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Come già ampiamente anticipato nel corso dei paragrafi precedenti, la posizione dottrinale favorevole all’introduzione ed al riconoscimento della categoria giuridica dei beni comuni è sempre stata, per così dire, ‘fronteggiata’ da una corrispettiva e speculare dottrina pervicacemente contraria.

Si tratta del pensiero di studiosi, per lo più di origine culturale liberale, talvolta marcatamente liberista, certamente favorevoli alla dicotomia proprietà privata / proprietà pubblica, per i quali non sembra esservi spazio per – o per lo meno alcuna necessità di – un tertium genus di proprietà.

Per costoro, in sintesi, la proprietà può essere pubblica ovvero privata, o tutt’al più collettiva, se si pensa ai fenomeni delle varie comunanze civiche analizzati nelle pagine che precedono.

Ulteriori tipologie di proprietà, sempre secondo costoro, non potrebbero trovare spazio nel nostro ordinamento, dal momento che anche la proprietà privata può essere legittimamente ‘piegata’ alla soddisfazione di interessi in senso lato pubblici, come già oggi le norme italiane, anche quelle di rango costituzionale, permettono o permetterebbero.

Una delle argomentazioni maggiormente utilizzate dagli ‘antagonisti’ dei beni comuni è l’assunto secondo il quale, una volta identificato, a livello legislativo, politico, sociale ed economico, un ‘bene comune’ (inteso però nel senso di ‘valore’, ‘interesse’ per la collettività, non di bene giuridico tout court), al perseguimento di

tale ‘bene comune’ potrebbero essere rivolti tanto i beni di proprietà pubblica quanto quelli di proprietà privata (questi ultimi attraverso discipline legislative ed imposizioni da parte delle pubbliche autorità di controllo224).

Si è già detto di come tali posizioni dottrinali abbiano potuto avvantaggiarsi di una certa, non rinnegabile, mancanza di omogeneità fra le varie tesi, teorie e posizioni espresse dal filone degli autori ‘pro’ beni comuni, i quali, innegabilmente, non hanno dimostrato grande uniformità di vedute, prestando così il fianco a rigorose critiche dogmatiche225.

224 Si pensi, ad esempio, alle Soprintendenze.

225 Fra queste certamente merita di essere ricordato il contributo del Professor Carlo Iannello, associato di Istituzioni di Diritto Pubblico presso la seconda Università di Napoli, intitolato Beni

pubblici versus beni comuni, in «Forum di Quaderni Costituzionali», il Mulino, Bologna, 2013, nel

corso del quale l’Autore dedica un intero paragrafo al tema “L’equivoco dei beni comuni come

categoria giuridica”, esprimendosi, senza giri di parole, come segue: “La teoria dei beni comuni … ritenendo che il concetto di cosa comune si trovi al di fuori dell’ordinamento giuridico (e ricompreso solo nella nuova categoria dei beni comuni) compie un’operazione che non si giustifica sul piano del rigore scientifico, ma solo in termini strumentali. In pratica, al fine di legittimare la propria ragion d’essere, interpreta i concetti e le categorie classiche in senso opposto a come fatto da una letteratura consolidata. Solo a queste condizioni, cioè che la nozione di demanio sia interpretata in senso opposto al suo originario e genuino significato, può avere senso questo nuovo concetto di beni comuni. Nella ricostruzione che ne danno i teorici dei beni comuni, infatti, il demanio è impropriamente divenuto sinonimo di proprietà individuale dell’ente pubblico, quando è al contrario chiaro che l’appartenenza demaniale rappresenti un fenomeno strutturalmente alternativo a quello della proprietà individuale e configuri un’ipotesi di appartenenza collettiva di beni su cui l’ente pubblico si limita a svolgere un mero ruolo di amministratore (di una cosa altrui, appunto). La confusione tra il concetto di demanio e di beni pubblici, da un lato, e quello di proprietà privata, dall’altro, è da attribuire invero alla dogmatica della proprietà pubblica, inopportunamente importata in Italia dall’ordinamento tedesco verso gli anni venti del 1900, che ha generato confusione e allontanato gli studi - fino alla metà dello scorso secolo - dalla consolidata tradizione pubblicistica. Si tratta tuttavia di una confusione che è stata lucidamente ed efficacemente chiarita da Massimo Severo Giannini, il quale ha scritto, nel 1963, un testo fondamentale e insuperato in materia di beni pubblici. Secondo il citato autore, fu l’«indirizzo pandettistico» che escogitò «il concetto di “proprietà pubblica”, con il quale si ritenne di poter sistemare quasi tutto»sebbene, in realtà, tale concetto ha rappresentato solamente «un’espressione verbale, con cui non si è riusciti a spiegar nulla», mentre al di sotto di questa espressione «seguita a circolare per proprio conto una ben più fervida e complessa realtà giuridica». Osservava, infatti, Giannini che se si vuole davvero comprendere a fondo la materia occorreva «quasi dimenticare ciò che si è detto e si è scritto sul demanio, e riprenderlo da capo». Riprendere da capo la materia significava appunto che non fosse assolutamente necessario introdurre nulla di nuovo ma, molto più semplicemente, «tornare alle origini», cioè rivolgere l’attenzione ai dati, di carattere storico e sociale, che hanno determinato la nascita stessa dell’istituto demaniale, che affonda le proprie radici nei fenomeni di appartenenza collettiva dei beni che servono a una data comunità per soddisfare le proprie vitali esigenze (allo stesso tempo, comunitarie e legate alla sopravvivenza dei singoli). Elementi che, al contrario di quanto avvenuto con la teorica della proprietà pubblica, erano stati tenuti ben presenti dalla dottrina più antica. Il demanio, infatti, rileva Giannini, è stato

all’origine «una proprietà collettiva, cioè una proprietà da cui ogni membro della collettività poteva trarre delle utilizzazioni». Rilevatosi essenziale «trovare chi potesse provvedere alla sua manutenzione», si individuò a tale scopo nel dominus terrae, poi nel sovrano, poi nella corona tale soggetto «che si concepì come amministratore di beni altrui, i quali, a garanzia dei titolari del diritto si dissero inalienabili». Infine, per arrivare ai tempi moderni, alla Corona si sostituì lo Stato. Ma, «inavvertitamente», a un certo punto «si invertirono le parti, e si giunse a concepire Stato e

comuni come proprietari dei beni [corsivo mio], gravati da servitù di uso da parte della

collettività». Si è giunti così fino al punto di rompere «il legame tra beni e collettività», determinando un paradossale capovolgimento dei rapporti per cui si attribuì «all’ente territoriale la proprietà individuale del bene e ai componenti la collettività un diritto reale parziario di uso o di utilizzazione sul bene altrui». Ebbene, se questa concezione era dominante ai tempi di Giannini, proprio il suo illuminante lavoro ha determinato una decisa inversione di rotta nelle riflessioni successive, in cui, sulle orme del Giannini, il concetto di demanio e quello di beni pubblici sono stati reinterpretati in conformità del loro autentico e genuino significato, ossia quello di beni appartenenti alla comunità dei cittadini e aperti alla libera fruizione collettiva”. Sull’ambiguità del

concetto di ‘proprietà pubblica’ insiste anche Cerulli Irelli V., il quale apre la sua monografia

Proprietà pubblica e diritti collettivi, Cedam, Padova, 1983, con le seguenti, illuminanti, parole:

“«Proprietà pubblica» è voce usata dalla Costituzione. Ma è assai ambigua. Essa appare invero,

almeno prima facie, non possedere alcun significato tecnico. Ché il curioso accostamento delle due nozioni non è tale da richiamare definiti istituti positivi, ma piuttosto sembra possedere un valore descrittivo – in quanto richiama in se stesso una serie di nozioni di comune consapevolezza – e una valenza ideologica. Non sembra invero che tale nozione – come del resto le altre ad essa corrispondenti e spesso usate indifferentemente dalla dottrina: come «demanio», «cose pubbliche», e simili – sia posta dall’ordinamento come concetto positivo, cioè come quella che designa un settore di disciplina applicabile a determinate classi di fattispecie, ovvero classi di fattispecie senz’altro, come ad esempio, contratto o persona giuridica pubblica o anche proprietà. Ciò deve essere invero accertato sulla base dei dati positivi. Ma risulta liminarmente in qualche modo sospetto che gli autori, e anche la giurisprudenza, usino indifferentemente le nozioni citate per indicare settori tra loro differenti della disciplina positiva, ovvero classi di fattispecie, e a volte nello stesso contesto settori di disciplina e classi di fattispecie mescolate assieme. A volte in vero è stato compiuto il tentativo in dottrina di dare a qualcuna delle predette espressioni significato tecnico dal punto di vista degli schemi positivi. Un esempio importante di ciò si ebbe nella ricerca - tentata da molti, a volte in maniera completa e magistrale, sotto il regime del vecchio codice - del concetto positivo di “demanio”, giustificata dall’esigenza di dare contenuto all’espressione “beni del demanio pubblico” come quelli “per loro natura inalienabili” usata dall’art. 430: espressione che per unanime convinzione non costituiva un mero richiamo delle varie categorie di beni indicate dagli articoli precedenti. E così anche vi furono autorevoli contributi alla costruzione di un concetto positivo di “proprietà pubblica” che potesse anche prescindere dai confini segnati dalla legge ai “beni demaniali” e coprisse una vasta area dominicale imputata ai pubblici poteri e retta da “regime amministrativo”. Si prescinde da una valutazione di tali tentativi, spesso viziati da errori di impostazione metodologica, nella ricerca di classi di fattispecie sulla base degli istituti della disciplina positiva prevista per le fattispecie stesse. Certamente, i risultati di quei tentativi costruttivi non sono stati seguiti nell’esperienza recente e risultano poco utili. È vero tuttavia che la voce “proprietà pubblica”, come le altre voci similari che si sono indicate, ma meglio e più efficacemente che quelle, richiama senz’altro un complesso di fenomeni reali o di oggetti del mondo reale (fattispecie) nonché un complesso di istituti giuridici utilizzati dai vari ordinamenti, e segnatamente dal nostro, per disciplinare quei fenomeni, quelle fattispecie, grosso modo coincidenti. Le porzioni di territorio “naturalmente” assoggettate all’uso e al godimento della collettività, le strade, i fiumi, il lido del mare, e così via; la normativa che rende queste cose “inappropriabili” dai privati. I beni, non assoggettati all’uso della collettività, ma economicamente utilizzabili, che, per disposizione di legge possono appartenere soltanto allo Stato o ad altra persona giuridica pubblica, come le miniere, le energie del sottosuolo, anche le acque. I complessi patrimoniali, di vario tipo e natura, redditizi e non, a volte di imponenti dimensioni, restati nell’appartenenza dei beni pubblici poteri, quasi un residuo dell’antico stato patrimoniale. I beni rimasti in proprietà “comunitaria” di collettività organizzate sui modelli più differenziati (dal comune e dalla frazione di comune fino alle partecipanze agrarie, alle comunanze, alle regole di Cadore e D’Ampezzo e così via), salvatisi non si sa come dalla legislazione “individualista” degli

Per semplicità espositiva, oltre all’interessante contributo del Professor Iannello appena citato226, ci limiteremo a riportare la posizione di un autore,

Ermanno Vitale227, che probabilmente potrebbe essere a buon diritto considerato il

portabandiera degli avversari, accademici e non accademici, dei beni comuni e il punto di riferimento, forse, per tutti coloro che non vedono di buon occhio il dibattito che attorno ai beni comuni si sta sviluppando e si è sviluppato.

Esplicitamente teso ad una confutazione filosofica, ancor prima che giuridica, delle tesi espresse da Ugo Mattei nel suo Manifesto228, il pamphlet di Ermanno

Vitale, ironicamente intitolato Contro i beni comuni – una critica illuminista229,

merita un approfondimento, non foss’altro per il rigore argomentativo adoperato. Fin dalla premessa, com’era logico attendersi, l’Autore trova strada facile nel criticare la notevole ‘diversità’, per molti versi fonte di notevole confusione, delle posizioni dottrinali dei cc.dd. ‘benecomunisti’230, e ne sottolinea l’approccio spesso

ultimi due secoli e adesso sufficientemente tutelati dalla normazione recente: ma sempre in pericolo di rimaneggiamenti, di usurpazione, di abbandoni. Non tutti gli autori - né tutte le opinioni diffuse - si riferiscono con le espressioni sopra considerate a tutti questi temi, e ai molti che ancora si potrebbero elencare, e che il lettore facilmente si può rappresentare: e non sempre per la voluta e necessaria limitazione dell’oggetto delle varie ricerche, ma spesso per precise scelte ideologiche, ovvero per scarso interessamento al singolo tema, perché lo si ritiene ormai superato, non più in asse con un certo sistema economico-sociale che si assume vigente, e così via. Basti pensare - ed è molto significativo, come si vedrà - che il più vistoso “fatto di proprietà pubblica” oggi presente nella nostra esperienza positiva (almeno in termini quantitativi, ma anche per le possibilità di intervento sul territorio in funzione di programmazione e di tutela, che apre ai pubblici poteri) - intendo le proprietà collettive imputate a comuni, frazioni e associazioni agrarie di vario tipo - è stato quasi completamente ignorato dalla dottrina “ufficiale” del diritto amministrativo negli ultimi decenni (ma non solo da noi, ché anche altrove il fenomeno è vistoso), almeno sino a Giannini ”.

226 Cfr. la prima parte della nota che precede.

227 Titolare della cattedra di Filosofia politica e Storia delle dottrine politiche presso l’università della Valle d’Aosta.

228 Sul quale vedasi supra al Paragrafo 2 del presente capitolo.

229 E. Vitale, Contro i beni comuni – una critica illuminista, Laterza, Roma-Bari, 2013.

230 Come si può leggere a p. VIII della Premessa, “Per non parlare della nozione giuridica, e ancor

prima analitico-descrittiva, di ‘beni comuni’, vero e proprio caso paradigmatico di ‘notte in cui tutte le vacche sono nere’. Nella prospettiva olistica, vale a dire comunitaria (ma di quale comunità, verrebbe da chiedersi en passant: di vicinato, cittadina, nazionale, sovranazionale, planetaria?), tutto è ‘bene comune’, perché ciò che definisce il bene comune non è un ambito o una tipologia di enti, ma la prospettiva, per l’appunto totalizzante, dalla quale si guarda questa o quella risorsa, situazione o prestazione”.

superficiale, frutto, probabilmente di valutazioni talvolta troppo semplicistiche riguardo ad alcuni fenomeni storici, passati e presenti231.

Il pensiero di Vitale esposto nell’opera in esame si articola, come nel più classico degli schemi argomentativi, in due parti, una pars destruens e una pars

costruens.

Una delle argomentazioni certamente più interessanti della pars destruens, è quella che tende a ‘sfatare il mito’ della tradizionale visione ‘benecomunista’ delle opere di Hardin e della Ostrom, generalmente ritenuti, rispettivamente, ‘orco e fata’, come li definisce ironicamente Vitale, ossia ‘antagonista e aiutante’ dei beni comuni.

Secondo Vitale, infatti, Hardin, nella prospettiva dei benecomunisti, risulterebbe essere un aiutante piuttosto che un antagonista: la ‘tragedia dei beni comuni’ evocata nel suo più celebre articolo e le soluzioni che ad essa Hardin propone non sarebbero uno strumento per porre fine ad una gestione ‘collettiva’ delle risorse ‘comuni’, ma piuttosto l’unica, realistica, via da percorrere per riuscire a salvaguardare quelle stesse risorse (tutelando, in fin dei conti, un interesse sostanzialmente collettivo).

Il vero problema che Hardin si propone di indagare è quello del sovrappopolamento incessante del pianeta che, inevitabilmente, pare condurre alla

231 Efficacissima, in effetti, in questo senso, la contestazione della visione ‘fiabesca’ di un medioevo ‘ideale’ che sarebbe stato la ‘culla’ e l’origine di una gestione collettiva dei beni comuni “sul modello di una presunta auto-organizzazione che avrebbe gestito – all’interno di una comunità

di pari – prati, boschi e foreste di un medioevo immaginario”. “Immaginario e distorto, – prosegue

Vitale – il medioevo ‘benecomunista’ …è popolato non da servi della gleba che cercavano di

sfuggire alla loro condizione nascondendosi nelle città, ma da allegre brigate di liberi lavoratori che in spirito di solidarietà utilizzavano in maniera ecologicamente perfetta le risorse naturali, guidati dall’ ‘intelletto generale’, che più prosaicamente possiamo definire quelle consuetudini e tradizioni che li condannavano ad una vita misera, breve e brutale. L’ideologia bene comunista sembra non sapere o non voler riconoscere quanto dolore si annidasse in tutta probabilità in quelle vite, quanta fame e quante carestie, quanta sottomissione a pratiche comunitarie orribili e discriminatorie nei confronti dei soggetti più deboli e indifesi, o a forme di quella religiosità superstiziosa che ancora oggi produce morte e sopraffazione dell’uomo sull’uomo, pur non venendo da forme di dominio capitalistico (la violenza e la brutalità purtroppo precedono il capitalismo…)”.

‘tragedia’ (tragedia, perché inevitabile) dell’esaurimento delle risorse comuni per via della loro finitezza (per Hardin, il regime di gestione dei beni comuni da parte delle collettività locali sarebbe sostenibile solamente in condizioni di scarsità della popolazione, dovuta per esempio a guerre e carestie, ma porterebbe inevitabilmente all’esaurimento delle risorse comuni in maniera direttamente proporzionale all’aumento delle popolazioni che su tali risorse possano liberamente avere accesso)232.

Allo stesso modo, e per converso, anche il lavoro della presunta ‘aiutante’ Elinor Ostrom, a parere dell’Autore, nasconde più insidie che vantaggi per una teoria dei beni comuni: in effetti, sottolinea Vitale, per stessa ammissione del Premio Nobel, ella ha concentrato la sua attenzione sullo studio di comunità di entità assai ridotta (da 50 a 15.000 persone) nelle quali si sono sviluppati sistemi di risorse collettive che per lo più coincidono con zone di pesca costiere, piccole zone di pascolo, bacini di acque sotterranee, sistemi di irrigazione e (parti di) foreste. “Se si

superano tali dimensioni, ammette la Ostrom, non solo è difficile praticare una gestione cooperativa ma vengono a mancare i requisiti metodologici basilari per fare di tali esperienze un coerente e significativo oggetto di studio”.

Infondo, sostiene Vitale, il lavoro della Ostrom si “riduce” a ricordare che il ‘comune’ non è necessariamente senza regole o insufficientemente normato, ma che,

232 Cfr., in questo senso, E. Vitale, Contro i beni comuni. Una critica illuminista, Laterza, Roma-Bari, 2013, pp. 10 e 11: “Hardin non vede alternative convincenti. Ma il suo schema di

ragionamento appare piuttosto aperto: se qualcuno sapesse portare buoni argomenti a favore di una migliore (più efficiente) organizzazione della convivenza umana, ad esempio attraverso la partecipazione ‘moltitudinaria’ e le forme di democrazia diretta, non c’è ragione di credere che tali argomenti sarebbero scartati a priori. Per quanto possa apparire paradossale, Hardin si pone lo stesso problema di fondo dei ‘benicomunisti’: gestire le grandi sfide della comunità umana senza dare troppa importanza ai piagnistei liberali sui diritti della persona, ivi compreso quello di proprietà, e sulle regole della democrazia. Le necessità della comunità vengono prima della anarchia liberale individuale, là dove l’imperativo è offrire soluzioni politiche globali sostanziali ed efficaci”.

al contrario, fra le dimensioni del ‘pubblico’ e del ‘privato’ esiste lo spazio, a determinate condizioni, per lo sviluppo di istituzioni intermedie (non pubbliche) che possono contribuire alla governance locale di alcune risorse, talvolta persino integrando le norme dell’ordinamento giuridico statale.

Sottolineando come la stessa Ostrom evochi, quali ‘autori di riferimento’, i vari Hobbes, Montesquieu, Hume, Smith, Madison, Hamilton, Toqueville, “non

proprio il parterre della rivoluzione, o almeno delle preoccupazioni di giustizia sociale”, Vitale, in ultima analisi, suggerisce agli autori pro beni comuni di “far scendere” tanto la Ostrom quanto Hardin “da un palcoscenico che non appartiene loro”.

A ben guardare, comunque, la posizione di Vitale, a dispetto del titolo volutamente provocatorio della sua opera, non va considerata come visceralmente contraria alle teorie dei beni comuni, anzi: sembrerebbe piuttosto orientata a demolirne le derive estremiste e ‘pancomuniste’233 di alcuni Autori, e ad elogiarne

invece i contribuiti più squisitamente giuridici e pragmatici (sembra essere particolarmente apprezzata l’impostazione di Ferrajoli).

Particolarmente felice in questo senso, a giudizio di chi scrive, è la volontà di rifocalizzare l’attenzione su di un “sobrio concetto di bonum commune”,

233 Ad esempio, le celebrazioni delle costituzioni sudamericane di fine XX-inizio XXI secolo, delle quali viene sottolineata, al netto di una “strabordante retorica”, la grande fragilità, dovuta in parte ad una notevole facilità di riforma ma soprattutto ad una sostanziale inattuazione dei principi in esse contenuti da parte dei sistemi politico-statuali, i quali, nonostante riconoscano formalmente una “miriade di autonomie politiche e giuridiche indigene e locali”, nonostante si siano dati ufficialmente una forma di Stato federale, in verità si trovano ad avere a che fare con un peso enorme dello Stato centrale, dominato dalla figura “paramonarchica” del Presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo. Più che di democrazie ‘partecipative’, osserva Vitale, siamo di fronte a democrazie ‘plebiscitarie’, nelle quali “la democrazia si risolve nell’elezione del

capo a cui ci si affida quasi per intero per la durata del suo mandato”. Visti da questo, forse più

realistico, punto di vista, i sistemi giuridico-politici dell’America latina, specialmente se raffrontati