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La prima educazione militare e il valore dell’esperienza

NEL CUORE DEL POTERE: SANGUE REGIO E ISTITUZION

2.2. I ruoli militari (1478-1496)

2.2.1. La prima educazione militare e il valore dell’esperienza

Federico ebbe la prima esperienza di guerra sin da giovanissimo, nel 1461, du- rante la sua luogotenenza a Gaeta. Coadiuvato da un consiglio di uomini di fiducia e dai locali ufficiali regi, si trovò infatti a occuparsi del conflitto tra le forze alleate del conte di Urbino, che chiedeva incessantemente artiglierie e rinforzi, e il ribelle duca di Sora, spalleggiato dal principe di Rossano98.

In Puglia, invece, si svolse il vero e proprio addestramento marziale del principe. Figura di riferimento in quest’ambito fu certamente l’esperto armigero Rinaldo del Duce (del Duca o del Dolce), napoletano proveniente da nobile famiglia del seggio di Nido, che si occupava, come si è già sottolineato, della formazione di Federico99.

98 Dopo aver combattuto in Abruzzo, Niccolò Forteguerri e il duca di Urbino avevano pro-

gettato di attaccare le terre del duca di Sora, per poi dirigersi verso San Germano e Terra di Lavo- ro, e infine sferrare l’attacco alle terre del principe di Rossano: «Noi domane levarimo campo et volterimo in le terre del duca de Sora et sforciamoci o torli lo stato, o redurlo alla devotione dela maestà del re com tosarli l’ale (...). Dipoi bastandoci el tempo passarimo in Terra de Lavore con- tra el principe de Rossano.Questo è el nostro designo per quanto possiamo al presente arbitrare» (Niccolò Forteguerri a Francesco Sforza, Campo presso Albe, 1 settembre 1461, in DSN, IV, pp. 295-297). Così scriveva infatti Gentile della Molara a Francesco Sforza nell’ottobre del ‘61: «(…) ieri monsignore de Tiano et lo conte de Urbino scrissero a questo signor Federicho come errano in campo et manchategli la polvere et che pregava la soa signoria che volessi mandare de qua una o doi bombarde et più polvere che possevano, et che gli volessi mandare fino a cento et cinquanta o duecento balestrieri o ad minus cento, perchè el principe de Rosano s’era misso insiemi con lo duca de Sore et che aspectavano VII squadre de chaldoreschi et vignando foriano più forti che loro (…)» (Gentile della Molara a Francesco Sforza, Gaeta, 15 ottobre 1461, in DSN, IV, p. 337). A quanto pare, a giudicare dal tenore delle risposte inviate dalla città a Federico da Montefeltro, in seguito alle sue lamentele e sollecitazioni, l’entourage del giovane luogotenente manifestava non poca diffi- denza nei confronti del conte, tacciandolo addirittura di un disonorevole temporeggiamento: «(…) custoro se ne anno facto beffe, et dicono che l’è fantasia de lo conte de Urbino per non passare più inanci» (ibidem).

99 In gioventù fu coppiere di Alfonso il Magnanimo, e in seguito divenne uomo d’arme de-

maniale. Rinaldo è infatti presente nelle cedole di pagamento del 1441 con un seguito di 4 lance (Storti, L’esercito napoletano cit., p. 32), e compare ancora nella lista di Borso d’Este come condottiero

Come il duca di Calabria, che già a soli sette anni sorprendeva il Maletta per il suo saper «scrimire e de spada e de bocalero»100, il secondogenito era rapito dagli ideali

del vigore fisico e dai “giochi di guerra”, devolvendo larga parte del suo tempo a esercitarsi nell’uso delle armi, come si evince da un’epistola di Elisio Calenzio101. La

lunga permanenza in Puglia significò inoltre, per Federico, l’opportunità di entrare in contatto con il complesso sistema dei porti e delle città costiere, nonché con la rete informativa riguardante i movimenti della flotta turca: egli ebbe dunque modo di sviluppare precocemente anche una certa competenza marinaresca.

L’impresa di Borgogna fu, lo si è visto, una tappa fondamentale nel processo di costruzione dell’esperienza militare del secondogenito e della sua immagine di comandante. Non solo egli ebbe modo di mostrare le proprie doti e il proprio co- raggio, ma insieme agli uomini del suo seguito fu testimone e partecipe di una grande sperimentazione organizzativa: la struttura conferita dal Temerario all’eser- cito borgognone, con l’ordinanza di Losanna alla vigilia della battaglia di Grandson (maggio 1476), prevedeva otto colonnelli, o “battaglie”. Questi, disposti a gruppi di due, erano ordinati su quattro linee (o “corpi”) – composte da squadroni di caval- leria, arcieri, balestrieri e fanti – ciascuna delle quali aveva un comandante in capo. Federico comandava il secondo corpo, composto dalla terza e quarta battaglia, per un totale di circa 1800 uomini. Sotto di lui, come capitani di colonnello/battaglia, erano gli esperti Troilo di Muro da Rossano e Antonio dei Corradi di Lignana102.

Come non manca di notare Francesco Storti, soltanto nel Regno di Napoli e in Borgogna l’esigenza, avvertita contemporaneamente anche altrove, di corpi più ampi – destinati a «sfruttare al meglio le accresciute dimensioni dell’esercito, au- mentandone le capacità di manovra e diversificandone i quadri di comando» – si tradusse in quegli anni, con l’organizzazione in colonnelli e battaglie, in un’effettiva realizzazione; e in quest’ottica, la presenza, alla viglia di «uno scontro riconosciuto

al comando di un’autonoma compagnia di 10 uomini (DSN, I, p. 19). Già inviato di Ferrante in delicate missioni diplomatiche (DSN, IV, p. 319), divenne consigliere regio nel ‘64 e fu signore di alcune terre salentine (DSN, V, p. 249).

100 Alberico Maletta a Francesco Sforza, Napoli, 7 novembre 1455, in BNF, Italien, 1587, 85 cit.

in Storti, Il principe condottiero. Le campagne militari di Alfonso duca di Calabria, in Condottieri e uomini

d’arme nell’Italia del Rinascimento, cur. M. Del Treppo, Napoli 2001, p. 327.

101 «(…) neque hic minus gloriae aut decoris est, quam in illa tua exoptata militia, qua dies

noctesque defatigaris» (Epistola CXXII, in Monti Sabia, l’humanitas di Elsio Calenzio cit., p. 230).

102 Cfr.: Walsh, Charles the Bold cit., p. 361; Contamine, La guerra nel Medioevo cit., pp. 318-322.

Su Troilo da Rossano e altri comandanti militari italiani al servizio di Carlo il Temerario: B. Sch- nerb, Troylo de Rossano et les italiens au service de Charles le Témeraire, «Francia», 26/1 (1999), 103-128.

come quello che indusse il Temerario ad attuare una profonda riforma delle sue milizie», di Federico e dei tanti uomini del suo seguito, tutti «veterani demaniali di spicco» collocati in importanti ruoli di comando, rende verosimile l’ipotesi «che i nuovi assetti dati alla cavalleria del duca di Borgogna sorgessero proprio dai sug- gerimenti dei regnicoli, da sempre ricercati dal Temerario come capitani»103.

Dopotutto, analoga ipotesi può essere avanzata per quanto riguarda i progetti, ri- masti però solo su carta, dell’esercito milanese nel 1472-74: a Napoli l’organizzazione in colonnelli, nuove macroformazioni da combattimento, era già da tempo pratica ac- quisita, introdotta per di più nella cavalleria permanente, e non è dunque escluso «che siano state proprio le milizie napoletane a suggerire a quelle lombarde, loro alleate, il nuovo modello strutturale in occasione della guerra contro il Colleoni»104.

All’inizio degli anni Ottanta, l’ordinamento dell’esercito napoletano aveva rag- giunto il suo assetto definitivo. I colonnelli sono «articolazioni organiche ormai stabili» in cui si inquadra sia la cavalleria, sia, a testimonianza di un elevato «grado di razionalizzazione», la fanteria. Essi sono dunque corpi perfettamente autonomi, come «una copia ridotta dell’esercito stesso»105. Non c’è dubbio sul fatto che la

Guerra di Toscana (1478-’79) e la guerra d’Otranto (1480-’81) abbiano costituito accelerazioni essenziali nel processo di sperimentazione regnicolo, ma le guerre bor- gognone possono essere considerate anch’esse un momento cardine, precedente, in cui si ebbe prova di come un certo modello potesse essere applicato su vasta scala e in uno dei teatri bellici più importanti d’Europa. Vi era stato in sostanza uno scam- bio di esperienze, e se gli uomini d’arme aragonesi giunti in Borgogna con Federico avevano, come si è detto, almeno contribuito alla riorganizzazione dell’esercito del Temerario, deve pur essere vero che gli stessi, tornati in Italia, si fecero portatori in patria di quello che oggi si definirebbe un sostanzioso know how. Non a caso, li troviamo fra i più alti gradi dell’esercito demaniale del 1480-’82106.

L’esercito napoletano, che in questi anni si configurava come una «precisa strut- tura gerarchica», aggregava attorno al duca di Calabria, supremo comandante, uf- ficiali di diversa estrazione (condottieri autonomi, congiunti del re), ma «uniti dal tratto comune di una riconosciuta competenza e dotati di un grado di autorità utile a caratterizzarli come membri rappresentativi», analogamente al primogenito, del

103 Storti, L’esercito napoletano cit., p. 159. 104 Ivi, pp. 166-167.

105 Ivi, p. 170. 106 Ivi, p. 171.

vertice di comando107. A partire dalla Guerra di Toscana, la monarchia tese però

sempre, per quanto possibile, a prediligere un’autorità derivante dal connubio tra sangue regio ed esperienza di comando militare. L’utilizzo del sangue, nella forma specifica dell’esposizione dei figli di Ferrante alla testa delle truppe sul campo di battaglia, era d’altro canto derivazione e insieme amplificazione di una prassi, quella dell’ostentazione della persona del re in battaglia, dall’enorme valenza rappresen- tativa e strategica108. Il caso di Federico, che nel 1478 rifulgeva della fama di chi

aveva combattuto sui campi della Borgogna, fianco a fianco con alcuni fra i migliori uomini d’arme del Regno, può essere considerato il maggiore esempio in questa prospettiva, in quanto appunto status dinastico-familiare e competenza erano en- trambi elevati e riconosciuti, inferiori soltanto a quelli vantati dal duca di Calabria.

Fallita a Firenze la congiura contro i Medici (26 aprile), alla quale il Papa e Ferrante avevano dato il loro appoggio, e scoppiata la guerra109, il secondogenito

fu chiamato a condurre, insieme al primogenito Alfonso e al fratellastro Ernico110,

l’esercito napoletano in Toscana. Stando a Zaccaria Saggi il 22 luglio Federico era già atteso nel campo posto a Montepulciano111. Nonostante il giudizio dei vene-

ziani fosse che né il Papa né Ferrante avessero reale intenzione di indugiare in una guerra lunga e logorante, e che l’invio di truppe rappresentasse solo un’operazione di facciata, in attesa che si giungesse a una pace112, a Firenze l’attenzione sugli

spostamenti del secondogenito e del duca di Calabria era molto elevata, e già si pre- disponevano adeguate difese113. Di fatto Federico giunse al campo presso Siena in

107 Ibidem.

108 Su questo tema, nel contesto della guerra di successione, si veda ad esempio: Senatore, L’i-

tinerance cit., pp. 294-298.

109 Per un ampio quadro politico, diplomatico e militare sulla questione si veda: M. Barsac-

chi, Cacciate Lorenzo! La guerra dei Pazzie l’assedio di Colle Val d’Elsa (1478-1479), Siena 2007.

110 «Le zente del re Ferdinando, re de Napoli, cum il duca de Calabria, don Federico et don

Enricho, fioli del dicto re Ferdinando, che erano a numero 140 squadre» (Croniche di Ugo Caleffini

(1471-1494), a cura della deputazione provinciale ferrarese di Storia Patria, Ferrara 2006, p. 296).

111 «De le gente del re non d’intende che siano mosse dove erano pur socto a Montepulzano, né

sonno cresciutte anchora. Ben si aspectava don Federigo con altre gente anchora, e così il resto di quelli del duca di Urbino, quelli di Pesaro e quelli di Rimino» (Zaccharia Saggi a Federico Gonza- ga, Milano, 22 luglio 1478, COM, XI, p. 81). Il principe, come riporta Notar Giacomo, era partito da Napoli il 14 giugno (Notar Giacomo, p. 141).

112 Il Lanfredini, ambasciatore di Lorenzo, riportò infatti come a Venezia non si prendesse trop-

po sul serio la minaccia, e che la Signoria era convinta che il re di Napoli «non è sì caldo al mandar gente e soldare come fu detto» (LdL, III, p. 64 n.).

113 «Poi che ti scrissi, qui non è innovato altro, salvo che si dice che il duca di Calabria et Don

un momento di iniziale ma progressiva intensificazione degli scontri. Dal punto di vista dei suoi avversari, l’effettiva consistenza numerica delle truppe al comando del principe fu in dubbio fino al suo arrivo, tra fine luglio e inizio agosto: Lorenzo aveva infatti ricevuto lettere che parlavano di 12 squadre, o 400 cavalieri, ma in realtà, come dimostra una missiva del Magnifico datata 6 agosto, Federico portò con sé cinque «squadrette»114. Da ciò risulta comunque evidente che al secondogenito era

affidato il comando di una parte consistente dell’esericito regnicolo.

Anche se l’impiego di Federico e del fratello naturale nella Guerra di Toscana era destinato a durare soltanto qualche mese – come riporta Notar Giacomo, infatti, il 22 settembre, mentre Federico si trovava a Chianciano insieme ad Alfonso II, «ven- ne nova como era facta la parentela (…) con la figliola dela duchessa de Savoya»115,

e dunque egli dovette recarsi nuovamente a Napoli per organizzare la propria par- tenza per la Francia –, è inoltre chiara la volontà del re di schierare per la prima volta tutto il “capitale umano” disponibile rappresentato dai principi di sangue, per incrementare, e al contempo rappresentare vividamente all’esterno, il controllo della Corona sull’esercito regnicolo.

La direzione intrapresa risulta ancor più evidente se si considera il fatto che, con Federico stanziato in Francia, e la morte di don Enrico (novembre 1478), a partire dalla Guerra d’Otranto (1480-81)116 fu l’illegittimo Cesare d’Aragona a subentrare

terre nostre, Don Federigho venire per altra via, cioè alla volta di Siena. Noi siamo assai bene in ordine di gente per resistere et habbiamo speranza uscirne honorevolmente» (Lorenzo de’ Medici a Lionetto de’ Rossi, Firenze, 28 giugno 1478, ivi, p. 103).

114 Lorenzo de’ Medici a Girolamo Morelli, Firenze, 6 agosto 1478, ivi, p. 315. 115 Notar Giacomo, p. 143.

116 Tra l’immensa bibliografia, cfr.: G. Pipitone, La Sicilia e la guerra d’Otranto, Palermo 1887;

F. Fossati, Sulle cause dell’invasione turca in Italia del 1480, Vigevano 1901; Id., Alcuni dubbi sul con-

tegno di Venezia durante la ricuperazione di Otranto, 1480-1, in «Nuovo Archivio Veneto», n.s. XII

(1906), pp. 5-35; P. Coco, La guerra contro i turchi in Otranto: fatti e persone, 1480-1481, Lecce 1915; S. Panareo, Trattative coi turchi durante la guerra d’Otranto (1480-81), in «Japigia», II (1931), pp. 168- 181; E. Rossi, Notizie degli storici turchi sull’occupazione di Otranto (1480-81), in «Japigia», II (1931), pp. 182-191; Otranto 1480, Atti del Convegno internazionale di studi promosso in occasione del V centenario della caduta di Otranto ad opera dei turchi (Otranto, 19-23 maggio), cur. C. D. Fonseca, 2 voll., Congedo Editore, Galatina 1986; R. Jurlaro, Realtà e mito di un barone morto in guerra Giulio

Antonio Acquaviva, in Territorio e feudalità nel Mezzogiorno rinascimentale. Il ruolo degli Acquaviva tra XV e XVI secolo, Atti del primo Convegno Internazionale di studi su «La casa Acquaviva d’Atri e di

Conversano» (Conversano - Atri, 13-16 Settembre 1991), Galatina 1995, pp. 9-30; C. D. Poso, La

peste del 1480-1481 in Terra d’Otranto, in Territorio, culture e poteri nel Medioevo e oltre. Scritti in onore di Benedetto Vetere, vol. II, cur. C. Massaro e L. Petracca, Galatina 2001, pp. 471-509; F. Somaini, I progetti ottomani sull’Italia al tempo della conquista di Otranto (1480-1481), la figura di Gedik Ahmed

al vertice del comando militare, subordinato anch’egli per autorità soltanto al pri- mogenito: in una lista di truppe demaniali del 1482, che tuttavia riproduce un or- dinamento precedente, il secondogenito naturale compare infatti a capo del secondo colonnello, il più consistente dopo la Guardia comandata dal duca di Calabria117.

Nella gerarchia interna ai principi di sangue impegnati in ruoli di comando, la posizione del veterano delle guerre di Borgogna non fu però mai messa in discussio- ne. Tornato nel Regno per lo scoppio della Guerra di Ferrara, nel maggio del 1482, Federico fu infatti a capo del secondo colonnello, al posto di Cesare118.

2.2.2. La Guerra di Ferrara: gestione familiare e proiezioni internazionali

Le dinamiche che emergono dallo studio del lungo conflitto conosciuto come Guerra di Ferrara, o “Guerra del sale”119, ad ogni modo, rivelano da un lato la piena

conferma e l’incremento del modello di gestione familiare dei più alti o delicati ruo- li militari, e dall’altro una sua rimodulazione. L’invasione turca di Otranto, nell’e- state del 1480, aveva chiaramente messo in luce la naturale fragilità del sistema difensivo costiero del Regno, soprattutto per quanto riguardava le marine pugliesi. Con la Repubblica di Venezia come nemica al fianco del pontefice, il pericolo era

Pascià e la sua idea di una restaurazione in chiave turca del principato di Taranto, in Territorio, culture e poteri nel Medioevo e oltre. Scritti in onore di Benedetto Vetere, vol. II, cur. C. Massaro e L. Petracca,

Galatina 2001, pp. 531-585; C. Caselli, Napoli aragonese e l’Impero Ottomano, tesi di dottorato in Sto- ria, Università degli Studi di Pisa, 2008-2010; Lettere degli ambasciatori estensi sulla guerra di Otranto

(1480-81). Trascrizioni ottocentesche conservate a Napoli, ed. H. Houben, 2 voll., Galatina 2013.

117 F. Storti, L’esercito napoletano, pp. 170-171. 118 Ivi, p. 166.

119 Sulla Guerra di Ferrara cfr.: M. Sanudo, Commentarii della guerra di Ferrara tra li veneziani

e il duca Ercole d’Este nel 1482, ed. L. Manin, Venezia 1829; E. Piva, La guerra di Ferrara del 1482,

voll. 2, Padova 1893-1894; G. Coniglio, La partecipazione del Regno di Napoli alla guerra di Ferrara

(1482-1484), in «Partenope», II (1961), pp. 53-74; R. Cessi, La pace di Bagnolo nel 1484, in «Annali

triestini di diritto, economia e politica», XII (1941), pp. 277-356; Id., Per la storia della guerra di

Ferrara (1482-83), in Notizie degli Archivi di Stato, VIII (1948), p. 63-72; F. Secco d’Aragona, Un giornale della guerra di Ferrara nelle lettere di un condottiere milanese-mantovano, in «ASL», 7 (1957),

pp. 317-345; M. Mallett, Le origini della guerra di Ferrara, in Lorenzo de’ Medici, Lettere, VI (1481-

1482), cur. M. Mallett, Giunti-Barbera, Firenze 1990, pp. 345-361; Id., Venice and the war of Ferra- ra, 1482-1484, in War, culture and Society in Renaissence Venice. Essays in honour of John Hale, cur. D.

Sanderson Chambers e C. H. Clough, London 1994; F. Cazzola, Venezia, Ferrara e il controllo del Po:

dalla Guerra del Sale alla battaglia di Polesella (1482-1509), in F. Cazzola, A. Mazzetti, La battaglia della Polesella 22 dicembre 1509, Atti del Convegno di studio delle Deputazioni di storia patria per

le Venezie e di Ferrara (Polesella, 3 ottobre 2010), Polesella 2011, pp. 9-22; J. Calmette, La politi-

più che concreto, e le prime ad avvertirlo erano ovviamente le comunità di Puglia, Abruzzo e Calabria, sulla cui tenuta psicologica si fondava in primo luogo ogni possibilità di difesa efficace e di controllo territoriale. Fin dall’inizio, nella prima- vera del 1482, parte della strategia del re fu quindi proprio quella di incrementare il posizionamento dei principi reali alla testa di truppe, ma, appunto, in funzione difensiva, distendendo i tentacoli della monarchia sul fronte interno: il dispiega- mento riguardò per la prima volta Ferdinando II (in Abruzzo e poi in Calabria), il principe di Capua, e Giovanni d’Aragona (in Puglia), ma da un dispaccio inedito del 22 luglio sappiamo che Ferrante aveva addirittura in mente di richiamare don Francesco dall’Ungheria per rimpinguare ulteriormente i ranghi dei suoi capitani “di sangue”120. Il duca di Calabria, che allo scoppio del conflitto aveva ottenuto

l’ingaggio come generale della Lega tra Napoli, Firenze e Milano121, con un ruolo

di assoluta preminenza e un «esteso potere decisionale» – che gli permetteva «di disporre delle somme di denaro erogate dagli alleati, sia di stabilire la distribuzione sulla scena delle operazioni delle truppe dei cobelligeranti»122 –, sarebbe invece sta-

to “araldo” della «politica di potenza esterna» del Regno, conducendo l’esercito nel basso Lazio contro il pontefice.

In questo quadro strategico, Federico doveva ricoprire la funzione di elemento flessibile, impiegabile «dove sarà più expediente», sia a sostegno di un’azione of- fensiva a nord, a supporto del fratello Alfonso o in un fronte secondario – si pensò ad esempio di inviarlo nelle Marche contro il signore di Camerino Giulio Cesare Varano, al servizio del papa123 –, sia come perno della difesa delle province regnicole

contro un attacco della flotta veneziana. In realtà, nonostante re Ferrante avesse ini- zialmente dissimulato i propri timori innanzi agli oratori alleati, un’azione nemica in Puglia fu presto giudicata molto probabile, come parte di una manovra volta a

120 «(...) la maestà del re havea dato commissione ad esso don Nicolò facesse ogni instantia

cum esso signor re [d’Ungheria] che li volesse mandare lo illustre don Francisco suo figliolo, quale è lì presso sua maestà, per haverne bisogno di qua in questi tempi» (Giorgio Brogli al marchese di Mantova, Napoli, 22 luglio 1482, in AG, 806, s. n.).

121 Storti, Il principe condottiero cit., p. 340. 122 Ivi, p. 342.

123 «La maestà del re heri me dixe ancora che faceva mettere in ordine dom Federicho ad questo

affecto di mandarlo verso la Marcha per fare revocare lo signore de Camerino a casa sua, overo di mandarlo dove sarà più expediente» (Branda Castiglioni al duca, Napoli, 25 maggio 1482, in ASM, SPE, Napoli, 239, s. n.). A inizio giugno, attraverso alcune lettere intercettate, si ebbe poi notizia «el signore de Camerino essere partito da Palestrina et andare ad Roma», dunque non fu più neces- sario inviargli contro Federico (6 giugno 1482, in ASM, SPE, Napoli, 239, s. n).

liberare Roma dalla stretta del duca di Calabria124: una volta che, a metà giugno,

l’armata cominciò effettivamente a «scoprirse», rendendo «necessario de provedere ad omne periculo che puotesse accadere»125, il sovrano, mostrandosi «molto afflicto

et affannato»126, stabilì dunque che Federico si recasse alla difesa di quelle marine

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