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Il bambino e lo squalo

Essendo questa una leggenda molto antica, gli anziani della tribù non ricordano bene come si chiamasse quel bambino, e in che modo fosse nato dall'Uomo Roccia e dalla Donna Bambù è un fatto che noi posteri non siamo più in grado di spiegare. Se la sua storia è tanto conosciuta, tuttavia, non è solo per quel faccino simpatico, dagli occhi tondi e le sopracciglia spesse. La ragione principale è che strinse amicizia con uno squalo, la qual cosa, nella società Tao di quel tempo, implicava che il bambino fosse l'incarnazione di un'anima ibrida: metà uomo, metà spirito.

La storia comincia così. Nel villaggio di Jimasik vi era una coppia che, pur sposata da otto anni, non aveva ancora avuto figli. Nel paese se ne parlava come di un marito e di una moglie esemplari, poiché, oltre ad andare in montagna tutti i giorni, nel tempo libero non mancavano di ricevere gli ospiti con il sorriso, e non si davano mai al pettegolezzo. Cosicché, grandi e piccoli, uomini e donne, anziani e bambini, e insomma tutti al villaggio amavano recarsi nel loro patio (nawouod, spazio simile a quello che in cinese viene chiamato yuanzi, “cortile”) a raccontare storie.

Un giorno i due, marito e moglie, salirono in montagna a raccogliere taro. Zappata dopo zappata, era ormai quasi mezzogiorno, quando improvvisamente la moglie s'imbatté in una radice dalla forma insolita, così, chiamando col cuore in gola il nome del marito, disse: “Vieni, presto! Vieni a vedere! C'è un taro stranissimo! Mi domando se sia di buono o cattivo auspicio...” L'uomo, usando ambo mani e piedi, s'inerpicò verso il punto in cui si trovava la moglie, e raggiuntolo, ammise di non aver mai visto un taro più strano. Allora disse alla donna: “Moglie mia, ho come avuto una sensazione improvvisa. Credo che sia un buon auspicio, e che debba essere estratto, portato a casa ed esposto come ornamento nel paspaton della stanza principale (il paspaton è un vassoio di legno dalla forma allungata, su cui vengono riposte tazze di ceramica e piatti).” Ponendo poi la strana radice in mezzo ai palmi delle mani e volgendo lo sguardo all'azzurro intenso dell'oceano, il marito pregò così: “Se davvero hai un'anima, spirito dell'oceano, ti prego di donarci un figlio, e io ti consacrerò la sua anima.”

Un mese più tardi, la moglie disse al marito: “Pare ch'io sia incinta.” L'uomo allora fece un'espressione stupita, ma non riuscì a mascherare la sua gioia. Così disse alla donna: “Non esserne tanto sorpresa, e non parlarne... Forse dovremo aspettare sei o sette mesi, prima di poter esser certi che avremo davvero un bambino.” La moglie sporse un poco il labbro e annuì a testa bassa in segno d'accordo.

Passati che furono sei, sette mesi, il pancino appena prominente ricevette la benedizione di tutto il villaggio; quanto al marito, prese a lavorare ancor più alacremente e a pescare con impegno, pensando alla moglie e al bebè che portava in grembo. Dopo dieci mesi di gravidanza giunse infine il grande momento. Due levatrici (della stessa età della suocera) entrarono festanti nella dimora, mentre gli uomini adulti e gli anziani di tutto il villaggio si accalcavano nel patio, le donne si affollavano nel makarang (la stanza per ricevere gli ospiti) e i bambini giocavano nel cortile. Trascorsero così due ore, quattro ore... Il marito aveva perso il conto di quante noci di betel avesse già masticato, e non aveva alcuna voglia di interagire coi presenti. Poi però, alla fine, alla fine… Uèeeee...!, l'urlo di un vagito interruppe ogni schiamazzo esterno e all'istante calò un manto di quiete. Per qualche tempo non si udirono che i dolci suoni dei bisbiglii, e i belati levati dalle greggi che si spostavano per ogni dove, finché una levatrice uscì annunciando: “È... è maschio!” “Evviva! Evviva! Congratulazioni! Avete un figlio che erediterà i vostri campi!” In quel momento Si Kowa cambiava la sua identità in Syaman Kekey17, e la sua eccitazione era tale, che andò dieci volte a fare

rifornimento d'acqua senza provare alcuna fatica.

Il terzo giorno dopo la nascita del neonato – a quel tempo la scelta del momento giusto era questione di grande importanza – si procedette all'assegnazione del nome. Quel giorno il padre del bambino uccise un porcellino da latte e, dopo aver cucinato radici di taro, taro selvatico, patate dolci e pesce secco di prima qualità, invitò a banchetto gli anziani del villaggio, i parenti e gli amici. La nascita del maschietto aveva portato gioia all'intero villaggio, tutti erano ubriachi d'euforia e nessuno si sarebbe mai perso l'occasione di vederlo coi propri occhi.

Trascorsero poi parecchi anni e il bambino aveva pressappoco l'età in cui poteva già andare con i coetanei a pescare nelle coste vicine (suppergiù dieci anni). Un giorno il marito e la moglie dissero al loro unico figlio: “Dobbiamo andare a raccogliere il taro in un luogo piuttosto lontano, perciò è probabile che torneremo più tardi del solito. Se ti viene fame, nella vanga (recipiente di terracotta) ci sono alcune patate già cotte. Puoi prenderle e mangiarle a mo' di mavaw (simile al termine cinese biandang, vale a dire “pranzo al sacco”). Se poi avrai ancora fame, puoi andare alla scogliera kawozi (“sul lato sinistro”) del villaggio e raccogliere qualche mollusco da mangiare crudo, va bene?” Subito il bambino rispose con sicurezza: “Non preoccupatevi per me, vi prego, so badare a me stesso.” Detto ciò, s'involò in un batter d'occhio, e precipitandosi come un matto per le scale di pietra e i vicoli irregolari del villaggio, se ne andò allegramente a cercare i suoi compagni di gioco.

17 (N.d.A.) Ossia “padre di Kekey”, poiché il figlio si chiama Kekey e, per via della relazione che esiste fra i nomi dei padri e i nomi dei figli, il nome di Si Kowa cambia in questo modo.

A mezzogiorno, quando il sole infuocato splendeva altissimo emanando un calore cocente, i bambini che giocavano sulla spiaggia tornarono alla spicciolata verso il villaggio e, chi nei patii, chi nell'ombra arborea del ruscello accanto all'abitato, prendevano il fresco e riposavano. A quel punto il bambino prese le sue patate e, camminando verso il lato sinistro del villaggio, raccolse sulla via qualche mollusco commestibile. Aveva ormai percorso una distanza di quasi nove barche, quando improvvisamente si accorse di aver raggiunto una caverna naturale. Dentro vi era spazio sufficiente a contenere circa sette o otto persone, e una spiaggetta pulita dove avrebbero potuto giocare quattro o cinque bambini – spiaggetta che per di più sboccava nell'oceano. Pensò che quel luogo fosse meraviglioso e anche piuttosto nascosto, poiché sopra la caverna si stendeva una fitta boscaglia di pandani, i cui frutti maturi erano costellati di enormi tatos (granchi del cocco). Il bambino rapito scrutò tutto attorno e si innamorò di quel luogo. Calandosi piano per la gradinata naturale dello scoglio, arrivò al lido sabbioso, dove non v'erano impronte, né tracce di precedenti passaggi, e il suo cuore ebbe un tuffo di gioia, fiero come sua madre nell'istante in cui lo mise al mondo. Quindi si sedette sulla spiaggia, e sbocconcellando le patate disse: “Entità misteriose che qui vi celate, lasciate ch'io condivida con voi la tranquillità di questo luogo.” Quand'ebbe finito di pronunciare queste parole, in un punto non lontano, proprio lì di fronte a loro18, prese a emergere dall'acqua

qualcosa di strano – qualcosa che aveva la forma di un siko triangolare (lo stemma effigiato sul legno delle barche). Inizialmente la cosa si limitò a galleggiare in superficie, sicché l'acqua dell'oceano pareva risucchiata da un gigante, poi lentamente cominciò a mostrare il proprio aspetto, finché a un tratto spalancò le fauci seghettate verso il bambino e disse: “Molto lieto di fare

kowyowyod con te! (Kowyowyod è l'appellativo confidenziale usato nei rapporti di amicizia fra

umani e animali.) Fa' pure come fossi a casa tua!” Il bambino – la bocca aperta e gli occhi sgranati – restò qualche tempo senza parole, simile a una statuina di terracotta. Il grosso pesce così, vedendo che non si muoveva, prese ad agitarsi convulsamente, pensando che forse era stato proprio il suo orribile aspetto a terrorizzare il ragazzino, e si vergognò delle sue stesse sembianze. Quel che urgeva in quel momento tuttavia era svegliare il bambino. Così, nell'imbarazzo di decidere sul da farsi, il pesce di colpo s'immerse sott'acqua, e le onde del mare si propagarono sino alle cosce del ragazzo. Quando poi, trascorsi pochi istanti, il pesce tornò a galla, gli venne in mente che continuando a immergersi e a riaffiorare per una decina di volte forse sarebbe riuscito a ridestare il giovanotto. Così iniziò a emergere e riaffondare, emergere e riaffondare, levando onde che schiaffeggiavano il corpo del ragazzo ed erano destinate a risvegliarlo. Quando il grosso pesce ebbe fatto su e giù dieci volte, il bambino si accorse che, una dopo l'altra, le onde investivano il suo corpo sino alle ascelle, tant'è che, piano piano, cominciò a riprendere coscienza. Lentamente

spalancò gli occhi e controllò se quel mostro colossale stesse ancora galleggiando lì davanti. Le onde si chetarono, restava solo il triangolo di quell'immane pinna dorsale, immobile sul pelo dell'acqua. Il bambino cambiò postura e, da seduto sulla sabbia com'era, si mise in posizione accovacciata. Così, cingendo le ginocchia come assorto in profondi pensieri – nelle mani ancora alcune patate –, contemplava in tutta tranquillità la bizzarra creatura che aveva di fronte. Intanto anche il pesce stava meditando se emergere o meno dalla superficie e salutare il ragazzo. Era come se i due gareggiassero a chi sarebbe stato il più paziente. Quand'era trascorso ormai un bel pezzo, i raggi del sole presero a calare e le ombre nella grotta si allungarono. Allora il bambino, che non stava più nella pelle, disse: “Kowyowyod!, che divinità sei per l'esattezza? Puoi venire in superficie? Vorrei diventare tuo amico. ” All'udire queste parole il mostro venne gradualmente in superficie, tuttavia non osò mostrare la sua enorme dentatura. Ruotò su se stesso, indirizzò lo sguardo verso il bambino e disse: “Anch'io sarei molto felice di fare amicizia con te! Ti prego, non avere paura di me! Benché io abbia un aspetto spaventoso, in realtà sono buono... Voi uomini mi chiamate zokang (squalo), che significa non solo 'brutto', ma anche 'dalla pelle scabrosa' e 'incline a mordere'.” “Piacere di conoscerti! Tieni, ti regalo una patata.”, disse il ragazzo. Quindi prese la grossa patata che teneva in mano, la mise nella bocca dello squalo ed esso la inghiottì, come un uomo inghiottirebbe una nocciolina. Non se ne accorse nemmeno. Quell'omaggio amichevole tuttavia ebbe per lo squalo un valore inestimabile, poiché difficilmente gli uomini lo rispettavano, e i più tra loro lo temevano soltanto. Quel bambino invece gli piaceva moltissimo.

Lo squalo disse al ragazzo: “Per sdebitarmi di questa patata, vorrei portarti a conoscere il mondo sottomarino e farti cavalcare le onde, quest'angolo di mare è tutto mio, non vi sono pesci che potrebbero approfittarsi di te... Vuoi venire?” Andare a divertirsi in mare aperto era proprio ciò che il ragazzo sognava notte e giorno, perciò un'occasione del genere non poteva che essere una benedizione venuta dal cielo. Allora, annuendo ripetutamente disse: “Voglio venire.”, poi fece un gesto smanioso di montare in groppa allo squalo, e – boing! – ecco che era già balzato cavalcioni del pesce. Prima di partire, lo squalo gli spiegò alcune mosse: quando voleva immergersi sott'acqua, doveva stringere il suo addome, quando invece voleva emergere, doveva premere fra i suoi occhi, per voltare a destra o a sinistra, avrebbe toccato le branchie di destra o quelle di sinistra, mentre per farlo saltare, gli avrebbe dato un buffetto sulle narici... Era tutto chiaro? “Ho capito tutto!” rispose il bambino, alzando la voce per l'eccitazione.

Un sipario d'acqua dopo l'altro, lo squalo tagliava dolcemente le onde basse, e dimenando la coda a destra e a manca seminava una scia di mulinelli. Dopo che ebbe nuotato per qualche tempo, lo squalo chiese al bambino: “Sei pronto?”, “Prontissimo!” replicò questi. Lo squalo allora aumentò di velocità, ma rimase sempre nelle vicinanze della piccola baia, così, quand'era ormai parecchie

volte che sfrecciava avanti e indietro, il bambino chiese al suo kowyowyod di nuotare verso il largo e di immergersi sott'acqua, poiché voleva vedere coi propri occhi le meraviglie del mondo subacqueo. Tuttavia, poiché il sole si avvicinava all'orizzonte, lo squalo si accorse che era ormai tardi, e preoccupato che a casa i genitori del bambino lo cercassero senza trovarlo, lo riportò alla grotta dove si erano conosciuti e lo pregò di affrettarsi a tornare.

“Kowyowyod, se domani vieni un po' prima, possiamo raggiungere altre isole, e anche ammirare le meraviglie dei fondali, va bene?”. “Va bene!”, rispose il bambino, dandogli qualche buffetto all'altezza delle branchie e pregando il suo kowyowyod di non mancare all'appuntamento.

Quando il ragazzo tornò al villaggio, gli abitanti stavano dando il cibo ai porci e alcuni sedevano in veranda a mangiare, scambiare due chiacchiere, o masticare noci di betel. Da casa sua si levava in cielo un fumo a riccioli, che si faceva breccia fra le fessure della pietra seguendo traiettorie irregolari: immaginò che sua madre fosse intenta a bollire un bel wovi (taro coltivato a secco) grosso e fragrante, e pensando allo wovi, si affrettò a correre verso la dimora. Non appena fu entrato, infatti, sua madre disse: “Questo wovi è per te, così fai uno spuntino... Fra poco comunque tuo padre ti darà qualcosa di meglio, di più gustoso.” “Che cosa?”, domandò alla madre, mentre ancora annaspava, “Fra un attimo lo saprai.” Il padre diede il mangime ai maiali e poi tornò, allora il bambino si sedette sotto la porta che si trovava accanto alla stufa, e gli domandò: “Ho sentito che hai qualcosa di speciale per me, che cos'è, pa'?”, “Aiuta la mamma a portare gli wovi in veranda,” replicò il padre, mentre sfornava un pesce da donna, per l'esattezza una cernia.

“Wow! Rokwa veza! (Che cernia enorme!)” E poiché il ragazzo era estremamente affamato, in un batter d'occhio divorò metà pesce. I genitori che, lì accanto, lo guardavano in un misto di stupore e piacere, gli chiesero allora: “Dove sei andato a giocare oggi?” Il bambino però, intento com'era a consumare il suo pasto, rispose con indolenza, poi si raggomitolò in grembo a suo padre e cadde in un sonno profondo.

Il mattino del giorno seguente il padre e la madre si recarono come al solito a lavorare sulle montagne, mentre il bambino, giunta l'ora stabilita, andò a incontrare lo squalo. Quando raggiunse la grotta, lo squalo era già lì ad aspettarlo e i due si scambiarono il buongiorno chiamandosi “kowyowyod”. Poi il ragazzo montò subito in groppa al pesce e prese a guidare il suo destriero con gesti da re dell'oceano, e specialmente quando si alzava in piedi sul dorso dell'animale, appariva talmente avvolto in quell'aura di magnificenza, che, di tutto l'oceano, sembrava addirittura il re dei re. Ordinò allo squalo di cavalcare le onde e fare un giro sino alla spiaggia dove i bambini erano soliti radunarsi a giocare e dove avrebbe fatto mostra del suo potere. In quel momento il lido era gremito di ragazzini, e nessuno poté fare a meno di mostrare una grande ammirazione per le sue doti natatorie, a un tempo lo lodavano e lo invidiavano moltissimo, ma ciò che li lasciava più

esterrefatti era questo: “Come fa a stare in piedi in mezzo all'oceano senza affondare?” Dopo non molto lo squalo chiamò a raccolta le sue forze e saltò fuori dall'acqua, la sua sagoma immensa allora spaventò tutti coloro che stavano assistendo allo spettacolo, e la cresta di schiuma che si levò allo schianto fu come un grande scoglio bianco che, precipitando dal cielo, ripiombò deflagrando in mezzo al mare. Wow! Yaja Wonib sikowa ri? (Ma come fa a non morire di paura?) In quell'istante però lo squalo e il bambino si immersero, e per lungo tempo non tornarono in superficie. Sulla terra ferma allora i palpiti degli astanti iniziarono a battere a mille, e tutti – gli occhi aguzzati sulla linea d'orizzonte – speravano col cuore di distinguervi un puntino nero. Infine, quando un nutrito gruppo di bambini iniziò a chiamare il suo nome, lo scoramento fu tale che presero a scorrere lacrime. Scossi dal dispiacere fecero ritorno al villaggio e si radunarono presso la casa del ragazzo, mentre i giovani più veloci si precipitarono su per le montagne a chiamare i suoi genitori e dir loro di affrettarsi a tornare.

Quando lo squalo s'immerse sott'acqua, rallentò subito la velocità, affinché si potessero godere comodamente la vista dei magnifici fondali. Era sorprendente come gli abissi, al confronto coi panorami della terra ferma, costituissero una tale festa per gli occhi: “Wow... Che meraviglia!” I densi raggi del sole trafiggevano l'acqua del mare e i loro fasci di luce affondavano uno a uno, fini come fili di pioggerellina. Il tepore di quella luce era gentile e riposante, come quello che irradia la Terra verso sera, e i raggi non seguivano il moto sinuoso delle onde, non si flettevano. Le cime degli scogli dalle altezze irregolari erano come le catene montuose sulla terra ferma, ma le meravigliose forme e sfumature li rendevano rivali inarrivabili. I colori abbaglianti delle piante marine, le alghe variopinte, le correnti che piegavano ora a sinistra, ora a destra, ora a nord, ora a sud – un colpo d'occhio e sembrava che tutto stesse danzando; mentre banchi di pesci dalle mille tinte – molte più di quelle terrestri – migravano nella forra dove lo squalo e il bambino stavano passando. E insomma, una dopo l'altra, le indicibili creature degli abissi affascinarono il bambino a tal punto che si dimenticò di emergere a respirare e, anzi, adagiandosi prono sulla pinna dorsale del grande pesce, non tardò ad assopirsi. Dopo qualche attimo il suo kowyowyod, lo squalo, pensò che ci fosse qualcosa di strano, così torse il corpo e sbirciò il suo amico con la coda dell'occhio. Ah, caspita! Si era addormentato! Si affrettò allora a riemergere, e a quel punto era già trascorso parecchio tempo da che l'isola di Dawu19 non era più visibile.

Lo zokang seguì una strada che conosceva e prese a nuotare verso l'isola di Dawu. Le ombre nere fecero gradualmente la loro comparsa, e poi da nere divennero verdi, e da verdi una varietà di coloriture chiare e scure. Sulla schiena del ragazzo intanto non vi era goccia d'acqua che osasse

19 (N. d. A.) “Tawo (Dawu in trascrizione pinyin) significa persone, ma quando i Tao pronunciano questo termine, si riferiscono per eccellenza a “Noi Tao, in qualità di gruppo etnico”.

fermarsi, e il sole cocente, implacabile, bruciava le sue spalle minuscole. Diede un buffetto sulla fronte dello squalo e disse: “Amico mio, puoi fare in modo che il mio corpo sia immerso, ma che il capo resti fuori dall'acqua?” Ascoltate le sue indicazioni, lo squalo si immerse un pochino affinché il piccolo corpo non venisse scottato dal sole; il kowyowyod andava velocissimo e in un battibaleno giunse nell'area costiera vicina al villaggio. Lo zokang puntò verso la spiaggia dove i ragazzini si trovavano a giocare; dietro il grosso pesce la schiuma bianca tracciava una scia drittissima, e il mare blu scuro era come una lama di metallo tagliata in due metà. Allora il bambino che cavalcava in groppa alla sua schiena cominciò a eccitarsi, e da kowyowyod gli chiese: “Potresti mostrarmi di nuovo come sei bravo a saltare sull'acqua?” Lo squalo rispose: “Ma certamente! Se è per farti contento, posso fare di tutto!” “Mi basta che salti fuori un po' di volte, puoi farlo?”, domandò il bambino. “Stringiti a me!”, rispose lo squalo, e “Yah!”, improvvisamente la coda si staccò dal mare, levandosi per un bel pezzo. Poi infine ricadde, e l'onda generata dallo schianto si alzò per tre,