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La discriminazione: definizione, configurazione e fattori.

1. La definizione di discriminazione.

Arrivati a questo punto della trattazione dobbiamo cominciare ad esaminare il problema partendo dalla nozione di discriminazione: per discriminazione s’intende “l’applicazione di un trattamento diverso in situazioni che si presentano sostanzialmente uguali”72.

La definizione di discriminazione estrapolata dalle direttive del 2000 tende ad inquadrare il fenomeno all’interno di una nozione oggettiva della stessa; “essa si individua infatti, non solo in astratte differenziazioni, ma nelle situazioni di sfavore che effettivamente si verificano e indipendentemente dalle motivazioni soggettive di chi le realizza”73.

Come abbiamo visto nel precedente capitolo, le discriminazioni e il loro successivo divieto nascono in Europa ma in poco tempo riescono a proliferare e a insediarsi anche in territorio italiano, tanto da stimolare lo sviluppo del principio c.d. di “non discriminazione” embrionalmente presente in molti ordinamenti europei, tra cui il nostro.

Quest’ultimo garantisce la parità di trattamento e la protezione nei confronti di tutti coloro che subiscono trattamenti differenziati.

Grazie a ciò colui che subisce il pregiudizio ha la possibilità di chiedere la cessazione del comportamento lesivo ed eventualmente il risarcimento del danno subito.

72 http://www.treccani.it/enciclopedia/discriminazione/.

73 S. COGLIEVINA, “Diritto antidiscriminatorio e religione. Uguaglianza, diversità e libertà

Nell’ambito che interessa a noi, ovvero quello lavoristico, le discriminazioni sono in numero sempre più crescente e molti Tribunali e Corti vengono investite della facoltà di giudicare comportamenti che si presumono discriminatori. Tra questi possiamo ritrovare ad esempio: l’assunzione di cittadini solo italiani anziché lavoratori di altre nazionalità, il licenziamento per cambio di sesso, la fissazione della soglia di peso massimo per svolgere un’attività.

Quanto detto ha portato ad inglobare la materia all’interno del diritto antidiscriminatorio considerato come “un corpus di norme volte ad impedire, attraverso obblighi di natura negativa, che il destino delle persone sia determinato da status naturali o sociali ascritti (il sesso, la razza, l’origine etnica e via dicendo) e al tempo stesso consentire, attraverso obblighi di natura positiva, che identità soggettive differenti siano tutte egualmente riconosciute e tutelate”74.

Le discriminazioni non sono però tutte uguali e assumono due configurazioni con caratteristiche differenti seppur con effetti simili: discriminazioni dirette e discriminazioni indirette.

Oltre ad esse si vuole far notare sin d’ora lo sviluppo di ulteriori articolazioni facenti parte della medesima fattispecie discriminatoria ma che sono addizionali ad essa, ad esempio: il mobbing e le molestie introdotte per la prima volta con le direttive del 2000.

1.1. Le discriminazioni dirette e indirette.

Le discriminazioni si possono articolare in dirette o indirette. Entrambe le loro definizioni in primo luogo, le possiamo ritrovare nelle direttive europee del 2000 e successivamente nei loro decreti attuativi. Infatti, ai sensi delle direttive 2000/43 e 2000/78, l’articolo 2 lettera a) del d.lgs. 216/03 stabilisce che:

74 M. BARBERA in L. CALAFA’, relazione “Il diritto antidiscriminatorio dopo Lisbona”, Verona,

si ha “discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni

personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga”.

Già ad una prima analisi di questa nozione risulta evidente che un primo presupposto necessario affinché si parli di discriminazione sia la presenza di un trattamento sfavorevole rispetto ad un altro soggetto nell’ambito di un contesto uguale.

Da qui possiamo proseguire constatando che per avere discriminazione diretta, oltre al trattamento sfavorevole, dobbiamo rifarci al “termine di paragone” ossia si deve ipotizzare come verrebbe trattato un soggetto diverso dal discriminato nello stesso contesto.

Di casi giurisprudenziali ce ne sono stati molti, ma probabilmente uno dei più significativi è il caso “Richards” sottoposto all’attenzione della Corte di Giustizia nel 2006.

La signora Sarah Margaret Richards, dopo aver effettuato un intervento di transizione di genere, e da uomo essere diventata donna, una volta arrivata ai 60 anni di età chiese all’istituto pensionistico britannico di vedersi attribuito il diritto ad andare in pensione a 60 anni, come il resto delle donne inglesi e non a 65 anni come per gli uomini. La sua richiesta venne rifiutata in quanto il sistema pensionistico britannico era ancorato al sesso dichiarato al momento della nascita75. Intervenne allora la Corte di Giustizia condannando il sistema anglosassone e affermando che il termine di paragone da utilizzare sarebbe dovuto essere quello riferito alle donne, in quanto il diritto interno consentiva e accettava la transizione di genere. La negazione della richiesta della donna da parte del sistema pensionistico inglese provocò quindi una discriminazione di genere, in quanto la signora, donna a tutti gli effetti, non avrebbe potuto usufruire della disposizione come il resto delle sue coetanee76.

75 Cfr. L. CALAFA’, “Le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale, in M. BARBERA, “Il

nuovo diritto antidiscriminatorio: il quadro comunitario e nazionale, Giuffrè, Milano, 2007, p. 200.

76 http://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?docid=56252&doclang=it.: Corte di

Sulla base di questa importante sentenza si può evincere che il transessuale non deve essere considerato un soggetto che non è né uomo né donna, ma dal momento in cui compie il percorso di transizione, ha diritto di essere trattato secondo il genere scelto: o in quanto donna o in quanto uomo.

Quindi in questo caso, si doveva tener conto non del sesso dichiarato al momento della nascita bensì di quello dichiarato nel momento della presentazione della domanda77.

Un altro caso in cui venne adita la Corte di Giustizia fu per il “Caso Wolf” del

2010:

il signor Colin Wolf si vide rifiutare il collocamento nel corpo dei vigili del fuoco per la sola colpa di aver superato il limite di età previsto per l’assunzione in quel corpo, ovvero 30 anni. Il giudice rinviò la questione alla Corte di Giustizia chiedendo se si trattasse di una discriminazione o meno. Secondo la Corte la legge tedesca nell’individuare il limite di età suddetto perseguiva una finalità legittima che si concretizzava nel buon funzionamento del servizio pubblico, e quindi che “individui” con un’altra età non avrebbero potuto garantire. La Corte in questo caso operava una valutazione della compatibilità della normativa nazionale facendo riferimento alla salute78. La Corte si pronunciava facendo riferimento all’articolo 6, co.1 della direttiva 2000/78 , che afferma quando segue: “ Fatto salvo l'articolo 2, paragrafo 2, gli Stati membri possono prevedere che le disparità di trattamento in ragione dell'età non costituiscano discriminazione laddove esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell'ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari”.

In questi due casi la Corte decise utilizzando il termine di confronto; tuttavia esistono delle circostanze, che però sono più eccezioni che regole, in cui questo

77 Cfr. R. DAMENO, “Le persone Transgenere. Le identità e i diritti”, working paper n. 51, Messina,

p. 30.

78Corte di giustizia, 12 Gennaio 2010, C-229/08 caso Wolf in

http://curia.europa.eu/juris/liste.jsf?language=it&num=C-229/08; vedi anche www.ordinedegliavvocatiditorino.it

termine di confronto non viene contemplato: è il caso di tutte quelle situazioni in cui il pregiudizio viene arrecato a donne in gravidanza. Ne costituisce un esempio la non recente sentenza “Dekker”, che viene ancora oggi presa a modello e citata dai giudici. Infatti in tutti quei casi dove la lavoratrice che subisce un pregiudizio è una donna in gravidanza, la Corte si è sempre pronunciata affermando la sussistenza di una discriminazione di genere. La sentenza Dekker, se pur ormai datata, costituisce uno degli esempi più significativi dello scorso secolo: la neo-assunta Elisabeth Johanna Pacifica Dekker sarebbe stata licenziata dalla sua azienda a causa della sua gravidanza avvenuta a seguito di una precedente selezione brillantemente superata. La Corte, respingendo la tesi della difesa, si rifiutò di utilizzare un termine di confronto, sostenendo le proprie ragioni in relazioni a fattori oggettivi ed escludendo a priori ogni riferimento a situazioni analoghe79.

In questo caso è logico che la Corte intervenne tenendo conto delle prerogative individuali dell’uomo e della donna ed ecco perché non si poté (e non si può tuttora) utilizzare il termine di confronto con gli uomini per il solo motivo che la situazione non era (e non è) simile in quanto loro non generavano (e non generano) figli.

La discriminazione diretta, “comprende non solo gli atti giuridici, ma ogni comportamento materiale lesivo. Il divieto in quanto non circoscritto agli atti aventi rilevanza giuridica ha perciò una portata vasta, che si estende aldilà dei soli atti o comportamenti lesivi posti in essere dal datore di lavoro, abbracciando tutti gli atti giuridici e i comportamenti materiali lesivi, da qualunque soggetto posto in essere (sia esso anche un accordo con il sindacato )”80.

Nelle discriminazioni dirette un accenno deve essere fatto per le discriminazioni cosiddette occulte, ovvero quei comportamenti “che colpiscono tutti gli appartenenti ad un sesso, escludendoli globalmente da alcuni benefici ed opportunità”81.

79 Corte di giustizia, 8 Novembre 1990, C-177/88 caso Dekker in

http://curia.europa.eu/juris/showPdf.jsf;jsessionid=9ea7d2dc30d68405af4fb9fe4b96b77d8733aa2f 0d17.e34KaxiLc3qMb40Rch0SaxyLchb0?text=&docid=96042&pageIndex=0&doclang=IT&mod e=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=969354.

80 M. BERRUTTI, A. VASSALLINI, “La donna e il lavoro: diritti e tutele”, Cedam ,2003, p. 225. 81 M.BERRUTTI, A. VASSALLINI, op. cit., p. 225.

Per quanto riguarda le discriminazioni indirette esse si configurano come situazioni apparentemente neutre, che possono andare a provocare un pregiudizio a un soggetto appartenente a una determinata categoria, come i disabili o le donne82. L’articolo 2, lettera b) della direttiva 2000/78, rinviene la presenza di una discriminazione indiretta quando “una disposizione, un criterio

o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di un particolare età̀ o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone.” Occorre però precisare che tutto questo è escluso quando la

disposizione, il criterio, o la prassi, sono giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il conseguimento della stessa siano necessari e congrui. Sono un esempio di discriminazione indiretta tutti quei casi in cui è richiesta, ad esempio, una particolare statura, basata su medie maschili, per le donne in un concorso83.

L’individuazione di una discriminazione non è sempre facile e rapida; richiede accertamenti lunghi e complessi e non si sostanzia semplicemente nell’individuazione dell’esistenza di comportamenti differenziati nei confronti di soggetti diversi, bensì nella valutazione che quel comportamento discriminatorio sia effettivamente tale in quanto lede un diritto giuridicamente protetto. Il diritto antidiscriminatorio è quindi uno strumento di ampia portata capace di andare a tutelare i diritti di tutti.

1.1.1 Le molestie.

Inizialmente all’interno delle discriminazioni dirette potevano essere inquadrate anche le molestie ovvero quei comportamenti vessatori indesiderati che sono stati richiamati recentemente dalle direttive europee. Per molestie ci si riferisce a qualsiasi vessazione sul lavoro, in particolar modo le molestie sessuali, che

82 S. ROCCHINA, “Il d.lgs. 216/2003 e la disabilità e la discriminazione in Italia”, 2008 in

www.diritto.it.

oggi assumono una categoria autonoma aggiuntiva alle discriminazioni dirette. Per quanto riguarda la definizione generale, l’articolo 2, n. 3 della direttiva 2000/78 intende il “comportamento indesiderato di una persona, allo scopo o

con l’effetto di violarne la dignità o di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo”.

Le caratteristiche della molestia in senso assoluto sono:

a) il comportamento indesiderato, inteso come quella situazione che la vittima della vessazione non si aspetta (chi subisce la molestia non è mai consenziente);

b) lo scopo lesivo, ovvero l’intenzionalità di ledere quel lavoratore;

c) la violazione della dignità e quindi di quel valore intrinseco che ogni individuo, in qualità di persona, possiede e che rappresenta il fulcro dei propri principi morali da tutelare nei confronti di chi non li rispetta84. Le molestie, avendo quindi una connotazione negativa, non hanno bisogno di un termine di confronto indipendentemente dalla forma che assumano (verbale, fisica o non verbale). L’onere probatorio è quindi meno dispendioso.

Le molestie sessuali, oltre agli elementi a), b), c) sopra menzionati, presentano quale fattore fondamentale il diverso sesso della vittima 85, rientrano nel tema “della salute e sicurezza del danno”86 della lavoratrice. Infatti prima delle apposite e specifiche norme di legge, già l’articolo 2087 del codice civile si caratterizzava come norma generale in materia: il datore di lavoro che, indipendentemente dal carattere doloso o colposo della sua condotta non garantiva un ambiente sicuro esente da rischi doveva considerarsi responsabile. Anche in ambito comunitario la materia delle molestie è stata oggetto di prolificazione normativa, con la direttiva 2002/73/CE, poi abrogata e confluita nella direttiva 2006/54/CE. A livello nazionale l’articolo 26 del d.lgs. 198/2006 definisce le molestie sessuali come quella serie di “comportamenti indesiderati

a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi

84 M. BERRUTI, A. VASSALLINI, op. cit. pp. 244 e ss. 85 M. BERRUTI, A. VASSALLINI, op. cit. pp. 244 e ss.

86 E. MENEGATTI, “La tutela della salute e sicurezza della donna lavoratrice” in “Il corpo delle

donne tra discriminazione e pari opportunità” a cura di M. BROLLO e S. SERAFIN, Forum, Udine, 2010, p. 130.

lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo”. È

evidente che si faccia riferimento a comportamenti verbali (parole, lusinghe negative, frasi a sfondo sessuale) e non verbali (come gesti, espressioni o allusioni) non graditi87.

Correlato alle molestie dobbiamo interessarci all’aspetto dell’ordine a discriminare preso in considerazione da tutte le direttive che si occupano del fenomeno antidiscriminatorio. Esso si sostanzia in una situazione in cui il datore di lavoro assegna a suoi dipendenti e sottoposti, l’ordine di mettere in atto discriminazioni dirette o indirette, in relazione a sesso, razza, origine etnica, età, handicap nei confronti di altri dipendenti appartenenti alla medesima unità produttiva.

Ne costituisce uno dei possibili esempi, il caso di un datore di lavoro che ordina ad un’agenzia interinale di non inviargli personale islamico ma solo cattolico. L’ordine di discriminare, ai sensi della direttiva 2000/78 e delle norme nazionali, costituisce una discriminazione a tutti gli effetti e per questo deve essere punita.

Il molestato oltre all’azione civile ordinaria, può richiedere il processo speciale davanti al giudice del lavoro in virtù dell’articolo 409 del codice di procedura civile; inoltre ha diritto alla rimozione degli effetti lesivi, della cessazione della condotta illecita e del risarcimento dei danni subiti.

1.1.1.1 I ricatti sessuali.

Tra le molestie sessuali meritano un discorso peculiare i cd. “ricatti sessuali”, ovvero “quegli atti, patti, o comportamenti, adottati nei confronti della lavoratrice o lavoratore, quale conseguenza del rifiuto ovvero della sottomissione a molestie sessuali”88, regolati dal d.lgs. 198/2006.

87 E. MENEGATTI, op.cit., p. 131. 88 E. MENEGATTI, op. cit., pp. 132, 133.

La lavoratrice o il lavoratore molestato possono rivolgersi agli organi competenti, in sede giudiziale o amministrativa, per far si che al molestatore venga imposto l’obbligo di:

• cessare la condotta lesiva;

• rimuovere gli effetti derivanti da quel suo comportamento illegittimo; • non presentarsi, per un periodo di tempo non superiore a due anni, nel

luogo di lavoro.

Coloro che subiscono le molestie hanno il diritto di richiedere il risarcimento dei danni patrimoniali (difficilmente inquadrabili in questa fattispecie) e non patrimoniali: il danno biologico, morale o esistenziale.

Qualora ci si spinga oltre il ricatto e si passi all’atto sessuale vero e proprio, il molestatore può anche essere accusato, ex articolo 609 bis del codice penale, di “violenza sessuale”89.

1.2 La configurazione del comportamento discriminatorio.

Dopo aver dato una definizione di discriminazione e aver visto le sue possibili articolazioni dobbiamo concentrarci sui suoi elementi di configurazione: 1. il primo è il trattamento differenziato, ovvero tutti quei comportamenti

che producono una disparità e diversità di trattamento che abbiano però in comune l’oggettiva volontà di ledere un individuo90;

2. il secondo elemento invece è il termine di confronto, ovvero il momento in cui il comportamento discriminatorio viene traslato per ipotesi su un altro lavoratore o lavoratrice nel medesimo contesto per verificare così la sussistenza di una discriminazione.

Per quanto riguarda il primo elemento dobbiamo fare un passo indietro e riallacciarci alle teorie oggettive e soggettive che hanno dominato il secolo scorso e che ancora oggi sono valide. Infatti, nel parlare di discriminazioni, i

89 Cfr. E. MENEGATTI, op. cit., p. 133.

90 Sul punto vedi L. GUAGLIANONE, “Le discriminazioni basate sul genere”, in M. BARBERA,

sostenitori della teoria soggettiva ritenevano che fosse indispensabile, al fine della configurazione di un comportamento discriminatorio l’intento lesivo dell’autore e quindi richiedevano “per l’integrazione della fattispecie illecita un intento finalisticamente lesivo da parte dell’offensore. Con tali teorie, infatti, diveniva perlomeno necessaria la consapevolezza dell’atto commissivo o omissivo da parte dell’autore, a differenza delle teorie oggettive che prescindevano completamente dall’elemento psicologico di quest’ultimo per affrancarsi soltanto attraverso la realizzazione di una conseguenza pregiudizievole per la vittima”91. I sostenitori della teoria oggettiva invece ritenevano che l’elemento fondamentale fosse solamente il comportamento che veniva posto in essere dall’autore. Questa è la tesi accolta dal nostro ordinamento, e tutt’ora vigente, in linea con il carattere quasi sempre non manifesto e intenzionale della discriminazione92.

Come abbiamo visto nei precedenti paragrafi è molto raro che l’autore di una condotta lesiva si palesi e ammetta le sue colpe; per questi motivi la dottrina ha preferito configurare il comportamento pregiudizievole dell’autore in base non alla sua volontà, e quindi al carattere dell’intenzionalità, bensì in base ai suoi effetti e quindi alle conseguenze di quella sua condotta93.

In base a quanto affermato si giustifica l’articolo n. 43 del testo unico del 1998 che definisce la “discriminazione” come qualsiasi comportamento “che abbia

come scopo o effetto la lesione di un diritto umano o di una libertà”. Come si

evince, la definizione si relaziona al suo effetto e non alla volontà dell’autore materiale o del mandante nel caso dell’ordine di discriminare.

Nel caso del secondo elemento di configurazione invece, dobbiamo precisare che esso vale sia per le discriminazioni dirette che indirette, ma non per le molestie. infatti quando si parla di molestie, in linea con l’articolo n. 2 del d.lgs. 215/2003, si fa riferimento a comportamenti indesiderati che “hanno lo

scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima

91 L. LAZZERONI, “Molestie e Molestie sessuali” in “Il nuovo diritto antidiscriminatorio” a cura

di M. BARBERA, op. cit., p. 391.

92 Cfr. M. BARBERA, “Discriminazioni ed eguaglianza nel rapporto di lavoro”, Giuffrè, 1991, p.

218 e ss.

93 Cfr. E. GHERA, “Commento agli articoli 15 e 16” in “Commentario dello Statuto dei lavoratori”

intimidatorio, ostile, degradante, umiliante ed offensivo”. Qui il termine di

confronto non è espressamente richiesto poiché la cosa fondamentale non è andare a confrontare quella situazione con un’altra lavoratrice o lavoratore, bensì concentrarsi sull’idoneità dell’atto a configurarsi come lesivo94.

Nel caso invece di una discriminazione diretta o indiretta, si deve verificare se quel comportamento può, o avrebbe potuto sfociare, in un comportamento discriminatorio alla luce di una comparazione anche ipotetica con altri lavoratori o lavoratrici nella medesima situazione. Ricordiamo quanto dice la direttiva 2006/54/CE in relazione alle discriminazioni dirette (principio applicato poi per analogia anche a quelle indirette): “si ha discriminazione

diretta quando una persona è trattata meno favorevolmente di quanto un’altra persona sia, sia stata o sarebbe stata o sarebbe trattata in una situazione analoga”. Certo è che in questo ultimo caso ci sono delle

eccezioni, ovvero tutti quei casi in cui non è possibile fare una comparazione, come ad esempio nel caso di una lavoratrice in dolce attesa sul quale è esemplare la sentenza Dekker.

1.3 L’onere della prova.

L’individuazione del comportamento discriminatorio non è mai una cosa semplice. Colui che subisce ha pochi strumenti per provarlo. Generalmente l’autore del fatto cela, consapevolmente o inconsapevolmente, la condotta

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