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Capitolo settimo La Terra Murata

Nel documento L’Isola di Arturo (pagine 190-200)

O flots abracadabrantesques

(A. R.)

Più caro del sole.

Intanto, mentre io abitavo sotto lo stesso tetto di N. con l’animo di un reprobo a una Corte celeste, un altro Castello aveva preso a dominare, anch’esso, la mia mente, con un prestigio forse più fantastico ancora! Il Penitenziario dell’isola, che sempre era stato ai miei occhi la triste dimora delle tenebre (poco meno odiosa della morte) d’un tratto in quell’estate si illuminò per me di un fulgore corrusco: come nelle metamorfosi dell’alchimia, dove dal nero si passa all’oro.

L’estate, quell’anno, sembrava splendere inutilmente per Wilhelm Gerace. Si assisteva a un fatto assolutamente nuovo nella nostra storia: e cioè che mio padre, in piena stagione estiva, trascinava le ore più luminose del giorno nel chiuso delle stanze, come se il tempo, per lui, rimanesse fisso a una perenne notte invernale. Egli rifuggiva con accanimento da tutte le occupazioni deliziose della bella stagione, che erano sempre state la nostra massima felicità comune; e il colore bianco della sua pelle, ai mesi di luglio e di agosto, mi dava un senso luttuoso e innaturale, come se assistessi a un qualche malsano rivolgimento del cosmo.

Più volte, soprattutto in principio, io mi presentai dinanzi a lui, con la fronte bassa e corrucciata, a insistere che scendesse più alla spiaggia, o uscisse in barca assieme a me. Questi miei inviti furono sempre respinti da lui con ripulse sdegnose, intinte d’angoscia e di teatralità. Sembrava, dalle sue risposte, ch’egli quest’anno avesse votato un odio disgustato e vendicativo al sole, al mare e all’ardente aria aperta, da lui già tanto amati! ma che insieme intendesse, con la rinuncia a queste cose, di offrire una specie di sacrificio sacro o propiziatorio. Non molto diverso da quello di un devoto che si macera per rendersi degno di un nume.

Infine, per quanto facesse il misterioso, egli non seppe non tradirsi (qui potevo riconoscere ancora una volta la grazia non terrestre del suo cuore, che, pure nei drammi più disperati, si compiaceva sempre un poco dei propri misteri!) E da certe sue allusioni, io finii per intendere senza più dubbio la sua giustificazione arcana (era la stessa, del resto, ch’io già presentivo): qualcuno, caro più d’ogni altro alla sua amicizia, trascorreva i propri giorni murato fra quattro pareti maledette. E dunque, egli come avrebbe potuto godere di un’estate, che a colui era negata? No, egli

bramava d’imitare, ora per ora, il patimento del suo amico; e anzi, avrebbe voluto, in un modo qualsiasi, meritarsi, come un onore, una condanna eguale, se non fosse che, con la privazione della libertà, avrebbe perduto ogni ultimo mezzo di comunicare con lui! Solo a quest’unica cosa gli serviva la sua libertà; e la terra, con l’estate e col mare, e il cielo, col sole e con tutti i pianeti, gli parevano scheletri, e gli ispiravano ribrezzo.

Perle e rose convenzionali.

A simili esclamazioni di mio padre, io fui tentato di rispondere che sapevo bene a chi egli alludesse. Che avevo veduto sul molo, alla distanza di quattro metri, questo famoso personaggio: e lo disprezzavo con tutta l’anima, considerandolo una grinta fetente, indegno non dico di amicizia, ma perfino d’esser guardato, tanto la sua bruttezza era odiosa! Ma non parlai: aggrottai superbamente la fronte, e voltai le spalle a mio padre, come se neppure avessi ascoltato le sue parole, avviandomi solo, come sempre, giù alla marina.

Dopo quel nostro famoso incontro allo sbarco, io avevo sempre evitato di tornare col pensiero all’immagine del giovane sconosciuto che avevo visto passare fra due guardie sul molo. La scena di quel pomeriggio, sopraffatta dalle mie altre amarezze di allora, era stata ricacciata nel fondo della mia mente, proprio allo stesso modo che colui era stato relegato lassù nella sua prigione. Egli, per me, era una cosa malaugurata; e come, quel giorno, io non avevo voluto osservare bene le sue fattezze, così, adesso, non volevo fermarmi a rammentarlo. Se per caso, a mio dispetto, il mio pensiero ricadeva su quel malfattore, non discerneva una precisa figura umana, ma quasi una creta informe, grigia e torbida, segnata dalla bruttezza.

Ma pure, nello stesso tempo, mi ribalenava, con una eleganza alata, quell’andatura, piena d’impudenza e d’ingenuità, ch’egli aveva nell’avviarsi alla sua sorte... Tale graziosa riapparizione, come una spada che lampeggiasse contro il mio disprezzo, mi mordeva il cuore d’angoscia, facendomi trasalire! D’improvviso, al posto di una larva sciagurata sepolta in una galera, scorgevo un guappo favoloso, distinto da amabili incanti, al quale forse perfino gli sbirri e i secondini facevano da servi.

A tradimento, dalla mia infanzia, ritornavano, anche, ad adornarlo, certi miei pregiudizi romanzeschi. Voglio dire che già il titolo di galeotto valeva quanto un blasone secondo i miei pregiudizi di ragazzino. E altrettanto, aggiungerò, secondo quelli di Wilhelm Gerace adulto!

Difatti (adesso me ne rendo conto), la fede di Wilhelm Gerace ambiva, per accendersi, la primitiva scintilla di una qualche seduzione convenzionale: e il personaggio del Galeotto si addiceva bene ai suoi sospiri, che erano infantili eternamente, come quelli dell’universo! Allo stesso modo il pubblico dei teatri domanda, per accendersi di fede, eroine convenzionali (la Traviata, la Schiava, la Regina)... E così in eterno ogni perla del mare ricopia la prima perla, e ogni rosa

ricopia la prima rosa.

Metamorfosi.

Dunque, io, sebbene non vi pensassi, in realtà sapevo ormai da tempo a chi andavano i voti e gli strazi insoliti che fin dall’autunno avanti tormentavano l’esistenza di Wilhelm Gerace; ma questa tenebrosa conoscenza si snodava e ramificava nascosta sotto i miei pensieri, lungo i giorni di quell’estate febbrile.

Le poche allusioni di mio padre che ho detto furono i soli accenni all’argomento che si ebbero fra noi due. Io cessai d’invitarlo alla marina o altrove; e dei suoi segreti, fra noi, non si parlò più. Questo silenzio tortuoso e tenace non tanto si dovette alla volontà di lui, quanto alla mia, piuttosto. Il silenzio mi pareva quasi un pegno, dovuto a me stesso, del mio disprezzo per quell’innominato del molo; e forse m’illudevo, così, di schiacciare veramente l’esistenza di colui sotto una pietra sepolcrale, negando il suo potere misterioso. Giunsi al punto che una volta, essendomi capitato, con mio padre, di nominare non so a che proposito il Penitenziario, arrossii di rivolta e d’onta contro me stesso.

Ogni giorno, a una cert’ora (per lo più sul tardo pomeriggio), mio padre interrompeva la sua tediosa clausura, e usciva rifiutando ogni compagnia. Ormai, non avevo, certo, bisogno di spiarlo per sapere dove si dirigeva; e il quartiere torreggiante della Cittadella, che già in passato, per una specie di pudore sacro, io sempre evitavo nelle mie passeggiate, si cinse, per me, di un divieto nuovo, strano e mostruoso. Mi è difficile, ancora oggi, di descrivere quel mio sentimento, che allora, del resto, io stesso mi rifiutavo di esaminare. Forse, lo si potrebbe paragonare a quello che le tribù mosaiche dovevano provare per il tempio di Bal in Babilonia; o a qualcosa di simile!

Gli accenni occasionali di mio padre eran venuti a confermarmi che lui, e il condannato del molo, già si conoscevano ed erano amici prima di quel famoso giorno ch’io li avevo veduti sbarcare da una stessa nave a Procida. E l’oscuro favore (non poteva essere un caso) che aveva portato colui sul territorio caro a mio padre, era per me una riprova di una sorta di complicità magica esistente fra i due. Il contegno ostentato dal giovane allo sbarco non bastava a farmi credere ch’egli non ricambiasse l’amicizia di mio padre: giacché l’insolenza, in colui, mi pareva un abito naturale, come la pelle maculata per il leopardo.

Ignoravo il delitto commesso dal nostro Carcerato. Ma avevo motivo, però, di attribuirgli un delitto grave, giacché la Casa Penale di Procida raramente ospitava delinquentucci di poco conto; e secondo la mia visione, poi, la condanna che più gli somigliava era quella dell’ergastolo; per cui, nei miei pensieri, finii a nominarlo quasi sempre col titolo di Ergastolano.

Una tale idea, ch’egli fosse murato a vita, poteva essere anche di qualche consolazione per me; ma si trattava, in realtà, di una consolazione povera quanto crudele. Sentivo, difatti, che la qualità di ergastolano, se da un lato limitava la padronanza di colui su mio padre, dall’altro lo magnificava più superbamente ai suoi

occhi, non meno che ai miei!

Intanto, la mia fede bambinesca e superstiziosa nell’autorità di mio padre (un’autorità più che umana, capace d’ogni portento!) ricominciò ad agire. Sapevo che, secondo la legge, i reclusi del Bagno Penale potevano ricevere visite d’estranei solo a radi intervalli, e per la durata di pochi minuti, e sempre alla presenza dei secondini. Ma pure, in qualche fondo inesplorato della mia mente s’andò radicando l’opinione che mio padre, uscendo, ogni giorno, si recasse a un convegno col Carcerato. Grazie a chi sa quali poteri astrusi, o subdole corruzioni, per corridoi sotterranei, segreti, essi s’incontravano e si trattenevano insieme ogni giorno. Ora, nella solita regione dormiente della mia fantasia, come in una nebbia opaca, questi loro incontri prendevano una figura imprecisa, ma misteriosamente orribile. La strana immagine di creta, fosca e fluida come una lava, che nelle mie parvenze, non so perché, raffigurava il giovane recluso, si trasmutava, per un laido incanto, con la persona di mio padre, sfacendosi e plasmandosi con essa in una statuaria informe, cangiante e favolosa. E questa metamorfosi indecifrabile aveva per me l’occulto valore di certi sogni che poi, da svegli, appaiono senza senso, ma, mentre si sogna, sembrano oracoli nefasti.

E fra questo orrore confuso, ecco riaccendersi, peggiore di ogni altra cosa, quella fiamma di grazia perentoria e senza rivali, che tornava a trasfigurare, dentro di me, l’apparizione del molo. Era come se il giovane Carcerato mi gettasse un saluto ironico, nel cambiarsi di nuovo, da mostro deforme, in un grazioso personaggio araldico, che gridava: impostura al mio disprezzo. Spietatamente, di nuovo, i miei famosi pregiudizi infantili ritornavano ad adornarlo... E in un attimo la Casa di Pena mi si mostrava simile al Castello dei Cavalieri di Siria; fiabeschi avventurieri araldici, consacrati a un voto sanguinario, affollavano quel palazzo murato, nel quale solo mio padre veniva accolto. Costoro dominavano l’isola col loro tragico incantesimo: sui loro visi emaciati, i diversi delitti e la schiavitù diventavano un artificio di seduzione, come il bistro sulla faccia delle donne. E tutti accerchiavano, proteggendolo con la loro omertà, quel punto nebuloso, sotterraneo, dove mio padre s’incontrava con l’apparizione del molo.

Sebbene così prossimo, il quartiere della Cittadella ormai s’era situato, per me, in una dimensione inesorabile, fuori dall’umano, quasi un funebre Olimpo. Io ero giunto a escluderlo non solo dai miei itinerari abituali, ma, per quanto era possibile, anche dalla mia vista. In barca, evitavo di doppiare da vicino la Punta a Nord, dietro la quale il Castello, in cima a un basamento di rocce, sovrasta a picco il mare senza rive. E quando passavo al largo di là, giravo sempre gli occhi verso l’alto mare, stornandoli da quella forma irregolare e massiccia, che somigliava, in lontananza, a una montagna corrosa di tufo. La mia superstizione mi suscitava, in quel passaggio di mare, delle impressioni che sapevo false, ma che pure mi si facevano quasi allucinanti. Mi pareva di udire, dalla forma di tufo alle mie spalle, degli echi stranamente melodiosi, che vociferavano all’unisono. E mi sgomentava il bizzarro sospetto di poter discernere, d’un tratto, fra quel coro, la voce di mio padre, irreale come quella d’un feticcio o d’un morto. Egli si aggirava là, in una magnificenza funeraria, con la sua faccia bianca e deperita.

La fine dell’estate.

S’era giunti, ormai, alla fine di settembre. Un giorno, m’attardai tanto in altomare con la mia barca, da lasciar passare, quasi senza accorgermene, l’ora che di solito mi recavo a trovare Assuntina. Quando sbarcai a terra, giudicai, dalla posizione del sole, che dovevano essere circa le quattro del pomeriggio; e infatti, udii di lì a poco, dal campanile, suonare le quattro e un quarto. Decisi che era troppo tardi per andare da Assuntina, e rinunciai a lei per quel giorno. Dopo aver tirato in secco la barca, trassi di sotto la solita roccia, dove sempre li lasciavo al mattino, la mia maglietta sbrindellata e le scarpe di corda; e incominciai a inerpicarmi, senza una meta precisa, per certe scorciatoie campestri che conducevano fin dentro il paese.

Le ombre dei tronchi e degli steli erano già lunghissime, e i colori già smorzati e freschi. Due mesi fa, alla stessa ora del pomeriggio, l’isola era ancora tutta un incendio. Le giornate s’erano accorciate molto, da allora. Fra poco, l’estate era finita.

Gli altri giorni, in compagnia di Assuntina, io non m’ero fermato mai troppo a considerare questa realtà. Fu come se oggi, approfittando della mia solitudine, un triste genio smorto, dagli occhi semichiusi, mi si facesse davanti; e mi salutasse, scorrendo per l’erba con un fruscio autunnale. Il suo saluto significava proprio addio; come se qua, oggi, io sapessi, in modo definitivo, che questa era la mia ultima estate sull’isola.

Sebbene in modo vago, io, per la verità, sempre, in quei mesi, m’ero posto la fine della presente estate come termine ultimo del mio soggiorno a Procida. Ma pensando

estate, io vedevo allora, nella mia mente, una stagione indistinta e senza limite, pari a

un’esistenza intera! Mi lusingavo nella confusa fiducia che questa tale estate, così come avrebbe maturato l’uva, le ulive e le altre frutta dei giardini, dovesse, in qualche modo, maturare anche le acerbità della mia sorte, risolvendo i miei dolori in una grande spiegazione consolante. Arrivare, invece, alla fine, coi miei dolori rimasti acerbi: ecco il presagio a cui non potevo credere, e che tuttavia avvertivo nella luce, e nei soffi delicati dell’aria, come un saluto ambiguo e agghiacciante. Domanda senza

risposta, voleva dire, tradotto in parole, quel saluto: e niente, nessuno mi diceva altra

parola; neppure gli occhi di N. ch’erano così belli e materni, e per me solo si facevano di pietra!

Portato dalla mia mente distratta, mi ritrovai lungo la ripida salita dei Due Mori, che finisce sulla Piazzetta del Monumento.

La Piazzetta, limitata a ponente, in vista della marina, da una semplice balaustra, splendeva, a quell’ora, di un’accensione calma e stupenda, fra il colore rosa arancione dei suoi muri e il grande riflesso d’oro dell’acqua. Ho parlato diverse volte di questa bella piazzetta, ma forse non ho ancora detto che, da essa, partivano, in tutto, quattro vie. Una era, appunto, la scarpata dei Due Mori. Un’altra, era quella, da noi tante volte percorsa in carrozza, che scendeva verso la contrada del Porto; e che poi, dal lato opposto della piazza, continuava, cambiando nome, nella mia famosa straducola

fra i giardini. L’ultima, infine, la più ampia, ben lastricata, sul lato di ponente, si snodava, come un tortuoso belvedere, verso l’altezza della rocca. La medesima balaustra della piazzetta proseguiva lungo il suo fianco esterno; lasciandola, così, in quell’ora, aperta anch’essa, come la piazzetta, al sole pieno, che la accendeva di un rosa arancione meraviglioso.

La Terra Murata.

Questa era l’unica via dell’isola che conduceva alla porta della Terra Murata (così il popolo, in ricordo delle antiche fortificazioni, chiama la contrada del Penitenziario). Era di qua che passava la camionetta recante i nuovi prigionieri su dal porto. E non so più da quanto tempo io non passavo per questa via, che oramai, per me, era come scancellata dall’isola.

Ma, quel giorno, la scelsi d’istinto, senza molta esitazione né meraviglia: avvertendo solo un rapido batticuore, come se, con l’infrangere il mio divieto, compiessi un atto temerario, pieno di solennità. La lunga striscia della strada, fino all’ultima svolta visibile, era deserta; e mi dava un senso di riposo salire per quella calma incantata, che pareva quasi offrirmi un rifugio nella sua orrenda malinconia. L’isola, che stendeva, in basso, la sua forma di delfino, fra i giochi delle spume, coi fumi delle sue casette e il brusio delle voci, mi appariva lontanissima, e non più maliosa per me, che cercavo malìe più severe! Io m’inoltravo in una zona fuori dell’anno, dove la fine dell’estate non portava né speranza né addii.

Lassù nei tragici palazzi della Terra Murata, durava sempre un’unica stagione disperata e matura, divisa dal mondo delle madri, in una devastazione superba.

Verso il sommo della salita, a sinistra, opposti alla balaustra, incominciavano i primi fabbricati del Penitenziario, con le abitazioni degli addetti, gli uffici e le infermerie. Al termine, la salita si slargava in una terrazza, che offriva su due lati la vista del mare aperto all’infinito, di una freschezza celeste. Qua sorgeva la gigantesca porta della Terra Murata, con la sua profonda volta di pietra, e le garitte per le sentinelle scavate nei pilastri. Davanti a una delle garitte, passeggiava sempre una sentinella armata; la quale, però, non interdiceva l’ingresso ai liberi passeggeri, perché, al di là della porta, oltre alla città delle prigioni, esisteva un borgo popoloso, con chiese antiche e conventi.

Come giunsi alla terrazza, vidi a pochi metri da me, mio padre, che, mezzo seduto sulla balaustra, con le spalle rivolte alla veduta, in una specie di apatia fantasticante si lasciava spettinare i capelli dalla brezza ponentina. Mi arrestai, trasalendo, allo scorgerlo; ma egli non si accorse di me. Il suo volto, angoloso per la magrezza, sembrava, contro la luminosità del sole al declino, quasi un volto adolescente fra l’ombratura della barba trascurata che diventava simile a una lanugine d’oro. Di lì a poco egli si mosse, nel suo vestito di tela azzurro stinto, sbottonato sul petto bianco, e qua e là sventolante all’aria; e s’internò sotto l’arcata della porta. Allora, anch’io, prendendo un passo strascicato per mantenermi distaccato da lui, mi

avviai nella stessa direzione. Mi pareva, ormai, d’aver saputo già da prima che ero venuto qui per spiarlo. E avvertivo che forse fin dall’inizio dell’estate m’ero preparato a seguire, una volta o l’altra, le tracce del suo mistero.

La caccia.

Di sotto il passaggio a volta della porta, lugubre corridoio affrescato sull’intonaco, dall’alto in basso, di croci d’un nero polveroso, si usciva sulla Piazza Centrale della Terra Murata, che per l’immensità sembrava un piazzale di metropoli, ma era sempre stranamente deserta. A sinistra di questa piazza, in fondo a un ripido valloncello lastricato, un cancello sbarrava l’accesso a una vasta corte gialla e nuda, in cui si levavano enormi fabbricati rettangolari. Sul cancello si leggeva la scritta

Casa di pena intorno a un rilievo colorato di Santa Maria della Pietà.

Quella era l’entrata del Penitenziario. Da quel punto, attraverso certe fabbriche basse protette da muraglie, la collina delle prigioni saliva, dietro alla Piazza Centrale, fino al Castello antico che si vedeva torreggiare, a destra, al di là del piccolo borgo ammucchiato ai suoi piedi. Durante un secondo, io, col cuore sospeso, m’aspettai di veder mio padre avviarsi sicuro giù per il valloncello, e subito scomparire, come per miracolo, ai miei sguardi, dietro quel cancello proibito. Ma invece egli prese a destra; e costeggiando la piazza si avviò verso la zona alta della Terra, dove, su per gli scaglioni dell’antica rocca, in un labirinto di incroci, di salite e di discese, si

Nel documento L’Isola di Arturo (pagine 190-200)

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