatorio. Infatti il consiglio avrebbe dovuto andare a combattere le discriminazioni basate sulla razza, origine etnica, religione, convinzioni personali e orientamento sessuale e avrebbe dovuto riconoscere più autonomia al principio di non discriminazione dandole valore di principio fondamentale69.

In particolare è da segnalare l’articolo n. 13 del summenzionato Trattato (articolo n. 13 già presente nel vecchio TCE), ad oggi immesso nell’articolo n. 19 del TFUE in vigore dal 2009: “Fatte salve le altre disposizioni del presente trattato e

nell'ambito delle competenze da esso conferite alla Comunità̀, il Consiglio, deliberando all'unanimità̀ su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, può̀ prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali”. La risposta del

Consiglio a questa richiesta da parte del trattato non tardò ad arrivare e sfociò nelle direttive più importanti a livello comunitario:

• Direttiva 2000/43/CE • Direttiva 2000/78/CE

• Direttiva 2002/73/CE (la quale modifica la precedente 76/207/CE)

Le direttiva 2000/78 sulla “parità di trattamento in materia di occupazione e di

lavoro” e la 2000/43 che attua il “principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica” hanno lo scopo di

69 Vedi sul punto

http://www.europarl.europa.eu/factsheets/it/sheet/3/i-trattati-di-maastricht-e-di-amsterdam; S. NICCOLAI, “L’esperienza antidiscriminatoria europea” in

http://people.unica.it/silvianiccolai/files/2012/04/DIR-PARI-OPP-2013-2014-2-UE.pdf; cfr. L. TRIA, “Il divieto di discriminazione tra Corte di Strasburgo e Corti interne” in

http://www.europeanrights.eu/public/commenti/LUCIA_TRIA_DIVIETO_di_DISCRIMINAZIO NE_2014.pdf.

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