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a) René Magritte e La condition humaine

1) Homo: terrestre per condizione e prospettiva

1.3. a) René Magritte e La condition humaine

Prima di abbandonare il termine ‘homo’, vogliamo rivolgerci ad un artista e ad uno

scrittore; e chiedere loro in che cosa consista la ‘condizione umana’.

L’artista è René Magritte. In questo noto quadro, che porta lo stesso titolo del libro

della Arendt (La condition humaine, 1933, olio su tela, cm 100 x 81, National Gallery

of Art, Washington), viene rappresentata in maniera efficace e paradossale la terrestrità

dell’uomo: nelle sue possibilità e nei suoi

limiti.

Facciamo un esercizio ‘fenomenolo-

gico’: che cosa vediamo? Innanzitutto ve-

diamo una finestra, che si apre su una pa-

rete. Le tende sono tirate e ci consentono

di guardare, oltre il vetro, un paesaggio

campestre: terra, erba, cespugli, colline,

un albero; e nuvole e cielo. Da subito,

però, tre gambe di legno attirano il nostro

sguardo. Con un po’ attenzione notiamo

una linea verticale, bianca, sulla finestra;

e comprendiamo che è il bordo di una te-

la. Le tre gambe sono quelle di un caval-

letto. Dunque, davanti alla finestra, c’è

un quadro, tant’è che anche la tenda di si-

nistra è un po’ coperta dal disegno della

tela. Non è certo una novità per la pittura,

che da sempre ha rappresentato se stessa e ha mescolato – grazie anche alle costruzioni

architettoniche – realtà e finzione (false finestre nelle pareti; falsi scenari negli interni;

grotte nelle grotte; giochi di illusionismo; immagini nelle immagini).

Ma quello che colpisce nel quadro di Magritte è il voluto ‘realismo’ illusionista:

appunto ‘surrealismo’. E, soprattutto, per il filo che stiamo seguendo, quello che ci

colpisce è il titolo della tela. Perché ‘condizione umana’? L’immagine risponde ad una

domanda. Alla nostra stessa domanda: chi siamo? Che cosa significa essere uomini?

In Le linee della vita, testo scritto da Magritte per una conferenza da lui tenuta il

20 novembre 1938, ad Anversa (ora presente nella raccolta Scritti, vol. I, p. 102), leg-

giamo:

“La vecchia domanda ‘chi siamo?’ trova una risposta deludente nel mondo in cui dobbiamo vivere. Noi non siamo in realtà altro che i soggetti di questo mondo che ha la presunzione di essere civile, in cui l’intelligenza, la viltà, l’eroismo, la stupidità, adattandosi benissimo reciprocamente sono a turno d’at- tualità. Noi siamo i soggetti di questo mondo incoerente e assurdo in cui si producono armi per impedire la guerra, in cui la scienza si applica a distruggere, a costruire, a uccidere, a prolungare la vita dei mo- ribondi, in cui l’attività più folle agisce a rovescio; viviamo in un mondo in cui ci si sposa per denaro, in cui si costruiscono palazzi che marciscono abbandonati dinanzi al mare”.

Il surrealismo di

Magritte, si pone quindi

come volutamente in/at-

tuale, ir/ reale, come

“urlo” silenzioso, segno

di opposizione e prote-

sta: perché l’assurdo

non è nelle tele, ma nel-

lo sguardo di chi si limi-

ta a corrispondere al da-

to, senza metterlo in di-

scussione, senza provo-

carlo, senza tentare di

modificarlo: soprattutto

là dove si pone eviden-

temente contro la vita:

l’uomo contro l’uomo.

Poeta e pensatore

per immagini, Magritte

non si definisce pittore

(nella misura in cui si

chiama ‘pittore’ chi si

muove su canoni pura-

mente estetici), ma indagatore. Il suo bisogno, come ebbe più volte modo di dire, è quello

di “mettere in questione il mistero”. Un bisogno che nasce da un profondo “stupore di

essere”, un profondo thaumazein nei confronti della vita, prima e più che nei confronti

dell’arte.

In questo senso ogni suo quadro è non tanto un prodotto artistico, ma l’apertura di

una domanda. E una soglia “sul vuoto”, sul mistero della realtà. Arte/poesia.

Leggiamo sempre in Le linee della vita [p. 110]:

In “La révolution surréaliste”, n. 12, 15-12-1929, pp. 32-33 [ora in Scrit-

ti, vol. 1, pp. 18-19], Magritte pubblica questo ‘testo’ dal titolo: Le pa- role e le immagini, e ‘mostra’ chiaramente la sua teoria, basata sulla possibilità di separare (e non solo unire) oggetti – rappresentazioni - linguaggio verbale e linguaggio visivo.

“Quanto al mistero, all’enigma rappresentato dai miei quadri, dirò che era questa la prova più con- vincente della mia rottura con l’insieme delle assurde abitudini mentali che generalmente sostitui- scono il sentimento autentico dell’esistenza. Anche i quadri che dipinsi negli anni dal 1925 al 1936 [a cui appartiene anche La condizione umana n.d.A.], furono il risultato della ricerca sistematica di un effetto poetico sconvolgente, che, ottenuto mettendo in scena oggetti tratti dalla realtà, desse al mondo reale da cui tali oggetti erano presi un senso poetico nuovo, in virtù di uno scambio del tutto naturale”

In questo contesto si pone La

condizione umana, rappresentata

nuovamente nel 1935, in una vi-

sione ‘marina’ invece che ‘terre-

stre’, ma con un’analoga posizio-

ne di domanda: evidentemente

una domanda sul rapporto tra con-

tinuità e distanza, somiglianza e

differenza, realtà e rappresenta-

zione, visione e verità, svelamen-

to e nascondimento.

“Il problema della finestra diede origine a ‘La condizione umana’. Collocai davanti a una finestre vista dall’interno di una ca- mera un quadro che rappresentava esatta- mente la parte di paesaggio ricoperta dal quadro. L’albero dipinto sul quadro na- scondeva dunque esattamente l’albero si- tuato dietro di esso, fuori dalla camera. Per lo spettatore l’albero si trovava a un tempo all’interno della camera sul quadro e fuori nel paesaggio reale. Quest’esisten- za a un tempo in due spazi diversi è simi- le all’esistenza, a un tempo, nel passato e nel presente, di un momento identico (...)” [Le linee della vita, p. 111]

E, di nuovo, in un saggio di poco successivo, in cui torna sullo stesso argomento

quasi con le stesse parole, Magritte aggiunge, dopo aver ripetuto che l’albero della

prima versione di La condizione umana è nel quadro e fuori (nel pensiero e nel pae-

saggio reale):

“è così che noi vediamo il mondo. Lo vediamo all’esterno di noi stessi e nondimeno ne abbiamo solo una rappresentazione in noi. Allo stesso modo, noi situiamo talvolta nel passato una cosa che avviene nel presente. Il tempo e lo spazio perdono allora quel senso grossolano di cui l’esperienza quotidiana è la sola a tenere conto” [p. 147].

Dunque: La condizione umana si interroga su

come noi vediamo il mondo. Alla domanda ‘chi

siamo?’ Magritte risponde con l’enigma di una fi-

nestra che si illude di vedere il mondo ‘esterno’,

ma in realtà possiede solo un’immagine di quel

mondo. Siamo sicuri che dietro l’albero dipinto

sul quadro, fuori, ci sia ‘veramente’ un albero? Il

pittore l’ha visto ‘realmente’ e l’ha dipinto, o è

solo frutto della sua fantasia? E, anche se l’avesse

visto, se l’avesse percepito, questa visione/perce-

zione corrisponderebbe perciò ad un’oggettività

esterna? Non è forse vero, come insegnava già

Kant (evidentemente sotteso a questa rappresen-

tazione magrittiana), che delle cose noi

possediamo solo i fenomeni (l’albero dipinto sul

quadro; ciò che ci appare) e mai i noumeni

(l’albero fuori dalla finestra), quell’in sé che solo

un Nous divino potrebbe cogliere per come è?

Ma noi non siamo, non abbiamo questo

Nous: siamo terrestri, mortali, chiusi nella no-

stra stanza, nel nostro spazio/tempo: e del

mondo possiamo cogliere solo ciò che noi

stessi vediamo.

La condizione umana, allora, è la nostra

‘prospettiva’ umana. La nostra ‘finestra’ umana.

L’idea non è ‘inventata’ da Magritte, ma

affonda le sue radici per lo meno – se non vo-

gliamo tornare al mito platonico della caverna

– nelle intuizioni di Leon Battista Alberti e

nell’intreccio teorico e pratico da lui creato tra

‘prospettiva’ e ‘finestra’, appunto.

Nel Libro primo del De Pictura

(1435) di

Alberti, § 19, leggiamo: “dove io debbo dipin-

gere, scrivo uno quadrangolo di retti angoli

quanto grande io voglio, il quale reputo essere

una finestra aperta per donde io miri quello

che quivi sarà dipinto”.

Leon Battista Alberti, De Pictura, manoscritto del 1518

È evidentemente l’ideale umanistico che con- sente all’Alberti un’intuizione di questo tipo (sebbene egli non usi ancora il termine ‘pro- spettiva’): la visione dell’uomo si fa ‘centro’ del mondo e ‘canone’ della pittura.

Come è noto, nel De pictura, l’immagine di- venta “intersegatione” della piramide visiva (dall’oggetto all’occhio e viceversa). Tecnicamente questo diventa possibile grazie alla costruzione di un’intelaiatura (una fine- stra visiva, appunto), che raccoglie e fa con- vergere le linee del dipinto e il suo piano ver- so un unico punto di fuga.

M. Foucault, in Questo non è una pipa, fa no- tare come Magritte mescoli “perfidamente il quadro con ciò che deve rappresentare”. E in questo modo sostituisce alla relazione d’iden- tità (tra copia e originale) una relazione di con- tinuità: alla logica dell’identità o della somi- glianza si sostituisce la logica della similitu- dine, alla logica della gerarchia (originale/pa- drone; rappresentazione/servo/copia) si sosti- tuisce la logica della differenza (serie/ripeti- zione/circolazione dell’immagine).

Vediamo qui un’incisione di Albrecht

Dürer, che ci dà un’idea chiara di queste “fi-

nestre di riproduzione” e dello sviluppo del-

l’intuizione dell’Alberti. Il pittore (seduto a

destra, vicino ad una finestra) riproduce la

modella (sdraiata a sinistra, vicino ad un’altra finestra), guardandola attraverso una gri-

glia, che è la finestradello sguardo pittorico. La griglia (e il suo schematismo trascen-

dentale) viene riprodotta dalle mani del-

l’artista, in tutti i suoi quadrati. Precisi stru-

menti di misurazione – posti tra l’occhio e

la realtà da rappresentare – consentono di

cogliere quest’ultima nella sua perfezione

e nella sua profondità: quasi ‘pixel’ ante-

litteram, come è stato fatto notare, che qua-

si anticipano il gioco contemporaneo della

fotografia e del mondo digitale.

Nell’incisione di Dürer, la pro rom pente

sensualità della donna/modella sembra

ancora sfidare i margini della ragione, ecce-

dendoli. A breve, Galileo Galilei potrà dire

che “il gran libro della natura” è scritto “in

cerchi e quadrati”. E la prospettiva rinasci-

mentale diventerà l’oggettività moderna, l’il-

lusione mo der na. E così non avremo più solo uno sguar do umano che prospettivizza il

mon do, ma un sog/getto che rappresenta un og/getto e pone il mondo di fronte a sé. Gioco

linguistico, consentito dal termine ‘prospettiva’, nelle sue due varianti:

L’arte della misura o Institutiones geometricae (1525) [Underweysung der Messung, mit dem

Zirckel und Richtscheyt: in Linien Ebnen vo gant- zen Corporen] di Albrecht Dürerriprende e sviluppa l’idea di Alberti, corredandola con delle incisioni.

Il tema del rapporto prospettiva/finestra/sguardo, tra filosofia e arte meriterebbe certo ben altro spa- zio. Ulteriori indicazioni si possono trovare nella bibliografia relativa a questo cap., in ogni caso ci piace richiamare qui alcuni lavori a cui siamo par- ticolarmente debitori. In maniera più specifica su Alberti, A. Nicolosi, La finestra svelata. Leon Bat- tista Alberti e l'anima delle immagini, 2011. Per

uno squarcio che arriva alla contemporaneità di- gitale, M. Carbone, Da Alberti a microsoft: sem-

pre alla finestra?, 2011. Per un approfondimento

su questa metafora, anche in relazione al teatro e al cinema, a A.M. Iacono, L’illusione e il sostituto, 2010; in relazione alla fisiologia e alla psicologia visiva, M. Piccolino e N.J. Wade, Insegne ambi-

gue. Percorsi obliqui tra storia, scienza e arte da Galileo a Magritte, 2007, pp. 14 sgg. in relazione

alle neuroscienze pp. 275 sgg. AA. VV., a cura di M. Cappuccio, Neurofenomenologia, pp. 275 sgg.

– Prospettiva come per-spectiva (radice che risuo-

na ancora nel termine così come è ‘detto’ in tedesco,

in francese ed in inglese): guardare attraverso. E qui la

finestra è ciò attraverso cui si guarda;

– Pro-spettiva (radice che risuona nell’italiano) co-

me guardare davanti, vedere di fronte. E qui la finestra

siamo noi ed è la finestra che guarda, cioè si apre.

Nella modernità il soggetto/finestra si pone di con-

tro all’oggetto/realtà. È l’imprigionamento del ‘cogito’

in se stesso; il corpo sottomesso allo sguardo/pensiero.

Un’esistenza che non può comunicare con l’esterno,

né con gli altri [l’immagine di Murillo, Donne presso

una finestra con grata,

può esserne simbolo, al di là

dell’intenzio-

ne del pittore]:

non tanto per-

ché questa

monade non

ha porte né fi-

nestre, quanto

piuttosto per-

ché non ha più

un esterno e

non ha più altri soggetti con cui comunicare. Le ante

non si aprono più sul fuori, ma sul dentro.

Torneremo su questo, nel capitolo dedicato al sog-

getto. Ma, sulla scia delle immagini (solo alcune tra le

tante che la storia dell’arte potrebbe offrirci, in relazio-

ne alla ‘finestra’ della condizione umana), è facile in-

tuire come gradualmente (inevitabilmente) anche que-

sto ‘dentro’ perda le sue griglie di riferimento, la sua

compattezza, la sua rocciosa certezza. Notiamo come

non solo l’esterno ma anche lo sguardo ‘interno’ del-

l’uomo su se stesso si sfalda: sfumando nelle impres-

sioni dei sentimenti (Manet); mescolando le linee di

contorno e di fuga (Cezanne).

Il problema della rappresentazione come problema

B.E. Murillo,

Donne presso una finestra con grata, 1645

É. Manet, Il balcone, 1868-69

P. Cézanne, Autoritratto, 1879-’82

Come non ricordare il ‘gioco’ creato da Ma- gritte, sull’originale (!?!) di Manet? Stiamo parlando di

‘Prospettiva. Il balcone di Manet’ (1950), og-

getto, tra l’altro, di di- scussione anche nell’e- pistolario Magritte / Foucault.

del rapporto soggetto/oggetto. Forse mai ultimamente divisibili. Perché forse non co-

nosciamo solo pro-spetticamente. Perché forse il mondo non è solo un ‘objectum’ che

ci sta di fronte. Ma è ciò ‘in’ cui siamo.

Ed eccoci di nuovo a Magritte. Lo sguardo come ‘falso specchio’. Falso perché

non ‘specchio’ fedele della realtà. Falso come specchio, ma non falso del tutto. Perché,

anzi, questo sguardo (che noi ‘siamo’) è il nostro ‘tutto’. E, allora, è ‘vero’. È vero lo

sguardo, così come è ‘reale’ il mondo. Non nel senso di un rispecchiamento; non nel

senso di una copia/riproduzione. Ma nel senso della fragilità della nostra visione. Per-

ché effettivamente è l’azzurro del cielo con le nuvole che il nostro occhio vede quando

solleva lo sguardo. Eppure quello che vediamo non è un cielo fedele all’originale; per-

ché non abbiamo un Originale in nostro possesso, ma abbiamo solo un mistero che ci

possiede: il mistero della nostra finitezza, e della fini-

tezza della nostra rappresentazione.

E, allora, sì, certo ‘questo non è un cielo visto da

un occhio’, così come quella rappresentata sul quadro

forse più noto di Magritte ‘non è una pipa’. Perché è

una rappresentazione della pipa; è una rappresentazio-

ne del cielo. È la rappresentazione della nostra condi-

zione umana: che paradossalmente cerca di rappre-

sentare se stessa... nelle sue possibilità, ma si ritrova

rappresentata, invece, soprattutto nei suoi limiti.

Come direbbe Nietzsche: i limiti che ‘siamo’. Per-

ché non possiamo nemmeno immaginare che cosa sa-

rebbe il mondo senza di noi. Così come non possiamo

immaginare che cosa penseremmo se non avessimola

nostra testa, umano troppo umana.

Possiamo, allora, dire ancora che la ‘condizione

umana’ è quella di essere una finestra? O, così come

siamo un falso specchio, siamo anche una falsa fine-

R. Magritte,

Il falso specchio,

1928

R. Magritte,

Questa non è una pipa,

1948

V. van Gogh, I tessitori, 1883-84

F. Nietzsche, Umano troppo umano

1, in Opere, vol. IV, t. 2, af. 9: “noi

vediamo tutte le cose con la testa dell’uomo, né questa possiamo ta- gliarla”

stra? In realtà non siamo una finestra,

se con questo termine intendiamo la

possibilità di essere realmente traspa-

renti. Siamo terrestri, sporchi di terra.

Opachi. Non translucidi.

Anche l’ultimo sognatore del tra-

scendentale, Edmund Husserl, dovrà

arrendersi all’evidenza della nostra

inadeguatezza. Le sue Ricerche logi-

che (1900-1901) avevano ancora

tentato di mostrare che, sebbene non

possiamo rappresentare ‘evidente-

mente’ il mondo (perché ci si dà

sempre e solo per ombre e scorci

prospettici), possiamo per lo meno

avere una “percezione interna ade-

guata di noi stessi”. Ma al termine

del suo percorso anche Husserl, co-

me ha mostrato J. Derrida, in qual-

che maniera, dovrà accettare che non esiste un Io assolutamente puro. Siamo una con-

dizione impura.

Affacciandoci in noi stessi, ci hanno insegnato i maestri del sospetto, anche in noi

stessi troviamo solo adombramenti e scorci prospettici.

Non siamo una vetrina illuminata; non abbiamo la chiaveper entrare nel nostro ap-

partamento.

Ce lo mostra un altro famoso quadro di Magritte, intitolato appunto: La chiave dei

campi.

Il soggetto sembra essere co-

munque ‘la condizione umana’. Ma

la prospettiva, è il caso di dire, è ro-

vesciata.

Sempre una finestra, sempre le

tende aperte, sempre uno scenario di

prato, terra, alberi, cielo.

Ma qui con dolore avvertiamo

che l’incanto è rotto. Der Traum ist

ausgetraumt, per dirla ancora con

“L’intenzione (Intention) (...) per lo più, ed ad esempio in tutti i casi della percezione ‘esterna’ (...) non va al di là della pretensione (Präetension). <Perché> l’oggetto non è effettivamente dato, cioè non è dato nella sua to- talità ed interezza. Esso appare soltanto (...) secondo adombramenti e scorci prospettici (perspektivisch

verkürzt und abgeschattet)” [Ricerche Logiche, vol. 2,

p. 355].

Sul tema del coglimento dell’oggetto/coscienza in Hus- serl, nella sua illusoria trasparenza, è imprescindibile il riferimento a J. Derrida, La voce ed il fenomeno.

F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, in Opere, vol. III, t. 2, pp. 356-57: “Che cosa sa propria- mente l’uomo di sé? Davvero sarebbe capace, anche solo una volta, di avere di sé una percezione completa, come se si trovasse in una vetrina illuminata? Non gli tace la natura quasi tutto, anche riguardo al suo stesso corpo, per confinarlo e imprigionarlo in una orgogliosa e illu- soria coscienza, lontano dal viluppo delle interiora, dal rapido flusso del sangue, dai nascosti brividi delle fibre? Essa ha gettato via la chiave: e guai all’infausta curiosità di guardare dalla camera della coscienza attraverso una fessura all’esterno e nel basso (...)”.

Husserl [“il sogno ha finito di essere sognato”:

La crisi delle scienze europee, p. 535].

Il quadro (che ne La condizione umana, posto

davanti alla finestra, ci dava ancora l’illusione di

poter essere copia/rappresentazione, fedele al

reale) ne La chiave dei campi torna ad essere solo

ciò che è: vetro; fragile e infranto. Sui frammenti

restano i segni dell’immagine. Ma i pezzi sono

dentro. Come ferite, schegge nella carne. Ma chi

ha rotto l’incantesimo, chi ha infranto l’unità, chi

ha buttato via la chiave dei campi, il segreto

dell’interpretazione del reale, della comprensione

del mondo e di noi stessi? Interessante notare che

i frammenti del vetro/quadro sono all’interno.

Non è quindi il soggetto-prigioniero che ha rotto

il vetro (magari per uscire). Il vetro si è rotto.

Dall’esterno. Il disincantamento è accaduto. Il

passivo/impersonale è d’obbligo. Il quadro non

ci dice come, quando e perché. La decostruzione

si è data. È il post-moderno; con i suoi frammen-

ti. Dissoluzione dell’unità.

Perdita del ‘Tutto’? Per Magritte, come anti-

cipato, non è ‘solo’ così. Forse perché, per lui,

quella umana resta una ‘condizione’; e quello

del mondo resta un ‘mistero’: che resiste alle ri-

sposte precostituite, ma che non rifiuta, allo

sguardo interrogante, la possibilità di risposte

impreviste.

Anche questo è Magritte; anche questo fa par-

te della condizione umana: porte e finestre che si

schiudono nel nero della notte del nichilismo. Che

si ‘possono’ schiudere: dall’interno stesso del

buio: squarci più che serrature. Fessure.

Sonagli che si aprono, nel cuore della terra o

del cielo: noduli di carne, noduli del mondo, dal

collo del cavallo al collo dell’abisso: l’abisso del

possibile. Noi.

R. Magritte, La chiave dei campi

Mi piace concludere il per-

corso con Magritte con un enne-

simo quadro/finestra, dal titolo: Il

telescopio.

Come in La chiave dei cam-

pi, il vetro è dipinto. Ma qui non

è infranto. Forse perché ha sapu-

to cogliere e accogliere la sfida

dell’Oltre: lasciarsi aprire sul ne-

ro del mistero, senza sfidarlo,

senza rifiutarlo, senza imprigio-

narlo.

Anche questa è condizione

umana. Pre-condizione per esse-

re umani: “lasciar essere”, di-