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b) La finestra di Palomar Come appendice e sguardo prospettico

1) Homo: terrestre per condizione e prospettiva

1.3. b) La finestra di Palomar Come appendice e sguardo prospettico

Come un’appendice a questo viaggio attraverso la finestra della condizione umana,

appuntiamo questo ultimo ‘link’, giustificato dalla connessione per analogia tra il tele-

scopio di Magritte e Palomar di Italo Calvino.

Un’appendice, come ‘postilla conclusiva non scientifica’, che, senza pretese acca-

demiche, da un lato vuole indicare un ulteriore possibile percorso di approfondimento;

dall’altro lato vuole aprire un possibile squarcio su quello che sarà l’approdo del nostro

testo: dentro e oltre la soggettività moderna.

“Le meditazioni di Palomar. Il mondo guarda il mondo.

In seguito a una serie di disavventure intellettuali che non meritano d’essere ricordate, il signor Palomar ha deciso che la sua principale attività sarà guardare le cose dal di fuori. Un po’ miope, distratto introverso, egli non sembra rientrare per temperamento in quel tipo umano che viene di solito definito un osservatore. Eppure gli è sempre successo che certe cose – un muro di pietre, un guscio di conchiglia, una foglia, una teiera – gli si presentino, come chiedendo un’attenzione”...

Subito attrae la nostra attenzione l’immagine che Cal-

vino stesso ha scelto per la copertina del suo Palomar

(1983). La conosciamo: è la finestra/quadro di Dürer che

abbiamo già incontrato.

L’allusione è più che un richiamo. Il problema anche

qui è quello dello sguardo e della prospettiva. E, quindi,

del rapporto soggetto/oggetto. Il linguaggio, però, è quel-

lo della letteratura e non della pittura.

La storia di Palomar è conosciuta. Il suo nome tiene

insieme lo sguardo/telescopio (Palomar è il nome di un

noto osservatorio astronomico americano) e il palombaro/micro-

scopio che si inabissa sotto la superficie del dato. Palomar è un osservatore miope, ab-

biamo letto (il che già è un paradosso programmatico); uno che decide di vedere: ma

che non decide che cosa vedere; infatti non è tanto lui che va verso le cose, ma sono le

cose si muovono verso di lui, quasi chiedendo di essere viste.

Il libro è costruito in tre sezioni, in cui Calvino sperimenta linguaggi diversi, per

esperienze diverse, per ambiti d’osservazione diversi. Comune è il ‘soggetto’ dello sguar-

do, Palomar appunto; che prima guarda la natura e si tuffa nell’esperienza visiva, por-

tandola in superficie con il linguaggio della descrizione (prima parte); poi guarda gli uo-

mini e si sofferma sugli elementi simbolici del mondo antropologico, narrandoli attra-

verso racconti (seconda parte); infine giunge alla ‘teoria’, allo sguardo speculativo e si

perde nelle sue riflessioni, esprimendole nel linguaggio della meditazione (terza parte).

Le pagine che abbiamo citato sono appunto collocate in questo contesto: in una

‘meditazione’ di Palomar, dal titolo significativo: ‘Il mondo guarda il mondo’; ed ecco

che subito riaffiora la domanda sull’io/finestra:

“Come si fa a guardare qualcosa lasciando da parte l’io? Di chi sono gli occhi che guardano? Di solito si pensa che l’io sia uno che sta affacciato ai propri occhi come al davanzale d’una finestra e guarda il mondo che si distende in tutta la sua vastità lì davanti a lui. Dunque c’è una finestra che s’affaccia sul mondo. Di là c’è il mondo: e di qua?”

Ecco il primo esercizio: possiamo dire, al di là di

Calvino, sfruttando le sue metafore, che questo sia l’e-

sercizio della modernità. Come guardare il mondo in

maniera oggettiva, astraendo dal soggetto? La moder-

nità risponde: considerando il soggetto appunto solo

come sguardo, pensiero: finestra trasparente, aperta sul

reale. Di chi sono gli occhi che guardano? Quelli del

Trascendentale, di un Io ‘puro’.

Ma... continua la meditazione di Palomar, se c’è una finestra... che cosa ‘è’ questa

finestra? Heidegger, farà un’obiezione simile a Cartesio: non posso partire dal pensiero

per arrivare all’essere: la domanda fondamentale è quella ontologica: che cosa fa sì

che questa sia una finestra? È necessario, dirà Heidegger, ribaltare l’espressione carte-

siana cogito ergo sum, in: sum ergo cogito (sono, dunque penso). La vera domanda,

quindi, è: chi ‘sono’ io che cogito?

Da qui parte il secondo esercizio, la seconda serie di

osservazioni di Palomar.

“Di là c’è il mondo: e di qua? Sempre il mondo: cos’altro volete che ci sia? Con un piccolo sforzo di concentrazione Palomar riesce a spostare il mondo da lì davanti e a sistemarlo affacciato al davan- zale. Allora, fuori dalla finestra, cosa rimane? Il mondo anche lì, che per l’occasione s’è sdoppiato in mondo che guarda e mondo che è guardato. E lui, detto anche ‘io’, cioè il signor Palomar? Non è anche lui un pezzo di mondo che sta guardando un altro pezzo di mondo?”

Il secondo esercizio, possiamo dire, è l’esercizio

della contestazione della modernità, è l’esperienza dei

maestri del sospetto, Nietzsche in primis. Anche ‘io’ so-

no mondo. Quindi non c’è un soggetto che guarda in

C. Monet, 1875

maniera ‘neutra’ un oggetto, ma l’io

stesso è questo ‘neutro’. La finestra

è il mondo. Cade la differenza tra

soggetto e oggetto. Tutto è sguardo.

Tutto è ‘nietzscheanamente’ prospet-

tiva: mondo che guarda se stesso.

L’io, chi è? Solo un pezzo di mondo.

Con la differenza soggetto/oggetto,

cade anche la differenza antropolo-

gica. Se tutto guarda tutto, nessuno

guarda nessuno. Io sono nessuno e

centomila. Argo dai mille occhi.

“Oppure, dato che c’è mondo di qua e mon- do di là della finestra, forse l’io non è altro che la finestra attraverso la quale il mondo guarda il mondo. Per guardare se stesso il mondo ha bisogno degli occhi (e degli oc- chiali) del signor Palomar. Dunque non ba- sta che Palomar guardi le cose dal di fuori e non dal di dentro: d’ora in avanti le guar- derà con uno sguardo che viene dal di fuori, non da dentro di lui. Cerca di far subito l’e- sperimento: ora non è lui a guardare, ma è il mondo di fuori che guarda fuori”.

Terzo esercizio: per assumere

‘realmente’ la posizione del mondo, la

‘neutralità’dell’essere, allora anche lo

sguardo umano deve diventare ‘mon-

dano’, ‘neutro’. Solo così il mondo po-

trà guardare il mondo per mezzo del-

l’uomo. Con uno sguardo non più an-

tropocentrico, ma rizomatico.

È l’esercizio di M. Blanchot, da

un lato; di G. Deleuze e F. Guattari,

dall’altro.

Tutto qui è solo esteriorità: un

fuori che guarda un fuori (e non un

dentro che guarda un dentro).

Scrive M. Blanchot a proposito dell’esperienza del ‘neu-

tro’(“l’ignoto nella sua infinita distanza”): “Uno dei tratti caratteristici di questa esperienza consiste nel non poter essere assunta come soggetto in prima persona da colui che la subisce, e nel suo compiersi solo introducendo nel campo della sua realizzazione l’impossibilità del compi- mento. Una simile esperienza sfugge ad ogni possibilità dialettica e nello stesso tempo rifiuta qualsiasi evidenza e comprensione immediata, ignora ogni partecipazione mistica. In essa pertanto è non già superato ma lasciato da parte il contrasto tra mediato e immediato, tra soggetto e oggetto, tra conoscenza intuitiva e conoscenza discor- siva” [L’infinito intrattenimento, pp. 102; 10]. È noto co- me per Blanchot la letteratura ha la possibilità di questa ‘neutralizzazione’: “l’atto letterario che non è né di affer- mazione né di negazione (...) libera il senso come fanta- sma, ossessione, simulacro di senso” [ivi, p. 406]. “Un rizomanon comincia e non finisce, è sempre nel mezzo, tra le cose, inter-essere, intermezzo. L’albero è fi- liazione, ma il rizoma è alleanza (...). L’albero impone il verbo ‘essere’, ma il rizoma ha per tessuto la congiunzio- ne ‘e...e...e’. (...) Dove andate? Da dove partite? Dove vo- lete arrivare? Sono domande davvero inutili. (...) Muo- versi tra le cose, instaurare una logica dell’E, rovesciare l’ontologia, destituire il fondamento, annullare l’inizio e la fine. (...) Tra le cose non designa una relazione localiz- zabile che va da una cosa all’altra e viceversa, ma una di- rezione perpendicolare, un movimento trasversale che le trascina, l’una e l’altra, ruscello senza inizio né fine che erode le due rive e prende velocità nel mezzo” [G. De- leuze - F. Guattari, Mille piani, pp. 69-70].

È la morte della soggettività, dell’individualità, della

personalità.

Nell’esperienza di Palomar, questo ‘naufragio’ nel

tutto, pare la soluzione: dolce in questo mare...

“Stabilito questo, egli gira lo sguardo intorno in attesa di una trasfi- gurazione generale. Macché. È il solito grigiore quotidiano che lo circonda. Bisogna ristudiare tutto da capo.

Che sia il fuori a guardare fuori non basta: è dalla cosa guardata che deve partire la traiettoria che la collega alla cosa che guarda.

Dalla muta distesa delle cose deve partire un segno, un richiamo, un ammicco: una cosa si stacca dalle altre con l’intenzione di significare qualcosa... che cosa? se stessa, una cosa è contenta d’essere guardata dalle altre cose solo quando è convinta di significare se stessa e nient’altro, in mezzo alle cose che significano se stesse e nient’altro”.

Quarto passaggio: anche la scelta della neutralità,

dell’annientamento della

soggettività resta atto del-

l’io: che si illude, in questa

maniera, di ottenere qual-

cosa; per lo meno un rien-

tro, una ‘trasfigurazione’,

un mutamento della sua

posizione rispetto al mon-

do. Invece resta il grigiore.

Resta il quotidiano. Resta

il peso del Sé. Allora?

Allora, appunto, ecco il

passaggio al finale: che ci

sembra accostabile, per cer-

ti versi, all’esperienza hei-

deggeriana: tra identità e

differenza: mantenere l’u-

nità tra il soggetto e l’og-

getto (che sono entrambi

‘del’ mondo), ma insieme

mantenere la differenza: tra

lo sguardo (umano) e ciò

che è guardato (dall’uomo).

M. Heidegger, Identità e differenza,pp. 12-13: “Lo Zusammen-gehören (il coappartenersi) di uomo ed essere, nel modo della loro vicende- vole provocazione, ci rende noto che e come l’uomo sia traspropriato [vereignet] all’essere, mentre l’essere sia appropriato [zugeeignet] all’essenza umana. (...) Si tratta di cogliere genuinamente questo fa- re-proprio [Eignen] in cui uomo ed essere sono fatti proprii [ge-eignet] l’uno dell’altro, di tornare cioè a quello che noi chiamiamo Ereignis, l’evento. La parola Ereignis proviene dal tardo sviluppo della lingua. Il verbo er-eignen significa originariamente: adocchiare [er-äugen], ossia gettare lo sguardo [er-blicken], guardando chiamare a sé, fare proprio [an-eignen]. La parola Ereignis deve ora, a partire da quanto la cosa indica, parlare come parola-guida al servizio del pensiero. (...) La parola Ereignis non indica piú qui quello che noi chiamiamo altrimenti un accadimento, un avvenimento. Essa è usata qui come

singolare tantum. Ciò che essa nomina si fa evento [ereignet sich]

soltanto come qualcosa di unico, anzi come qualcosa che non con- cerne piú il numero, come qualcosa di singolare. (...) L’Er-eignis è l’ambito – ambito dotato di oscillazioni sue proprie – attraverso il quale uomo ed essere si raggiungono a vicenda nella loro essenza, ottengono ciò che per loro è essenziale e perdono, intanto, quelle de- terminazioni che la metafisica ha loro conferito (...)”.

Id., La svolta, pp. 25-33: “Pareva finora che ‘sguardo dentro ciò che è’ (Ein-blick) significasse soltanto uno sguardo che noi uomini get- tiamo in ciò che è. (...) Ora però tutto si è capovolto. ‘Sguardo dentro a’ non designa il nostro sguardo dentro l’ente, ma, come folgore, è l’Ereignis, (...) il lampo (Bliz) della verità dell’essere. (...) Ma questo

Einblick avviene (ereignet sich)? Corrispondiamo allo sguardo den- tro ciò che è, con uno sguardo che riesca (...) a riguardare l’essere?”

Si tratta di un semplice ritorno all’inizio?

No: perché dopo tutto il viaggio ‘nello’ sguar-

do, ora Palomar comprende che la prospettiva

va ribaltata: non va dall’io al mondo, ma dal

mondo all’io.

Quasi come un’icona, il sacro, l’Essere in-

veste lo sguardo e lo chiama. La traiettoria non

va dal sé alle cose, ma dalle cose al sé.

Questo è un ‘vero’ segno: non i segni inven-

tati dall’uomo, con cui il soggetto segna le co-

se; ma i Segni, i Richiami, gli Ammiccamenti,

gli Sguardi delle cose che chiamano l’uomo.

Questo è un ‘vero’ intenzionare: non husser-

lianamente dal soggetto all’oggetto, ma dalla

cosa alla cosa. Ogni cosa essendo ciò che è; e

solo e proprio ciò che è. Da qui la sua bellezza.

Il suo essere. Il suo apparire allo sguardo. E quindi anche la possibilità di apparire allo

sguardo dell’uomo. E toccarlo. Coinvolgerlo.

“Le occasioni di questo genere non sono certo frequenti, ma prima o poi dovranno pur presentarsi: basta aspettare che si verifichi una di quelle fortunate coincidenze in cui il mondo vuole guardare ed essere guardato nel medesimo istante e il signor Palomar si trovi a passare lì in mezzo. Ossia, il signor Palomar non deve nemmeno aspettare, perché queste cose accadono soltanto quando meno ci si aspetta”.

L’ultimo esercizio, allora, è l’attesa. Perché

l’incontro tra lo sguardo delle cose/mondo e lo

sguardo della cosa/uomo è un attimo, un Au-

genblick, un battito di ciglia, raro come lo

schiudersi di uno stupore improvviso.

E la vita si offre così: come il possibile do-

no di attimi di senso, in cui si dà (unico e per-

ciò prezioso) l’incontro tra il darsi del senso

del mondo e il darsi del senso dell’uomo. Atte-

so. Da attendere. Nell’impossibilità dell’attesa

stessa: perché un incontro di sguardi si dà – nel

suo stupore – solo quando non lo si aspetta:

imprevisto e imprevedibile...

H. Matisse, Finestra a Collioure, 1905

“Erudito: (...) Non appena ci rappresentiamo o ci facciamo un’idea di qualcosa, già non siamo più in attesa. Maestro: Nell’attesa lasciamo aperto ciò di cui siamo in attesa. E: Per qual motivo? M: Perché l’attesa si

lascia ricondurre all’Aperto stesso (...). E: È l’Anchibasìe. Scienziato - Che cosa significa? E. - Si traduce il termine greco con il tedesco Herangehen (approcciare). S. - Mi sembra che questa parola sia un termine eccellente per indicare l’essenza del conoscere: infatti quel muoversi alla volta degli oggetti, quell’avvici- narsi ad essi che caratterizza il conoscere giungono qui ad espressione in maniera convincente. (...) M. - Ma è proprio deciso che Anchibasìe significhi approcciare? E. - Tradotto letteralmente vuol dire: appros- simarsi (Nahegehen). M. - Forse potremmo dire anche pensare: andare-nella-prossimità (In-die-Nahe-

Gehen). S. - Lei pensa questo alla lettera, nel senso di ‘lasciarsi ricondurre nella prossimità’? M. - All’in-

circa. E. - Anchibasìe: andare-nella-prossimità. Ora mi sembra che questo potrebbe essere il nome che me- glio si adatta al nostro cammino di oggi, lungo un sentiero tra i campi. M. - Che ci ha guidati nella notte profonda... S. - che sempre più magnifica espande in alto il proprio splendore... E. - e fa traboccare la sua meraviglia sopra le stelle... M. - e in cielo approssima le loro lontananze l’una all’altra... S. - agli occhi del- l’osservatore ingenuo non meno che a quelli dello scienziato esperto. M. - Per il bambino che è racchiuso nell’uomo la notte resta sempre Colei che approssima e cuce le stelle. E. - Colei che le tiene insieme senza fare vere cuciture, senza mettere orli e usare fili. S. - Diciamo colei che approssima, perché essa lavora soltanto con la prossimità. E. - Ammesso che lavori e non piuttosto riposi... M. - Riempiendo di meraviglia le profondità dell’immenso. E. - La meraviglia potrebbe allora dischiuderci ciò che è chiuso? S. - Solo se restiamo in attesa... M. - e se l’attesa ci è affidata nell’abbandono (gelassen)... E. - e se l’essenza dell’uomo rimane appropriata in quel Luogo... M. - da cui siamo chiamati” [M. Heidegger, Per indicare il luogo del-

l’abbandono, pp.76-77, legg. mod.].

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