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La storia del copricapo dalla punta d'oro

Ai tempi in cui i nostri avi si stabilirono nel villaggio di Jimasik risale la storia della bambina e del copricapo dalla punta d'oro, le cui vicende sono state profusamente tramandate.

Riportando la leggenda tuttavia, non potrò fare i nomi dei genitori, in quanto neppure i nostri padri ricordano come si chiamassero questi personaggi.

Si racconta soltanto che la coppia avesse due figlie, di cui la maggiore era molto perspicace e, in tutta autonomia, sapeva già estirpare la gramigna dai campi di taro. Al tempo in cui è ambientata la storia questa bambina aveva già l'età per andare e tornare dalla sorgente ad attingere acqua, e quindi non era più tanto piccola.

Ogni volta che si mangiava, tuttavia, la ragazza veniva sempre bistrattata; a lei toccavano le patate più scadenti e il suo pesce consisteva in rimasugli spolpati della pelle caudale. La sua ciotola di terracotta era perfino venata lungo il bordo. Il restante invece – ossia le parti più prelibate e integre – i genitori lo riservavano interamente alla sua sorellina, sicché chi vedeva quella ragazza non poteva che provare per lei una gran compassione.

Un giorno, mentre si preparavano per andare a lavorare in montagna, i genitori dissero alla figlia maggiore: “Bada alla tua sorellina, altrimenti gli altri bambini si approfitteranno di lei.” La figlia maggiore rispose: “Certamente, mi occuperò io di lei.”

Così la figlia maggiore iniziò a estirpare le erbacce che infestavano la casa e, quando ebbe portato a termine questo lavoro, proseguì sciacquando le ciotole di terracotta, nettando il vassoio di legno, pulendo e riordinando la lunga asse su cui venivano riposte posate e stoviglie. Sbrigate anche queste faccende, la casa era come nuova e perfettamente pulita.

A lavori conclusi le due sorelle andarono a riposare nel chiosco, e qui chiacchieravano masticando noci di betel.

Dopo qualche istante, però, la sorella maggiore disse: “Sorellina, resta in casa, io vado in montagna a raccogliere le foglie di taro gigante, d'accordo?

Ma la sorellina rispose: “Uffi! [Ma in casa avrò paura!, qualcuno potrebbe entrare e picchiarmi!”. La sorella maggiore allora, vedendo la sorellina così sola e indifesa, rispose con tenerezza: “E va bene, seguimi.” Così le due sorelle andarono insieme in montagna a raccogliere le foglie di taro.

Non appena ebbero raggiunto Jimahango si sedettero un po' a riposare. Ma proprio in quell'istante la maggiore si rammentò della divinità apparsale in sogno la notte prima.

La divinità infatti aveva detto: “Quando arriverai a Jimahango, dovrai schiudere l'erba

balangbang. Calandoti nell'apertura poi, dovrai scendere e proseguire dritto fino a una casa decorata

di morong (disegni ornamentali per barche), dove riposerai e dormirai.”

Così la ragazza adesso non faceva che pensare e ripensare alle parole della divinità vista in sogno. La presenza della sorellina tuttavia era il suo più grande ostacolo. In cuor suo si chiedeva: “Come faccio a liberarmi della piccola?”, e per quanto rimuginasse, non riusciva a trovare il modo di imbrogliarla. “Sorellina, guarda! Laggiù ci sono delle persone che si azzuffano!”, la ingannò infine, distraendo la sua attenzione.

Quindi si aprì un varco nella boscaglia e lesta si insinuò nel mondo del sottosuolo.

Dalla cima della montagna che si ergeva vicino al villaggio si aveva un'alta visuale su tutto il paese, e si scorgeva perfino quella casetta decorata di morong. La ragazza allora affrettò il passo, raggiunse la dimora e, dopo esservi entrata, stendendosi accanto alla tavoletta di legno innalzata da Tomok (spirito del legno custode della stanza principale, nonché anima dell'intera abitazione) poté finalmente riposarsi e dormire.

Sul far della sera tuttavia i proprietari della dimora rincasarono. All'improvviso, mentre stavano cenando, sentirono un rumore insolito provenire dalle parti del Tomok, come di qualcuno che stesse maneggiando il kazapaz (capiente paniere di rattan destinato alla conservazione del miglio); “Figliolo,” dissero allora, “va' a vedere cosa succede.” Il loro bambino aprì quindi il

kazapaz e in una sola occhiata capì quel che accadeva... Perché ecco, una bambina composta e

graziosa storceva la bocca nell'imbarazzo.

“Ehi!, e tu chi sei? Da dove arrivi? Cosa fai qui?”

La ragazzina, esitante, prese a spiegare: “Sono arrivata qui per caso... Io sono...”

“... e dunque le cose sono andate in questo modo, altrimenti non mi sarei azzardata a entrare in casa vostra.”

“La tua storia è molto commovente. Qui non abbiamo granché da mangiare, ma se andrai con la zia in montagna e nei campi di taro, ce la caveremo senz'altro.”

La bambina rispose: “Benissimo, andrò a lavorare con la zia.”

Dopo qualche tempo la ragazzina lavorava già con grande abilità, così il capo famiglia decise di darla in sposa al suo figlio maggiore.

Anno dopo anno, il tempo volò via in un baleno. La giovane coppia ebbe due figli, un maschio e una femmina, e quando i bambini ebbero l'età per camminare la donna disse al marito: “I bambini sono cresciuti ormai, e io manco da casa da parecchi anni. Provo molta nostalgia per la mia

sorellina e per i miei genitori... Che ne dici se andassimo a trovarli?” “Ma certo, va bene!”, rispose l'uomo.

Il loro vawon (omaggio mangereccio) conteneva mezzo capretto, e poi grosse patate dolci e fragranti radici di taro. Anche i bambini – maschio e femmina – li seguirono.

Ma quando si trovarono al di sopra del sottosuolo e finalmente raggiunsero la casa dei familiari, i genitori della ragazza domandarono sbigottiti: “E voi chi siete?”. In fin dei conti infatti erano già passati molti anni, ed era ormai impossibile per loro riconoscere in quella donna adulta la figlia che avevano maltrattato.

La figlia rispose: “Sono la vostra bambina, la vostra primogenita!”. E i familiari, con voce incredula: “Oh cielo! Ma allora stai bene! Pensavamo che tu...”, e a queste parole l'intera famiglia si strinse in un abbraccio, versando lacrime mute ma inarrestabili, ringraziando il cielo e ricordando insieme i giorni passati.

Si fermarono a casa dei parenti per due giorni e due notti. All'alba del terzo giorno però la figlia disse ai genitori: “Caro padre e cara madre, per evitare che i vostri kehakay (migliori amici) si preoccupino, questa mattina ci incammineremo per tornare a casa. Grazie di tutto!”

Mentre la donna parlava, il marito e i figli la precedettero di qualche passo. Ma sua madre rispose: “Io voglio venire con voi, figlia mia... Mi manchi troppo!”, e così dicendo le camminava accanto. Quando arrivarono a Jimahango, tuttavia, pur col cuore spezzato dal dolore, la figlia disse:

“Mia adorata madre, non è davvero possibile che tu venga con me”, quindi si fece breccia nell'erba e vi sgusciò all'interno... Quanto a sua madre, scacciando ora il goccio al naso, ora una lacrima, non poté fare altro che tornare a casa.

La figlia giunse invece alle soglie del passaggio che conduceva sottoterra, ma qui, essendo il cappello che portava più largo del suo corpo, e andando lei in gran fretta, decise infine di lasciarlo fuori dall'imboccatura... Dove però, incastonata sulla sommità del copricapo, restò anche una grossa pepita d'oro.

Dopo moltissimo tempo Si Zivo andò nei campi e mentre raccoglieva radici di taro gli capitò fra le mani quel cappello con la punta adorna di una pepita d'oro, il quale divenne così di sua proprietà.

Questa storia, dunque, vuole essere un monito per tutti i genitori della terra: i figli sono sempre nostri figli, non si può discriminarli, preferendone uno all'altro, diversamente, invecchiando, si pagherà il fio di tale errore. Inoltre una figlia sposata è rifugio sicuro per la sua controparte maschile e, della coppia genitoriale, diviene la colonna portante. Così i nostri avi, generazione dopo generazione, hanno sempre tramandato il messaggio di questa leggenda.