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NEL CUORE DEL POTERE: SANGUE REGIO E ISTITUZION

2.3. Un barone del Regno (1482-1496)

2.3.1. Principi legittimi e naturali: il “dosaggio contenuto” di feudi e cariche istituzionali Il principe secondogenito non fu impiegato nel governo dei territori regnicoli soltanto in qualità di luogotenente. Come tutti i figli de re, eccetto quelli destinati alla carriera ecclesiastica, come il cardinale Giovanni d’Aragona e più tardi l’ille- gittimo Alfonso177, prima di sedere sul trono di Napoli egli fu infatti titolare di

diversi feudi.

Questo lo stato delle assegnazioni riguardanti gli altri membri della famiglia re- ale durante il regno di Ferrante: l’erede al trono Alfonso ebbe il Ducato di Calabria, spettante ai primogeniti e successori sin dal XIV secolo, quando re Carlo II d’Angiò lo aveva concesso al figlio Roberto. Enrico d’Aragona (1445-1478), primogenito na- turale, ottenne invece la contea di Nicastro (marzo 1473) e il marchesato di Gerace (maggio 1473) mentre era luogotenente generale in Calabria178. A Cesare (1459/60-

175 I. Schiappoli, La marina, cit., p. 184.

176 Francesco da Casale a Ludovico Sforza, 12 novembre 1495, ASM, SPE, Napoli, 253, s. n. 177 Su quest’ultimo cfr.: B. Nuciforo, I “bastardi”, cit., pp. 119-120; F. Forcellini, Strane peripezie

di un bastardo di casa d’Aragona, Napoli 1915.

1504) spettarono la contea di Caserta, Sant’Agata, Alessano e la signoria di Eboli (1486)179. L’ultimogenito legittimo, Francesco (1461-1486), ebbe poi nel 1485, da

poco tornato nel Regno dall’Ungheria e fatto luogotenente generale negli Abruzzi, il titolo di duca di Monte Sant’Angelo, oltre al marchesato di Bisceglie180. Ferdinan-

do d’Aragona, naturale, fu conte di Arena e Stilo dal 1479 (in concomitanza con la sua nomina luogotenenziale in Calabria) e, dal 1480, succedendo al defunto fratello Enrico, conte di Nicastro181. Il marchesato di Gerace restò invece ai discendenti di

Enrico, e in particolare al primogenito Luigi d’Aragona, nato nel 1474. Infine, anche al figlio naturale Alfonso (1462-1514), prima della sua nomina vescovile (1488), re Ferrante pensò di dare la contea di Cariati (1484), ma egli rientrò a Napoli dal Cairo, dopo una lunga prigionia, soltanto nel 1487182.

Ciò che in primo luogo risulta evidente, è la forte presenza, a partire dagli anni ‘70, di feudi aragonesi in Calabria (Nicastro, Gerace, Arena e Stilo), concessi a principi naturali, che si associò al conferimento, ai loro titolari, della carica di luo- gotenenti generali in quelle province. In questo senso, si può parlare della creazione di una vera e propria “roccaforte calabrese” della Corona, che radicò qui per anni i suoi esponenti, dotati sia dell’autorità governativa luogotenenziale, sia di uno stato. Le ragioni strategiche sono lampanti, in considerazione del fatto che la Calabria era fra le zone più irrequiete e difficili da controllare del Regno183, e che inoltre vi

insistevano i vasti domini del principe di Bisignano Girolamo Sanseverino, sulla cui fedeltà il re nutriva giustificati sospetti; ma ciò che va altresì sottolineato, è che la condizione feudale dei principi di sangue era comunque sottoposta, per così dire, a un criterio di dosaggio contenuto: la Corona non intendeva alienare dal demanio e affidare come appannaggio troppo grandi e importanti possedimenti, come ad esempio sarebbe stato il Principato di Rossano, sottratto a suo tempo al ribelle Marino Marzano e poi smembrato. In quest’ottica va vista anche la scelta degli ille- gittimi, per i quali assegnazioni minori sarebbero state maggiormente giustificate.

179 Ivi, pp. 116-118.

180 S. Borsari, Ferdinando d’Aragona, in DBI, vol. III (1961), online al link: http://www.treccani.

it/enciclopedia/francesco-d-aragona_(Dizionario-Biografico)/.

181 Nuciforo, I “bastardi” cit., pp. 122-125. 182 Ivi, pp. 119-120.

183 Sulle rivolte baronali e di popolo in Calabria tra gli anni ‘40 e ‘60 del Quattrocento: E.

Pontieri, La Calabria a metà del secolo XV e la rivolta di Antonio Centelles, Napoli 1963; F. Storti, «La più bella guerra del mundo», La partecipazione delle popolazioni alla guerra di successione napoletana

(1459-1464), in Medioevo, Mezzogiorno Mediterraneo. Studi in onore di Mario Del Treppo, cur. G. Ros-

Anzi, come dimostra il caso di Cesare d’Aragona, che come si è detto ottenne feudi soltanto nel 1486, per questi poteva anche non esservi, nonostante lunghi anni di servizio, un corrispettivo in termini di stato all’assunzione di importanti cariche governative e militari.

Ciò fu vero fino alla prima metà degli anni ‘80 anche per i principi legittimi, che o furono inseriti nella Chiesa, come Giovanni, oppure, come Federico e Fran- cesco, destinati a progetti di respiro internazionale, collocati come signori, seppur senza successo e provvisoriamente, fuori dai confini del Regno. Con lo scoppio della Guerra di Ferrara, tuttavia, la prospettiva mutò: la monarchia, lo si è visto, mossa dalla volontà ed esigenza di servirsi del secondogenito e del quartogenito – il primo già tornato nello stato paterno, e il secondo in procinto di farlo – come comandanti militari, dovette provvedere a dargli un’adeguata collocazione, anche perché questi, ormai adulti e rinomati protagonisti dello scenario politico, erano stati già titolari di feudi all’estero.

La modalità con cui si agì rivela ancora una volta la contemperanza, l’equilibrio, fra scelte strategiche di controllo territoriale a beneficio della Corona, soprattutto contro i minacciosi poteri feudali delle province, e la prospettiva di quello che si è definito un dosaggio contenuto, interno alla famiglia reale. Si rafforzò infatti la stretta aragonese sulla Calabria – nel rafforzamento si sarebbe inserito anche il citato tentativo di dare la contea di Cariati a don Alfonso – e in particolare sul principe di Bisignano, che nel 1482 aveva palesato in un aspro colloquio col re un forte malcontento184, con l’assegnazione a Federico di un dominio composto dalla

contea di Nicastro (evidentemente sottratta a don Ferdinando), la contea di Belca- stro, e soprattutto Squillace, per l’occasione eretta a principato185; e al contempo si

184 Un dispaccio al duca di Milano dell’oratore sforzesco a Napoli Branda Castiglioni racconta

dell’acceso confronto avvenuto tra re Ferrante, Antonello e Girolamo Sanseverino nel settembre 1482. Quest’ultimo, spalleggiato dal principe di Salerno, si era lamentato per la perdita di reputa- zione, per lo svuotamento delle sue casse da parte del re, per l’essere come «destenuto et confinato» a corte, non potendo provvedere ai suoi feudi. Un elemento fondamentale del disagio era infine l’impossibilità di tenere milizie baronali, sancita dalla riforma militare del 1464. Alle proteste, il sovrano avrebbe risposto con dure accuse e minacce nei confronti di entrambi i baroni, tacciati di voler fomentare una ribellione (Branda Castiglioni al duca, Napoli, 14 sett.1482, in ASM, SPE,

Napoli, 240, s. n.). È chiaro come ormai i rapporti fossero a un punto di non ritorno e la casa San-

severino si sentisse in serio pericolo.

185 Sulla cerimonia d’intitolazione: Branda Castiglioni al duca di Milano, Napoli, 9 marzo

1483, in ASM, SPE, Napoli, 241, 199. Per l’esatta consistenza dei domini di Federico nelle province del Regno di Napoli, si veda la tabella alla fine del paragrafo [Tabella 1: Feudi regnicoli di Federico

pensò anche di riportare nell’alveo della corona i ricchi possedimenti del principe di Altamura (dal 1482), duca d’Andria e conte di Acerra Pirro del Balzo con il fidan- zamento, nel 1483, tra Francesco e Isabella, figlia di quello che poteva considerarsi, dopo il principe di Salerno, il secondo barone del Regno186. In realtà, Isabella non

era primogenita, e i feudi del principe sarebbero spettati alla figlia maggiore Isotta, moglie del gran siniscalco e marchese del Vasto Pietro de Guevara, che però, su pressione del re, rinunciò all’eredità paterna in cambio di altre concessioni187.

Dove sia il contenimento, in tutto ciò, è evidente se si considerano parallelamen- te anche i ruoli dei due figli legittimi di Ferrante: al secondogenito e al quartoge- nito sarebbero dunque spettati ampi domini, ma non posti nelle aree dove questi avevano o avrebbero esercitato funzioni di governo per conto del re – rispettiva- mente Puglia e Abruzzo –, a scongiurare pericolosi intrecci fra l’alto ufficio, radica- mento politico e interessi personali; e in più al principe con maggiori attribuzioni istituzionali e grado maggiore nelle gerarchie del sangue, Federico, sarebbe andato, all’inverso, lo stato in prospettiva – qualora Francesco avesse effettivamente sposato Isabella del Balzo – meno ricco e prestigioso.

Secondo quanto testimoniato da Giorgio Brognelo al marchese di Mantova, l’in- sieme dei feudi del secondogenito (Squillace, Nicastro e Belcastro) era «uno bello stato» ed egli ne ricavava una rendita di 12.000 ducati188; ma basti pensare che lo

stesso Federico, una volta re, come si dirà nell’ultimo capitolo, dispose per il pro- prio terzogenito, Cesare, uno stato dal valore di almeno 15.000 ducati annui, per comprendere come in effetti la posizione del principe non fosse del tutto adeguata al proprio status.

Questa strategia fu vanificata dagli eventi della Congiura dei Baroni, che, come si vedrà più nello specifico in seguito, portarono nelle mani di Federico (1485) e

186 Pirro del Balzo era anche gran connestabile del Regno. Durante i processi, a seguito della

Congiura dei Baroni, «Salvatore Zurlo, uomo di fiducia di Pirro, confessò che questi era scontento del re per due motivi: primo per essere rimasto privo dello stato, passato in toto nelle mani del genero, figlio di Ferrante; secondo per sentirsi dileggiato nella promessa di avere in moglie» Lu- crezia d’Aragona, figlia naturale del re. Nel 1491 a proposito di Pirro, la corte disse: «Benché paia grossolano, è homo maligno, et di ogni male è stato lui prima e principale causa, (…) pretendeva lui farsi re» (E. Scarton, La congiura dei baroni del 1485-87 e la sorte dei ribelli, in Poteri, relazioni,

guerra nel Regno di Ferrante d’Aragona. Studi sulle corrispondenze diplomatiche, cur. F. Senatore e F.

Storti, Napoli 2011, p. 265 n.).

187 G. Caporale, Memorie storiche diplomatiche della città di Acerra e dei conti che la tennero in feudo,

Napoli 1889, pp. 390-391.

contrariamente ai primitivi disegni di Ferrante, il Principato di Taranto, la con- tea di Lecce, Otranto, Brindisi e Matera, insomma gli ex, importantissimi feudi orsiniani, ancora conservati nel demanio regio; nonché dalla morte di Francesco d’Aragona, avvenuta il 26 ottobre 1486. Alla fine, dopo l’arresto del ribelle Pirro del Balzo nel 1487 e la conseguente confisca dei suoi feudi, la scelta di conferire questi al secondogenito fu quasi inevitabile: il Principato di Altamura, il Ducato d’Andria, Venosa, la Contea di Acerra e gli altri possedimenti dei del Balzo erano infatti l’unica degna merce di scambio – sfumato anche un tentativo di dargli in moglie una figlia del duca di Bretagna e collocarlo nuovamente all’estero – che la Corona poteva offrire, in quel frangente, affinché Federico cedesse nuovamente al re il principato di Taranto e i territori pugliesi, ai quali andavano oltretutto aggiunti quelli in Calabria, per evitare una insostenibile concentrazione di potere. Il passag- gio fu poi ulteriormente legittimato per via dinastica attraverso il matrimonio di Federico con Isabella, celebrato il 18 novembre 1487189.

L’elenco completo di tutti i feudi pugliesi del principe di Altamura è contenuto nel diploma di assegnazione a Federico dei domini di Pirro del Balzo, datato 3 ago- sto 1487 190. Qui si legge inoltre che i feudi furono concessi «in excambium vicem

et recompensam statuum Principatus Tarenti, Comitatus Licii et Comitatus Hy- dronti, Brundisii, Gallipolis, Matere et Turre Gruptaliarum – dunque questi erano gli ex domini orsiniani rimasti ancora nel demanio regio all’epoca dell’assegnazione del principato a Federico, su cui spesso ci si è interrogati – ac principatus Squillacii et Comitatum Neocastri et Bellicastri»191.

189 Passero, p. 51.

190 Altamurum cum titulo et honore Principis; Andriam cum titulo et honore Ducis; Aquevi-

vam, Minervinum, Castrum Montis rubei, Montem Milonem, Lavellum que sunt in provincia que dicitur Terra Bari; Montem Pilosum, Montem Caveosum cum titulo et honore Comitis; Grotulas, Pomaricum, Agianum, Tolvas, Sanctum Gervasium que sunt in Basilicata; Flumarum, Vicum, Laquedoniam, Bisacias, Carbonariam, Aquadiam, Carifas, Vallatam, Sanctum Sosum, Castella, Santum Nicolarum, Purcarinum, Rocchetam, Guardiam Lombardam, Montem Acutum, que sunt in regione que dicitur Baronia et ipsa oppida Baroniam constituunt atque ex ipsis cognominantur; Acerras in provincia Terre Laboris cum titulo et honore Comitis; Cupertinum cum titulo et honore Comitis; Veglias, Leveranum, Galathenam, Carpignanum, Sanctum Vitum, Venusam, Motulas, Turrim Maris de provincia Terre Idrunti; et feuda inhabitata, hoc est Trium Sanctorum Salapie, Montis Serici et Alti Ioannis (Caporale, Memorie storiche cit., pp. 400-402 n.).

2.3.2. Federico luogotenente e signore feudale: una continuità ideologica

A questo punto è importante soffermarsi su quali furono effettivamente i rap- porti tra Federico e i suoi domini, a cominciare da quelli calabresi assegnatigli nel 1482, per comprendere in che modo un principe aragonese con ampi ruoli istitu- zionali ed esperienza di governo dei territori si calasse nella dimensione di signore feudale regnicolo.

Se si prende in considerazione, come si è accennato, il Principato di Squillace, è possibile individuare dinamiche piuttosto significative. Dal 1482 al 1484, fagoci- tato dagli eventi della Guerra di Ferrara e dal conflitto contro i veneziani in Puglia e nell’Adriatico, Federico fu, come prevedibile, un barone assente; ma le cose cam- biarono nel biennio 1485-86, e più precisamente a ridosso dello scoppio ufficiale della sollevazione feudale e immediatamente dopo la fine della campagna militare in Calabria contro il principe di Bisignano, sulla quale si tornerà nel prossimo pa- ragrafo. Insomma, nei momenti in cui la monarchia ebbe maggiormente bisogno di consolidare il proprio controllo nella provincia calabrese, profondamente scossa dalla ribellione, il principe non esitò ad esercitare energicamente le proprie prero- gative per regolare la vita delle universitates e dei popoli a lui soggetti, guardando, nei modi che si vanno ad analizzare, all’obiettivo della stabilità e dell’ordine politi- co-sociale. Di questa azione calabrese risultano tre testimonianze: i capitoli concessi all’università di Maida (in Squillace, 21 settembre 1485), le instructioni et ordinationi per gli ufficiali del Principato (22 settembre 1486) e i capitoli concessi a Squillace il 30 settembre 1486 e il 6 giugno 1487192.

Le istruzioni e gli ordini nel 22 settembre 1486 sono un punto di partenza ob- bligato, in quanto esito di un intervento di Federico nella struttura amministrativa del Principato a seguito della permanenza nei propri feudi, e dunque di un’attenta e ravvicinata analisi della loro condizione. Questi riguardano specificamente l’am- ministrazione della giustizia (ministrare iustitia) da parte degli ufficiali del signore, un tema centrale, lo si è detto, nell’ideologia monarchica aragonese, con la quale dopotutto le istruzioni entrano in suggestiva connessione attraverso l’espressione

zelatore de la Iustitia, utilizzata per definire il secondogenito nella dispositio:

192 I quattro documenti sono pubblicati in: A. F. Parisi, I capitoli concessi da Federico d’Aragona

all’università di Maida, in «Archivio paleografico italiano. Bollettino», n. s., vol. 2/3 (1956/57), pp.

252-263; e G. Rhodio, Antichi Statuti di Squillace e tracce di autonomismo nella Calabria medievale, in «Vivarium Scyllacense», anno I/2 (1990), pp. 7-123.

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