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B DISTRUGGERE QUESTO FOGLIO APPENA LETTO SEGRETEZZA! SILENZIO!!!

Nel documento L’Isola di Arturo (pagine 156-166)

Capitolo quinto Tragedie

N. B DISTRUGGERE QUESTO FOGLIO APPENA LETTO SEGRETEZZA! SILENZIO!!!

ARTURO

Quindi, mi versai del vino in un bicchiere, considerando che forse quel farmaco maledetto aveva un sapore cattivo, e il vino l’avrebbe migliorato. E uscii sullo spiazzo, giacché la cucina, per un suicidio, non mi sembrava un ambiente decoroso.

Lo spiazzo mi parve la scena ideale: tanto più che N., di ritorno dalla spesa, rincasava sempre da questa parte. Mi domandavo ciò ch’ella proverebbe allorché, fra poco, passando di qua, s’imbatterebbe nel mio corpo; e deprecavo l’azione del sonnifero, che, secondo ogni probabilità, mi avrebbe impedito di valutare subito il mio successo. Mi sarebbe piaciuto di sdoppiarmi, per potere assistere alla scena; e fui tentato per un momento di buttar via il veleno e di fingermi, lo stesso, cadavere, affidandomi unicamente al mio talento teatrale. Ma in tal caso, prevedevo che, sul punto critico della tragedia, non avrei potuto tenermi dal ridere, e avrei rovinato tutto; e scartai, perciò, questa idea.

Le Colonne d’Ercole.

Posai il bicchiere sullo scalino della soglia, e mi sedetti là vicino, sull’erba, chiudendo le pastiglie nel pugno. Sul punto di compiere lo strano passo, esitavo, fra la decisione presa e uno sgomento istintivo. Mi ritenevo certo, è vero, che il mio imminente suicidio non sarebbe affatto mortale: quanto io sapevo, riguardo alle dosi specifiche di questo veleno, m’era stato affermato anche da mio padre. Era scienza, e non lasciava dubbi. Ma tuttavia, io riguardavo le pastiglie che tenevo nella palma quasi fossero monete barbariche, da pagarsi come pedaggio attraverso un ultimo, astruso confine.

Il fatto era che io non avevo nessuna esperienza di farmaci, di mali e di veleni; e le leggi della scienza, ch’io non avevo mai studiata, mi apparivano piene di misteri e quasi religiose, come quelle della magia a un selvaggio. Nella mia fantasia, era confuso il segno che separava il malefico sonno di questo veleno, dalla morte. Ciò che stavo per affrontare, mi si rappresentava quale una specie di avanzata fin dentro il territorio della morte. Poi, come un esploratore, sarei tornato indietro. Ma la morte, da sempre, m’era così odiosa, che il sospetto d’inoltrarmi sia pure soltanto sulla sua ombra distesa mi inorridiva.

Mi sorprese una debolezza sentimentale: una nostalgia che qualche mio fedele, almeno, si trovasse qua vicino, a salutarmi a questo finto suicidio. Un amico, non una donna, giacché le donne sono tutte una razza senza fede, e io non mi sarei innamorato mai di nessuna. La sola donna, della quale avrei gradito la vicinanza, era la madre. Una madre viva, però, non quella antica, che un tempo si trasportava per l’aria dell’isola sotto la sua tenda levantina. Oggi, provavo compatimento per quella mia antica illusione: avevo imparato, dopo di allora, che la morte ha soltanto volontà severe, mai pietose. Questo bel paesaggio infantile non si addiceva alla severità dei morti.

La prima signora Gerace, non meno della misera Immacolatella, rifuggiva da questa mattinata lucente. Era oltrepassato già da parecchi giorni l’equinozio di marzo, che a Procida annuncia quasi l’estate. E l’atmosfera e l’acqua erano tutte e due così limpide, che la figura d’Ischia, nitida là di contro con le sue casupole e il faro, si raddoppiava nel proprio riflesso marino. Ogni cosa appariva chiara, precisa e isolata in se stessa; ma pure, gli innumerevoli punti delle cose si mischiavano insieme in un colore divino e festante, verde, celeste e oro. Fra un momento, già questo colore sarà diverso, variazioni impercettibili, come una ridda di favolosi insetti, girano senza posa nella luce. Perfino il tristo Penitenziario, là sulla punta della collina, è un arcobaleno di mille colori mutevoli dal mattino alla sera. Adesso dal golfo s’ode lo strido d’un uccello acquatico, dal porto retrostante la sirena d’una nave, poi dal paese uno scampanio... Anche i rinchiusi là nella prigione ascoltano queste note, anche i gufi che di giorno non vedono, anche le stupide alici che agonizzano nella rete... I beati rumori e iridescenze della realtà sono un teatro incantato che innamora ogni cuore vivente fino all’ultimo.

Ero curioso di sapere se questo sonnifero dava pure dei sogni. E chi sa se anche nella morte non si hanno dei sogni? Così supponeva quel buffone di Amleto; ma io non sono un buffone al pari di lui e capisco bene la verità: che nella morte non c’è niente. Né riposo, né veglia, né spazio d’aria, né mare, e nessuna voce. Chiusi gli occhi, e mi sforzai per un minuto di fingermi sordo e cieco, ristretto nel mio corpo senza potermi più muovere, isolato da ogni pensiero... Ma no, non basta: la vita, là nel fondo, rimane, come un punto acceso, moltiplicato da mille specchi! La mia fantasia non saprà mai concepire la ristrettezza della morte. A confronto di questa infima misura, diventano signorie sconfinate non dico l’esistenza di un misero prigioniero dentro una cella, ma perfino quella di un riccio attaccato allo scoglio, perfino quella di una tignola! La morte è una irrealtà insensata, che non significa niente, e vorrebbe intorbidare la chiarezza meravigliosa della realtà.

E mi pareva, simile ai marinai antichi dinanzi alle Colonne d’Ercole, di dover salpare fra poco su una corrente torbida, che mi trascinerebbe via dal mio caro paesaggio verso qualche fossa tenebrosa.

Chi sa, mi domandavo intanto, se questo veleno avrà un sapore molto amaro? Si direbbe di sì, dalla smorfia di fastidio che ha sempre mio padre nel berlo; egli, poi, si limita sempre alla dose prescritta, mentre che io, oggi, intendo sorpassare di assai il termine del divieto! La mia superiorità su di lui mi inorgoglì. D’un tratto, la mia padronanza dimostrata, l’infrazione, e il divertimento della prova diventarono, per me, i motivi più importanti di questo capriccio, scancellando quasi il mio primitivo

scopo e addirittura il ricordo di N.! Simile al re Ulisse, quando doppiava la scogliera delle Sirene, mi sentivo libero e solo dinanzi a una scelta: o la prova, o la rinuncia! E m’invase un gusto di gioco misterioso e inaudito, e di sfida temeraria: come s’io fossi un audace ufficiale che, dopo lo spegnersi dei fuochi, e mentre le sentinelle dormono, fa una scorribanda nel campo nemico, fidando nell’impunità di una notte senza luna, solo, senza nessuna scorta!

Risento ancora il sapore della prima di quelle pastiglie sulla lingua: era insignificante, lievemente salato, e appena amarognolo. Mandai giù, con un sorso di vino, e ogni cosa là intorno era rimasta uguale: mi pareva, soltanto, che fino al limite dell’orizzonte si fosse fatto un silenzio affascinato; come al Circo, quando il prode trapezista si slancia nel doppio salto della morte. Seguitai, con impazienza e spensieratezza, inghiottendo col vino due o tre pastiglie per volta; e credo che l’azione del vino precedette quella del sonnifero, giacché non tardai a sentirmi ubriaco. S’incominciò a udire un lontano ronzio, e io supposi che migliaia di pesci- sega andassero segando l’isola alla sua radice. M’aspettavo che l’intero paesaggio rovinasse, e un simile evento mi appariva quasi riposante. Difatti, la bella mattinata, che prima mi piaceva, adesso m’era diventata repulsiva e tediosa. L’immenso pulviscolo del sole mi offendeva i nervi, torpido e sulfureo come una pestilenza. Mi venne la voglia di rigettare là sull’erba il vino e tutto il resto; ma mi rattenni; e con l’assurda idea di andare a riposarmi all’ombra, riuscii a levarmi in piedi. Credo che mossi pure qualche passo; ma sentivo di avere in capo un elmetto di metallo pesante, calcato fino sui sopraccigli, il quale non si poteva mai più togliere e con la sua tesa mi annerava la vista. Questa fu l’ultima cosa di cui ebbi coscienza. Non mi accorsi neppure di cadere; e da quel momento l’universo sparì per me. Non m’accorsi più di nulla, non ricordai, né pensai, né sentii più nulla!

Dall’Altro Mondo.

Ho poi saputo che quella mia totale assenza durò circa diciotto ore; ma per me avrebbe potuto durare anche cinquecento anni, che sarebbe stato lo stesso. Per quanto io abbia ricercato, anche in seguito, nella mia mente, una qualche traccia di quelle diciotto ore (pure dense, intorno a me, di movimenti, voci e frastuoni, dei quali io ero il centro!), non ho potuto trovar nulla. Quell’intervallo per me non è neppure un sogno, o un’ombra confusa: è zero. E dal punto in cui cercai di spostarmi dal sole sullo spiazzo, fino al mio primo rinvenire sull’alba del mattino seguente, corre meno di un attimo, per me.

La prima impressione che provai, dopo quello che a me parve un attimo, non fu di risalire alla vita, com’era in realtà; ma, al contrario, di venir meno e di morire. Non sapevo dove mi trovassi, né le circostanze della mia fine: non avevo coscienza d’altro che di questa fine. Ero in preda a una nausea orribile, tutti i miei sensi erano spenti, nel silenzio e nella cecità; e avvertivo solo l’agonia dei miei respiri, che mi si staccavano dolorosamente dal cuore, perdendo via via la forza di salirmi alle labbra. Mi dicevo: «non avrei creduto che la mia sorte fosse di morire oggi, e invece ecco la

morte, adesso finisco, muoio», e, in tale sentimento, tornai inanimato per un altro intervallo abbastanza lungo. Di questo secondo intervallo però, m’è rimasta una parvenza di ricordo, come di un filo su cui la mia coscienza simile a un funambolo avanzava vacillando. Mi rendevo conto di giacere con gli occhi chiusi, e ciò mi pareva naturale, poiché mi ritenevo morto. Delle voci strappate, sperse in un fragore monotono forse di mare, mi arrivarono: «Ecco che non sono più in vita, — pensai, trasognato, — e ancora sento. Dunque, non si è finiti, con la morte», e fin dentro il malore che mi teneva, provai in fondo a me stesso un senso tremolante, leggerissimo, di avventura: «Vediamo adesso che cosa c’è nella morte. Chi sa che davvero non ci si riveda là con gli altri? Magari incontrerò mia madre, Immacolatella, Romeo...» Fra le altre voci incerte, appunto, mi si distinse una vocina acuta di donna, che gridava singhiozzando: — Artù, che hai fatto? — e io intesi lucidamente che le rispondevo a voce alta: — Sei tu, mà?

Ogni tanto, ricadevo in un torpore sordo; e poi riudivo quella vocina di lagrime. Mi si formava nella mente una nozione confusa: forse, la fatica eterna dei morti era di andare brancolando l’uno in cerca dell’altro, senza potersi incontrare. Ogni mezzo d’orientarsi ad essi è tolto. La mia carissima madre sentiva ch’io mi trovavo poco distante, e mi chiamava, e io le rispondevo; ma le nostre voci ritornavano indietro a vuoto, come echi sconsiderati senza direzione.

Più di una volta mi parve d’aver gridato: — Oi mà, oi màà! — quando, insperatamente, la famosa voce che seguitava a ripetere:

— Artù, che hai fatto? — suonò chiara e concreta, prossima al mio orecchio. «Finalmente, eccola, è qua», mi dissi, e riapersi gli occhi. Riebbi, allora, istantanea, la consapevolezza della realtà presente. Ero vivo, questa donna che invocava “Artù” non era mia madre, ma la mia matrigna. E la ragione suprema della mia esistenza era: di baciare costei!

Un impulso rapido e deciso mi disse segretamente: O adesso, o mai! e sebbene mi sentissi ancora quasi esanime, levai le braccia e la strinsi. Sentii, sulla mia faccia, i suoi riccioli, le sue lagrime, una freschezza primaverile, morbida e meravigliosa. E, come un grande respiro, una gioia profonda m’attraversò: «Ormai, — mi dissi, — anche se dovessi morire di questo suicidio, potrei morire contento».

E tesi le labbra; ma, troppo debole, in quel gesto ricaddi mezzo svenuto sul cuscino, senza averla baciata.

Bacetti insulsi.

La mia malattia durò ancora un paio di giorni; a quanto ne intesi poi, sembra che la dose di sonnifero da me ingerita, insufficiente, secondo le informazioni che io ne avevo, a uccidere un uomo, potesse invece bastare benissimo a uccidere uno della mia età, e cioè ancora piuttosto ragazzo, nonostante la mia pretesa. Così, io avevo rischiato, senza volerlo, di morire veramente; e m’ero salvato in virtù della mia buona costituzione fisica. Rimasi però malato in letto quasi mezza settimana, un caso che non m’era mai capitato prima, a memoria mia. Soffrivo di mal di testa, di una

sonnolenza estenuata, e, ogni tanto, di vertigini e di nausea, per cui mi pareva che il letto rollasse come uno scafo. Se poi volevo alzarmi e camminare, mi sorprendeva un fenomeno assolutamente nuovo: che il corpo non mi ubbidiva più. I ginocchi mi si piegavano, vacillavo e mi batteva il cuore. Non mi pareva più d’essere Arturo Gerace, con un’armatura di muscoli al suo comando; ma quasi una fanciulletta esangue, piena di languori, con le giunture delicate come steli.

Di ora in ora, tuttavia, sentivo tornarmi le forze; ma, sebbene avessi sempre stimato l’esser malati una noia massima, quasi quasi mi sarebbe piaciuto di prolungare questa malattia. Giacché N. stava sempre accanto a me, ad assistermi, e d’altro non s’occupava. Dire ch’ella fosse un’infermiera esimia, sarebbe una bugia, per ciò ch’io posso capirne di queste cose: per sua natura, difatti, ella non possedeva le doti speciali (anche pedantesche, sia pure), che ci vogliono per una infermiera: e non era colpa sua. Ma le intenzioni, c’erano; e, di più (ecco il fatto più importante), si poteva vedere, dagli sguardi e dai modi che aveva mentre mi stava intorno, che in quei giorni tutta l’anima sua, con una specie di spasimo sublime, si tendeva a un solo scopo: la cara, preziosa esistenza del figliastro Arturo! Essa aveva provveduto ad appendere a capo del mio letto, per salvaguardia della mia guarigione, una delle sue Madonne: precisamente la più fatata, la infallibile: quella di Piedigrotta. E talora, a sogguardarla mentr’essa mi credeva addormentato, io potevo sorprenderla, nell’atto di bisbigliare a mani giunte verso quella Vergine famosa, coi supplici occhioni umidi di pianto e illuminati da una superstizione celeste. E per chi pregava? Per me! Quando non pregava, passava le ore seduta sul divano in faccia al mio letto, a vegliare sui miei respiri e a spiare ogni mio segno di vita con la medesima aspettazione sacra con cui le tribù selvagge aspettano il levarsi del sole. Rivedrò sempre la grazia angelica della sua figura, spettinata e infagottata nel disordine di quei giorni, seduta là di fronte a me, con le due manine abbandonate nel grembo, in quel suo ozio fedele e appassionato. Accanto a lei, stava una gran cesta contenente Carminiello immerso nel sonno: quand’egli non dormiva, per timore che la sua turbolenza mi disturbasse, essa procurava il più possibile di tenerlo buono, lontano da noi in qualche altra stanza, solo o in compagnia di quelle femmine procidane. Lui non tardava, si capisce, a invocarla piangendo; ma se in quel mentre, per caso, era intenta ad accudirmi e a curarmi, essa lo lasciava strillare senza dargli retta, fino a cinque o sei minuti di seguito!

A volte la intravvedevo, attraverso il mio sopore, che, non potendo sempre abbandonarlo, si aggirava intorno a me scalza, con lui in braccio; oppure, seduta sul divano, se lo teneva sui ginocchi e lo allattava, o lo ninnava, mormorandogli canzoncine persuasive per farlo dormire. Ma se lui non voleva saperne, e usciva in quei suoi soliti strilletti spiritosi, risatelle ecc., essa lo ammoniva severamente: — Zitto, guagliò, zitto, che Arturo sta malato! — In una di tali occasioni, arrivò perfino a dargli due piccoli colpi sulle dita. Aveva picchiato Carmine per me! Questa, veramente, era la massima delle massime prove che avrei potuto aspettarmi, anche nelle mie speranze più ambiziose!

Adesso mi pareva, a ripensarci, un sogno ridicolo, d’essere stato geloso di quel guaglioncello. Mentre giacevo là quieto nella penombra, udivo ogni tanto un suono gentile di baci ch’essa gli dava; e mi domandavo se davvero aveva potuto succedere

al mondo un fatto simile: che uno della mia età provasse invidia di quei bacetti. Sarebbe lo stesso che invidiare a un pupo i suoi giocarelli, il dindarello, la ciambelluccia ecc. La gelosia che m’aveva consigliato questo finto suicidio, ora mi pareva quasi un’ultima tempesta marzolina, dopo la quale incomincia la primavera alta, con le sue grandi giornate. E rinvenendo adagio dalla mia sonnolenza letale, sentivo (come se mi nascessero dei sensi nuovi), che il vero sapore della vita doveva essere molto più grave, sontuoso, di quei puerili baci!

Atlantide.

Il quarto giorno della mia malattia, la fastidiosa nausea era sparita del tutto, lasciandomi solo un languore di debolezza, e fin dalla mattina presto mi accorsi subito di stare meglio assai. Però, avevo voglia di approfittare del mio suicidio ancora un giorno almeno, e quand’essa mi domandò: — Come ti senti, Artù? — mormorai fra i denti, in risposta: — Eh, sono agli estremi... Maledizione! Sono spacciato!

E per tutta la mattinata, seguitai a fingermi immerso in un sopore angoscioso mentre invece ero sveglio; ogni tanto, con voce d’oltretomba chiedevo: Acqua...

bere... oppure, levato il capo un istante e poi ricadendo supino, facevo lo svenuto con

le palpebre semiaperte, per il gusto d’intravvedere quegli occhioni allarmati chini sul mio volto.

Ma verso mezzogiorno, incominciai a stufarmi di rappresentare questa parte d’agonizzante, e sentendo, per la prima volta dopo il suicidio, un ritorno di fame, mi lasciai nutrire di buona voglia (essa doveva addirittura imboccarmi, in quei giorni, tanto ero debole e tramortito).

Quindi mi addormentai, stavolta di un sonno vero, e riapersi gli occhi, sul primo pomeriggio, con un sentimento delizioso di sorpresa e di freschezza. Subito N. s’accostò, e, al vedere il mio sguardo rischiarato, tremò addirittura di gratitudine: — Ti senti meglio, eh, Artù? ti serve niente? — mi chiese, con una voce che quasi cantava.

Le risposi, stirandomi, che stavo meglio, e non mi serviva nulla, volevo solo riposarmi. Allora essa, per non darmi disturbo, tornò a sedersi al suo solito posto sul divano, senza dire altre parole.

Carmine dormiva nella sua cesta, le imposte erano accostate perché la troppa luce non mi ferisse; e il silenzio pomeridiano era assoluto, senza voci ne campane di chiesa. Mai, altro che a casa mia a Procida, ho goduto silenzi così fantastici. Sembrava che, fuori, non ci fosse più il paese coi suoi abitanti; ma un grande estuario deserto su un mare calmo, in un’ora che anche i gabbiani, e gli altri animali acquatici o di terra, riposano, e non passa nessuna nave. Di fra le imposte, fuori della finestra di mezzanotte (la medesima sulla quale, una volta, avevo veduto posarsi un gufo reale), si scorgeva una minuscola nube che, movendosi sul turchino del cielo, in pochi istanti prese dapprima la forma d’una conchiglia, poi d’una piccola mongolfiera, poi d’un cono gelato, poi d’una barba di vecchio, poi d’una ballerina. E in quest’ultima forma, stendendosi e allungandosi come una vera ballerina, si allontanò. Al passaggio di

quella nuvola, per non so quale richiamo, mi tornò con precisione alla mente tutto ciò che avevo pensato e fatto la mattina del mio suicidio, fino al momento della mia caduta sull’erba. E, pur senza guardare verso N., d’un tratto dissi forte:

— Di’, quel foglio che lasciai, l’hai stracciato?

Il suono della mia voce, dopo la malattia, mi stupiva un poco ad ascoltarlo, per certe note ruvide e basse che non c’erano prima. La vocina di lei, invece, era sempre la stessa:

— Sì, l’ho stracciato...

— Hai letto? che c’era scritto: Segretezza! Silenzio!! Non hai parlato? — No. Non ho parlato.

— Bada, nessuno deve sapere la verità. Devono credere che io non avevo nessuna intenzione, e che è stato uno sbaglio casuale, e basta.

Nel documento L’Isola di Arturo (pagine 156-166)

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