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LE BATTUTE DI CACCIA NELLA PRODUZIONE GIOVANILE DEL BOCCACCIO

L’ATTIVITÀ VENATORIA NEI PRIMI SECOLI DELLA LETTERATURA IN VOLGARE

2.2 LE BATTUTE DI CACCIA NELLA PRODUZIONE GIOVANILE DEL BOCCACCIO

Tra i primi scritti del Boccaccio è probabilmente la Caccia di Diana l’opera che dà avvio alla serie del periodo napoletano; il poemetto in terzine di endecasillabi, che sembra essere stato composto entro il 1334 (così suggeriscono alcuni documenti relativi alle cacciatrici, elementi interni di carattere linguistico, stilistico e metrico e la mancanza del senhal di Fiammetta)17, narra il contrasto tra Diana e Venere e il finale trionfo di Amore su qualsiasi valore e attività umana. La tematica, già diffusa nella letteratura classica18, era cara anche alla letteratura volgare trecentesca, in particolare al genere dei sirventesi, delle visioni d’amore e, come si è visto, alla tradizione delle «cacce»19. Il poemetto boccaccesco, composto da diciotto canti di cinquantotto versi

17

Per un’analisi più puntuale delle prove a favore del 1334 come termine ante quem cfr. G. Boccaccio,

Caccia di Diana, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, a cura di V. Branca, vol. 1, Milano,

Mondadori, 1967, pp. 3-5. Per uno studio approfondito sull’opera cfr. A. Illiano, Per una rilettura della

Caccia di Diana, in «Italica», vol. 61, 4 (1984), pp. 312-34.

18

Cfr. Ovidio, Metam. I 483 ss.; XI 305 ss..

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ciascuno (fatta eccezione per il terzo di sessantuno versi), descrive una battuta di caccia indetta dalla dea Diana, alla quale partecipano le più belle nobildonne napoletane, tutte nominate per nome eccetto l’ultima, che rimane anonima per tutta l’opera («La bella donna, il cui nome si tace»)20. L’azione venatoria occupa la quasi totalità dell’opera (fino al sedicesimo canto): le giovani, suddivise dalla dea in quattro gruppi, si recano sul monte dove, accompagnate da cani e falconi, devono catturare il maggior numero di prede possibili (conigli, lepri, cervi, orsi, daini, caprioli e molte altre fiere, spesso esotiche). Fattosi mezzogiorno, Diana decreta la fine dell’attività e le donne si radunano ai piedi dell’altura per sacrificare le bestie uccise; tuttavia, la «donna piacente»21

, stancatasi della dea della caccia invoca Venere, la quale trasforma tutte le fiere in giovani di bell’aspetto e devoti alle fanciulle. La metamorfosi finale si configura dunque come un rovesciamento del mito classico di Atteone: sia le prede cacciate che il cervo, narratore del poemetto e spettatore del bagno iniziale delle cacciatrici nelle acque22, mutano le proprie sembianze da animali a umane («e vidimi alla bella donna offerto, | e di cervio mutato in crëatura | umana e razionale esser per certo»)23; non è più l’uomo ad essere trasformato in cervo ma viceversa24.

Prendiamo ora in esame il tempo e lo spazio dell’azione: la battuta si tiene in una giornata primaverile («Nel tempo adorno che l’erbette nove | rivestono ogni prato e l’aere chiaro | ride per la dolcezza che ’l ciel move»)25

all’interno di una selva che si sviluppa lungo le pendici del monte. Il riferimento esplicito al luogo selvaggio ricorre

20 Caccia IV 1. 21 Caccia XVI 46. 22

Anche Atteone aveva osservato di nascosto Diana mentre faceva il bagno e per questo era stato punito con la metamorfosi in cervo.

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Caccia XVIII 10-12. Anche nel finale della Comedia delle ninfe fiorentine Ameto, dopo essere riuscito ad abbandonare un amore carnale per uno nobilitante (XLVI 5: «d’animale bruto, uomo divenuto»), subisce una metamorfosi dal punto di vista morale. Un vero Atteone è invece Cimone che nella prima novella della V giornata del Decameron, dopo aver osservato Efigenia nuda, da uomo rozzo e animale diventa «il più leggiadro e il meglio costumato e con particolari vertù che altro giovane alcuno» (Dec. V 1 20). Il luogo della contemplazione è per giunta un boschetto, all’interno del quale si trova la fontana in cui si bagna la protagonista.

24

Cfr. V. Branca, L’Atteone del Boccaccio fra allegoria cristiana, evemerismo trasfigurante, narrativa

esemplare, visualizzazione rinascimentale, in Medioevo e Umanesimo. Studi in onore di Gianvito Resta,

Padova, Antenore, 1997, pp. 223-39.

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sei volte all’interno del poemetto, alternando selva ai sinonimi bosco e foresta (II 55: «selva»; V 1-2: «la folta | e dilettevol selva»; VII 38: «selva»; X 37: «foresta»; XI 51: «la piacevol selva»; XIII 25: «bosco»). Gli epiteti che le vengono attribuiti (dilettevole e piacevole) la caratterizzano in senso positivo: essendo la caccia un passatempo, un’attività ludica, anche il luogo in cui si svolge non può che avere connotazione positiva. In un’unica occasione Boccaccio pone l’attenzione su una caratteristica imprescindibile della selva, ovvero la mancanza di luce; scrive ai vv. 52-54 del canto X: «Ucciso quel, ritornaron sicure, | ed a Marella presentar la testa, | che lor guida era nelle vie oscure». Al concetto di oscurità è tra l’altro affiancato quello di guida, che rievoca, forse involontariamente, il ricordo di Dante accompagnato da Virgilio per la selva oscura.

Anche nella produzione successiva non mancano riferimenti, sebbene cursori, alla cattura di prede nel bosco: nel Filocolo, ad esempio, si parla di caccia nelle «selve oscure» a «paurosi cervi» (III 1, 3). Qualche accenno all’attività venatoria è presente inoltre anche nel Teseida: nell’ottava 38 del primo libro Boccaccio paragona la situazione di Ippolita, regina delle Amazzoni, alla vigilia dell’attacco di Teseo, a quella del cinghiale che percepisce l’arrivo dei cani e dei cacciatori26

; nel settimo libro il riferimento ritorna nuovamente attraverso due similitudini, la prima tra guerrieri e cacciatori (ottava 106)27, la seconda tra Palemone e un cinghiale (ottava 119)28; infine, durante lo scontro tra Arcita e Palemone, si accenna alla presenza di Teseo ed Emilia che stanno cacciando nel bosco quando odono i rumori della battaglia (XI 83, 2-3: «[Emilia] che per lo bosco con Teseo cacciando | s’andava»).

Solo la Caccia di Diana, in conclusione, pone al centro della sua narrazione, per altro in modo abbastanza ripetitivo e monotono, l’attività venatoria; per ritrovare nuovi

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«Né altramenti il cinghial c’ha sentiti | nel bosco i can fremire e’ cacciatori, | i denti batte e rugghia e gli spediti | sentieri a sua salute cerca e, pe’ romori | ch’egli ha in qua in là in giù e ’n su uditi, | non sa qua’ vie per lui sien migliori, | ma ora in giù e ora in su correndo, | fino al bisogno, incerto, va fuggendo».

27 «E ciaschedun per sé divenne tale, | qual ne’ getuli boschi il cacciatore, | a’ rotti balzi accostatosi, il

quale | il leon, mosso per lungo romore, | aspetta e ferma in sé l’animo equale, | e nella faccia giela per tremore, | premendo i teli con forza sudanti, | e li suoi passi trieman tutti quanti».

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«Qual per lo bosco il cinghiar ruvinoso, | poi c’ha dietro a sé sentiti i cani, | con le sete levate e isquamoso, | or qua or là per viottoli strani | mugghiando va fuggendo furioso, | rami rompendo e schiantando silvani, | cotale entrò mirabilmente armato | Palemon quivi da ciascun mirato». La fuga del cinghiale descritta in questi versi ricorda quella degli scialacquatori danteschi i quali, scappando dalle cagne, rompono i rami delle piante presenti nella selva.

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spunti significativi per questa analisi sul tema della caccia nelle opere del poeta di Certaldo bisognerà attendere la conclusione del capolavoro boccaccesco, in cui la cattura di fiere selvagge nel bosco, sebbene sia argomento marginale, assume tratti e peculiarità interessanti. Tuttavia, prima di proseguire nell’analisi delle novelle del Decameron legate alla tematica venatoria, è necessario fare un passo indietro e ritornare alla Commedia, in particolare al canto XIII dell’Inferno, che sarà per Boccaccio un punto di riferimento fondamentale per una delle sue narrazioni (forse la più suggestiva) sul tema della caccia.