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Capitolo sesto Il bacio fatale

Nel documento L’Isola di Arturo (pagine 166-190)

Ricerco un bene Fuori di me. Non so chi’l tiene non so cos’è.

(Aria di Cherubino)

Il bacio fatale.

Così, con quel bacio, io avevo nuovamente disfatta la nostra amicizia; e stavolta, senza rimedio!

Dopo quel fatale avvenimento, bastava ch’io entrassi in una stanza dov’ella si trovava (anche se non le rivolgevo nemmeno la parola, anche se andavo là semplicemente per fatti miei che non la riguardavano) — bastava ch’io le comparissi dinanzi! — e subito ella perdeva ogni sicurezza e spontaneità. La fierezza naturale del suo contegno, che in lei si univa così gentilmente alla mansuetudine, cadeva di colpo, sopraffatta da una strana paura. Questa sua paura, ripeto, appariva d’una specie insolita, non la stessa che già ella aveva mostrato in altre passate occasioni, per esempio dinanzi a mio padre. Se dovessi inventare un’immagine per questa nuova paura, non saprei paragonarla che a una fiammella, la quale d’un tratto la investiva della sua rosea luce infida, e le lambiva le membra; e alla quale essa cercava di sfuggire con dei modi smarriti, inconsulti. Un rossore improvviso, poi un pallore le saliva alla faccia; si aggirava per la cucina, raccogliendo e lasciando, senza scopo, questo e quell’oggetto, con le dita che le tremavano; poi si risedeva presso Carmine, e si dava a cantargli le solite sue canzoni, con una voce timida e fredda, come se non ascoltasse, lei medesima, le parole che diceva. E quelle canzoni fossero un pretesto, o addirittura una piccola cantilena magica, per distrarre da se stessa la propria paura, e l’impaccio della mia presenza. A volte si sarebbe detto ch’ella si riparava dietro la cesta di Carmine, o lo stringeva fra le braccia, per difendersi da un intruso che la impauriva. Ed ero io, l’intruso! Ma il fatto più strano, che ancora non ho detto, è questo: che io stesso, in presenza di lei, avevo paura!

Dico paura, perché allora non avrei saputo definire con altra parola più vera il mio turbamento. Sebbene avessi letto libri e romanzi, anche d’amore, in realtà ero rimasto un ragazzino semi-barbaro; e forse, anche, il mio cuore approfittava, a mia insaputa, della mia immaturità e ignoranza, per difendermi contro la verità? Se

ripercorro col pensiero, adesso, fin dal principio, tutta la mia storia con N., imparo che il cuore, nelle sue gare contro la coscienza, è estroso, avveduto e fantastico quanto un maestro costumista. Per creare le sue maschere, gli basta magari una trovata da niente; a volte, per travestire le cose, sostituisce semplicemente una parola con un’altra... E la coscienza si aggira in questo gioco bizzarro come uno straniero a un ballo mascherato, fra i fumi del vino.

Da quando l’avevo baciata, io non potevo rivederla senza provare un batticuore mortale (che mi incominciava fin dalla strada, appena mi si mostrava là in fondo — sempre più vicina a ogni passo! — la Casa dei guaglioni). Quest’ansia poi mi diventava, in presenza di lei, anche uno struggimento, quasi un’amarezza d’ingiustizia, e una rabbia. Il fatto era questo: che di tutti gli innumerevoli minuti che componevano il nostro passato comune, io, rivedendola, ne ricordavo uno solo: quello in cui l’avevo baciata. Mi pareva che il mio bacio le avesse lasciato un segno visibile per tutto il corpo, attorniandola d’una specie d’aureola complice, radiosa, morbida, dolce, e mia! e là io desideravo tornare a rifugiarmi, come nel mio nido. Come se ella fosse, ormai, la prigioniera incantata del mio bacio; e io fossi chiamato a dividere questa affettuosa prigionia con lei. Ormai, non potevo rivederla senza risentire la necessità, veemente e irresistibile, di stringerla e di baciarla ancora. Ma come potevo imporle questa mia necessaria pretesa, anzi questo mio diritto, se lei mi s’era fatta nemica proprio a causa del mio bacio? e proprio quell’unico nostro bacio, che a me sembrava una presenza così luminosa, per lei era diventato, invece, una figura di minaccia e di spavento? Avevo la sensazione (tanta era la sua paura) che, se l’avessi abbracciata e baciata un’altra volta, l’avrei uccisa! Un giorno, ch’ella tagliava del pane con un coltello, io, che in quel mentre col solito batticuore la fissavo, incontrai il suo sguardo; e credetti di leggere, nel suo dolce viso tremante, proprio queste parole: «Bada, se ti accosti a me, io mi trapasso con questo coltello, e cado qua morta».

La sua paura, così, diventava una paura anche mia. E io e lei, insieme, dentro la stessa stanza, ci muovevamo sperduti, come attraverso un fragore prorompente, che ci urtava, ci avvicinava e ci separava, vietandoci d’incontrarci mai. Dopo un poco, io uscivo senza salutarla, incapace di esprimerle il mio struggimento amaro e la mia rivolta. Il suo rifiuto dei miei baci mi appariva nient’altro che una negazione della nostra amicizia e parentela: una condanna, che voleva relegarmi ingiustamente nella solitudine.

Questa ingiustizia, di cui accusavo la matrigna, incatenava tuttavia la mia volontà, con un potere grave, e un prestigio misterioso; però, nessuno scrupolo o consapevolezza di colpa visitava la mia mente. Nei miei sentimenti verso di lei, io non avvertivo niente di proibito. E nemmeno nel mio bacio! Io, nel baciarla, avevo ubbidito a un impulso di allegrezza e di gloria, spensierato e senza rimorso. Fra le mie Certezze Assolute, non ce n’era una che dicesse: È un delitto baciare gli amici e i

parenti.

Non ignoravo, si capisce, che i baci non sono tutti gli stessi. Avevo letto, fra l’altro, anche il Canto di Paolo e Francesca, per esempio. Senza contare le dozzine di canzoni che sapevo, e che parlavano tutte di carezze e baci d’amore. E avevo inoltre avuto occasione di scorgere, giù al porto, qualche rivista illustrata di cinema, con

fotografie di coppie che si baciavano (apprendendo, dalle didascalie, pure il nome di qualche divo)... Ma ero stato troppo avvezzo, finora, a venir considerato un ragazzino, per mettermi d’improvviso al posto di Paolo, il dannato del Girone Infernale, oppure dell’eroe Clark Gable (il quale, fra l’altro, mi riusciva anche antipatico, perché aveva una faccia schiacciata, e per di più era moro). L’amore vantato nelle canzoni, nei libri e nelle riviste illustrate, per me era rimasto una cosa remota e leggendaria, fuori della vita vera. Come si sa, la sola donna dei miei pensieri era stata sempre la Madre: e se avevo sognato dei baci, erano stati sempre i baci santi di una madre al figlio.

Così, adesso che N., proprio con la paura che aveva di me, mi faceva, in realtà, il massimo onore sempre sospirato (di trattarmi da uomo, e non più da ragazzino), io non sapevo riconoscere quest’onore!

Vietato.

Già! adesso son bravo a domandarmi se non fosse per caso la famosa malizia del mio cuore, il quale fingeva di non riconoscere prove evidenti, per lasciarmi nell’impunità. Adesso, so fare congetture e ricerche, meglio di un filosofo. E dico e suppongo: forse, s’io avessi interrogato virilmente la mia coscienza, questa (che non era poi del tutto barbara, per quanto immatura) mi avrebbe risposto: «Non fare imbrogli! Sei un falsario e un seduttore». Ma in realtà, nei giorni limpidi e calmi di quella primavera procidana, d’intorno a me era scesa una specie di nube corrusca, attraversata da luci nuove e strane e da figure astruse: e nella quale io vivevo involto come un masnadiero; tale che non ricordavo neppure che esistesse la coscienza, e a volte non m’accorgevo nemmeno più d’essere me stesso.

Può darsi che, a quell’epoca della vita, tutti abbiano sperimentato qualcosa di non molto diverso.

Avevo ricominciato a trascorrere le giornate intere fuori di casa, incontrandomi con N. il meno possibile. E in quelle ore di separazione, la mia mente stessa, senza nessun intervento della mia volontà, si separava dall’immagine di lei. Non ripensavo mai al suo viso, né, ancora meno, al suo corpo; si sarebbe detto che anche il mio pensiero rifuggiva dalla vista della matrigna! Ma pur senza guardarla, al modo di un pellegrino bendato, il pensiero ritornava a lei.

Ecco in quale modo. Intanto si sappia poiché ancora non l’ho detto), che il fatale bacio, nella mia memoria capricciosa, s’era fatto più ingenuo del vero (come una musica di cui si rammenti solo il semplice tema). Certe violenze bizzarre e fiere, da me provate in quel bacio, mi s’erano quasi cancellate dal ricordo (e più improbabile, dunque, diventava, per me, di riconoscermi colpevole per aver dato un bacio!) Un’altra cosa, invece, non mi si faceva dimenticare: e cioè che in quell’unica occasione, per la prima volta, io avevo chiamato N. per nome (in luogo di dirle al solito: ehi, tu, o simili). A motivo di non so quale decreto immaginario, questa cosa aveva per me il sapore di un’infrazione: quest’unica cosa! E ora tale sapore, spesso,

ritornava a tentarmi.

Non so quante volte nella giornata, pur senza pensare a lei, mi sorprendevo a ripetere a voce bassa: Nunziata, Nunziatella; col gusto di una leggerezza deliziosa ma temeraria, quasi confidassi un segreto a un compagno traditore. Oppure tracciavo col dito quel nome su un vetro, o sulla rena; e subito poi lo scancellavo, come un malfattore fa con le tracce che possono accusarlo. Ma d’improvviso, il rumore delle onde, il fischio dei vapori, tutti i suoni dell’isola e del cielo, parevano gridare insieme: Nunziata! Nunziatella! Sembrava una rivoluzione immensa, inebriante, contro il famoso divieto (in verità inventato da me stesso), che da sempre mi negava quel nome. E, insieme, una denuncia altissima della mia infrazione, tale che quasi mi travolgeva.

Il nome di Nunziata, Nunziatella s’era trasformato, per me, quasi in un motto astruso: come una parola d’ordine fra congiurati, la quale, nel venire assunta a trame subdole, si spoglia del suo senso originario. Così, nemmeno il suono di quel nome, ormai simbolo di un’oscura legge infranta!, non riportava la mia mente al volto, alla persona fisica di lei. Fuori della sua presenza, la persona di lei pareva nascondermisi dentro una nube; poi, appena tornavo in sua presenza, la nube si squarciava per mostrarmi sempre il volto severo della negazione.

Perfino dai miei sogni, N. si teneva assente. O almeno, io non ricordo che li visitasse mai, allora.

Ricordo che, in quell’epoca, facevo sogni da Mille e una notte. Sognavo di volare! Sognavo d’essere un signore magnifico, che gettava in aria alla folla migliaia di monete! O un gran monarca arabo, che attraversava a cavallo un deserto bruciante; e, al suo passaggio, dalle rocce del deserto sgorgavano freschissime sorgenti verso il cielo!

Nella realtà, invece, mi pareva d’esser diventato, d’un tratto, il nemico armato di tutte le cose esistenti!

Reggia di Mida.

L’ho detto, che quella fu una bizzarra stagione per me. Il contrasto fra me e la matrigna non era che uno degli aspetti della grande guerra che, rapidamente, col rifiorire della primavera, sembrava essersi scatenata fra Arturo Gerace, e tutto il creato restante. Il fatto era che il ritorno della bella stagione in quell’anno per me si accompagnò, credo, col passaggio di quella età, che vien detta, dalle buone famiglie,

età ingrata. Non m’era mai accaduto, prima, di sentirmi così brutto: nella mia

persona, e in tutto quello che facevo, avvertivo una strana sgraziataggine, che incominciava dalla voce. M’era venuta una voce antipatica, che non era né più da soprano (come la mia di prima) né, ancora, da tenore (come la mia di dopo): pareva quella di uno strumento scordato. E tutto il resto, era come la voce. La mia faccia era ancora di un disegno piuttosto rotondo, liscia; e il corpo, invece, no. Il vestito di prima non m’entrava più, così che N., benché nemica, dovette occuparsi ad

aggiustare per la misura mia certi pantaloni da marinaio che una sua amica bottegaia le dette a credito. E intanto io avevo l’impressione di crescere senza grazia, in una maniera sproporzionata. Le mie gambe, per esempio, in poche settimane erano diventate così lunghe da impacciarmi; e le mani mi s’erano fatte troppo grandi in confronto al corpo, rimasto magro e snello. Quando le chiudevo, mi pareva di portare i pugni di un brigante adulto, che non ero io. E non sapevo che fare, con quei pugni da assassino: avevo sempre voglia di menarli dovunque fosse, tanto che, se non me lo avesse impedito la superbia, mi sarebbe piaciuto di litigare col primo incontrato, magari con un capraro, con un bracciante, con chiunque. Invece, non attaccavo discorso né lite con nessuno; e anzi, più ancora di prima, se possibile, mi tenevo distante da tutti. In verità, mi sentivo un personaggio così stonato e maledetto che quasi avrei voluto andare a rinchiudermi in qualche tana, dove mi si lasciasse crescere in pace fino al giorno che, come già ero stato un ragazzino abbastanza bello, non fossi diventato un giovane abbastanza bello. Ma: andare a rinchiudermi! sì! una parola! come avrei sopportato di stare rinchiuso, quando mi sembrava d’avere addosso uno spirito infernale, che mi trasformava in una specie di animale selvatico, tutto il giorno alla caccia di non sapevo quale preda! La benignità della stagione inaspriva il mio umore: nell’inverno, nella tempesta sarei stato più contento. Le grazie primaverili dell’isola, che gli altri anni mi piacevano tanto, m’ispiravano quasi una rabbiosa ironia, mentre m’arrampicavo e ridiscendevo per quelle rocce e quei prati con le mie lunghe gambe, simile ad un camoscio o a un lupo, in una turbolenza continua che non trovava sfogo. In qualche momento, l’allegrezza trionfale della natura mi vinceva, trascinandomi a esaltazioni straordinarie. I fiori fantastici dei vulcani, che invadevano ogni pezzo di terreno incolto, sembravano spiegarmi per la prima volta certi motivi deliziosi della loro forma e dei loro colori, invitandomi a una festa gioiosa, cangiante... Ma subito mi riprendeva la solita collera sconsolata, resa più acre dalla vergogna di quel mio vano trasporto. Non ero una capra, o una pecorella, per saziarmi d’erbe e di fiori! E per vendicarmi, devastavo il prato, strappando i fiori, pestandoli ferocemente sotto i piedi.

La mia disperazione somigliava alla fame e alla sete, pur essendo cosa diversa. E dopo aver tanto sospirato di arrivare a una maggiore età, quasi rimpiangevo le mie età di prima: che cosa mi mancava, allora? niente. Avevo voglia di mangiare: e mangiavo. Avevo voglia di bere: e bevevo. Desideravo divertirmi: e me ne andavo sulla Torpediniera delle Antille. E l’isola, per me, che cos’era stata, finora? un paese d’avventure, un giardino beato! ora, invece, essa mi appariva una magione stregata e voluttuosa, nella quale non trovavo da saziarmi, come lo sciagurato re Mida.

Mi prendevano voglie di distruzione. Avrei voluto poter esercitare un mestiere brutale, per esempio, lo spaccapietre, per occupare il mio corpo, dal mattino alla sera, in una qualche azione futile e violenta, che mi distraesse, in qualche modo. Tutti i piaceri della bella stagione, che una volta mi bastavano, mi apparivano insufficienti, irrisori; e non c’era nessuna cosa ch’io facessi senza una volontà d’aggressione e di ferocia. Mi tuffavo nel mare con atti bellicosi, alla maniera d’un selvaggio che si butti sull’avversario stringendo un coltello fra i denti; e, nuotando, avrei voluto rompere, devastare il mare! Poi saltavo sulla mia barca, remando all’impazzata verso il largo; e là, nell’alto mare, mi davo a cantare disperatamente con la mia voce scordata, come

se urlassi delle parolacce.

Al ritorno, mi stendevo sulla rena assolata, che somigliava a un bel corpo di seta, nel suo tepore carnale. Mi abbandonavo, quasi cullato, alla leggera stanchezza del mezzogiorno; e avrei voluto abbracciarmi con la spiaggia intera. A volte, dicevo tenerezze alle cose, come fossero persone. Incominciavo a dire, per esempio: — Ah, bella rena mia! spiaggia mia! luce mia! — e altre tenerezze più complicate, addirittura da pazzo. Ma era impossibile abbracciare il grande corpo della spiaggia, con la sua innumerevole sabbia vetrina, che sfuggiva fra le dita. Là presso, un mucchio d’alghe, macerate dai salino primaverile, mandava un odore dolce e fermentante, come di muffa sull’uva; e io, quasi fossi diventato una gatta, mi divertivo a mordicchiare, a sparpagliare furiosamente quelle alghe. Troppa era la mia voglia di giocare: con chiunque, magari anche con l’aria! E occhieggiavo al cielo, aprendo e richiudendo forte le palpebre. Il puro azzurro disteso su di me sembrava avvicinarsi, trapungendosi come un firmamento, poi incendiarsi in un gran fuoco unico, poi farsi nero d’inferno... Mi rivoltavo sulla rena ridendo: la vanità di questi giochi mi esacerbava.

Allora, ero preso da una compassione quasi fraterna di me stesso. Tracciavo sulla rena il nome: ARTURO GERACE aggiungendo È SOLO; e ancora, di seguito, SEMPRE SOLO.

E più tardi, mentre risalivo verso casa con la certezza di non trovare, là, nient’altro che una nemica, mi assalivano, spesso, delle volontà infernali! Decidevo di afferrare la matrigna per i capelli, di buttarla in terra, e di picchiarla con quei miei pugni spropositati, gridandole: «Basta, con queste tue maniere maledette! Devi finirla!» Ma poi, alla presenza di lei, i miei propositi biechi fuggivano. Mi sentivo pieno d’imbarazzo e d’onta, come se là, nella cucina, non ci fosse più posto per me. La famosa panca, dove una volta amavo distendermi, s’era fatta troppo corta per la mia statura. Le mie gambe lunghe, la mia voce innaturale, le mie mani, m’ingombravano più che mai. E una sensazione sconsolata, disastrosa, m’invadeva: che le mie presenti bruttezze, e non altro, fossero la causa per cui N. mi scansava da sé!

Da vecchi, poi, lo so, simili tragedie risultano, più che altro, comiche; e se si vuole, adesso, a distanza anch’io ne rido. Ma bisogna riconoscere che non è facile passare le ultime frontiere di quella pessima età ingrata senz’aver vicino nessuno a cui confidarsi: né un amico, né un parente! Allora, per la prima volta nella mia vita, io sentii davvero tutta l’amarezza di esser soli. Incominciai a rimpiangere disperatamente la presenza di mio padre (egli mancava ormai da circa due mesi e mezzo: un intervallo inaspettatamente lungo, dopo quell’epoca durante la quale, come ho già detto, lo si rivedeva spesso sull’isola). Nella mia nostalgia, mi facevo, di lui, un ritratto romantico, e non troppo rassomigliante, devo dire. Dimenticavo assolutamente che fra noi non c’era mai stata nessuna confidenza. E che certe cose, a lui soprattutto, non avrei mai potuto né saputo confidarle. Dimenticavo perfino il suo contegno degli ultimi tempi, non certo incoraggiante per la conversazione.

Mi rappresentavo W. G. come una sorta di grande angelo affettuoso, il solo amico mio sulla terra: colui al quale potrei confessare, forse, tutte le mie ambasce, anche quelle inconfessabili, e che potrebbe capirmi, spiegarmi ciò che non capivo!

Via via che quella mia perfida primavera maturava nel disordine e nel tormento (e doveva essere l’ultima primavera da me passata a Procida!), io mi attaccavo alla visione angelica di mio padre come all’unico rifugio sperato. Tutto ciò che rendeva inverosimile, utopistico, un simile sogno, io me lo nascondevo, ormai. Una speranza, a volte, indebolisce le coscienze, come un vizio.

E ricominciai, al modo di quand’ero ragazzino, benché per motivi differenti, ad aspettare ogni giorno Wilhelm Gerace. Mi trovavo fedelmente, ostinatamente sulla banchina, ad ogni arrivo del piroscafo da Napoli: finché, com’era inevitabile, un bel giorno egli ritornò. Giunse col secondo piroscafo del pomeriggio, che entrava in porto verso le sei. S’era alla metà di maggio, le giornate erano ormai lunghe, e, alle sei, durava ancora la piena luce solare.

Sul molo.

Come lo vidi comparire sul ponte di coperta, dinoccolato e solitario, che si teneva

Nel documento L’Isola di Arturo (pagine 166-190)

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