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Stato vs mercato: un dilemma che si pone anche attorno ai beni comuni (quelli di interesse culturale in particolare)

Il dilemma del rapporto e dell’eterna ‘contrapposizione’ fra pubblico e privato è ormai da vari decenni un ‘classico’ della letteratura, non soltanto giuridica od economica, ed ha investito numerosi e disparati ambiti di indagine, fra i quali ovviamente non manca quello degli assetti giuridico-normativi concernenti il diritto di proprietà e quello della gestione-tutela-valorizzazione di alcuni beni ‘comuni’ particolari, segnatamente, per quanto interessa la presente indagine, i beni componenti il patrimonio culturale61.

In effetti, il dibattito concernente l’alternativa stato/mercato nella gestione dei beni pubblici in generale e dei beni pubblici di interesse artistico-culturale in particolare è il naturale sviluppo di un ben più ampio dibattito che da decenni si rinnova attorno all’alternativa stato/mercato nella gestione delle economie nazionali degli Stati e nelle dinamiche delle economie transnazionali all’interno di quello che sta, sempre più, diventando un vero e proprio mercato globale62.

61 Sul punto, anche in ottica comparatistica rispetto ai sistemi francesi e statunitensi, si veda il recente contributo di S. Verde, Cultura senza capitale. Storia e tradimento di un’idea italiana, Marsilio, Venezia, 2014.

62 Ampiamente condivisibili, in questo senso, paiono le parole di A. Schiavone, nel suo contributo

Il rapporto tra stato e mercato dagli anni settanta ad oggi, in Mattei U. – Reviglio E. – Rodotà S. (a

cura di), I beni pubblici. Dal governo democratico dell’economia alla riforma del codice civile, Accademia Nazionale dei Lincei, Scienze e Lettere Editore Commerciale, Roma, 2010, pp. 33-34: “Secondo una lettura schematica ma non infondata, l’ultimo tratto della modernità occidentale

A questo proposito, prima di fare riferimento, come verrà fatto del Capitolo II, ai contributi di Elinor Ostrom volti, in un certo senso a ‘sfatare’, se così si può dire, il mito dell’alternativa stato/mercato e a dimostrare che, in determinate condizioni, esiste la possibilità di perseguire una ‘terza – e forse più efficace – via’, appare altrettanto interessante soffermarsi brevemente sui contributi di altri due importanti studiosi della matteria, i quali si rivelano particolarmente efficaci nello smontare altre due convinzioni (leggende?) solitamente assai radicate nel pensiero economico-giuridico della nostra realtà occidentale.

Da una parte, la convinzione che la mano pubblica, a causa della lentezza, inefficienza e macchinosità degli apparati burocratici, non sia in grado di operare nel mercato (con particolare riferimento al settore dell’innovazione) allo stesso modo, oppure persino meglio e più efficacemente rispetto agli attori privati; da un’altra parte, la convinzione che, nel più specifico ambito della gestione, tutela e valorizzazione dei beni di interesse storico-artistico-culturale63 la gestione pubblica

l’Ottocento sarebbe stato certamente un secolo del mercato, dopo la rivoluzione industriale, mercati nazionali in economie che funzionavano su base nazionale anche se naturalmente avevano un aspetto di commercio internazionale rilevante con il libero commercio all’interno degli imperi e delle colonie, ma sostanzialmente economie nazionali e mercati nazionali. Il Novecento sarebbe stato, invece, il secolo dello Stato, sia pure un Novecento breve, dalla prima guerra mondiale agli anni Ottanta del Novecento, secolo dello Stato in tre varianti: l’autoritarismo, lo Stato etico e interventista fascista e nazista, lo Stato della proiezione diretta della dittatura del proletariato nel modello sovietico, lo Stato interventista del modello democratico occidentale rooslveltiano-keynesiano, lo Stato che interviene nell’economia a sostegno della domanda effettiva, il cui nucleo è la dottrina keynesiana attraverso una politica massiccia di spesa pubblica, di interventi pubblici, di impresa pubblica. … In questa andata e ritorno il Duemila sarebbe stato, ma poi le cose si sono complicate…a partire già dagli anni Ottanta del Novecento, di nuovo il secolo del mercato, della deregulation, del ritrarsi indietro della sfera statale e di nuovo mercati ma questa volta mercati sopranazionali e globali, anzi al singolare il mercato globale con uno Stato che, come dicevo, si ritrae. Noterò di sfuggita che il rapporto fra trionfo del mercato e regresso della statualità rispetto alla sfera della società civile ha una sua connessione con i grandi momenti di sviluppo tecnologico: nell’Ottocento sicuramente il vapore e le ferrovie fino al riflesso sull’organizzazione del lavoro, quindi il primo Novecento il taylorismo e il fordismo, con una fase di relativa stasi nell’innovazione tecnologica e di crisi economica nel 1929, la crisi fiscale dello Stato degli anni Sessanta e Settanta e poi invece la ripresa del mercato in rapporto a una rivoluzione tecnologica che si è aperta dagli anni Ottanta e che poi è andata via via accelerando e nel cui turbine noi viviamo ancora”.

63Beni comuni’ a tutti gli effetti, come è stato argomentato nelle pagine che precedono e come sarà ulteriormente argomentato nelle pagine che seguono.

sia assolutamente più deficitaria – e quindi, in definitiva, sconsigliabile – rispetto a quella privata, di guisa che, ad esempio, per evocare uno degli ambiti di maggiore interesse e riguardo al quale si è sviluppata, in anni recenti, una notevole discussione, alla gestione ‘pubblica’ dei musei andrebbe, secondo una certa letteratura e secondo una certa corrente di pensiero, sostituita sempre di più la gestione del settore privato, attraverso una vasta operazione di privatizzazione dei musei, sul presupposto che solo l’imprenditoria privata sarebbe davvero in grado di ‘valorizzare’ al meglio il nostro ingentissimo patrimonio artistico e culturale.

Da una parte, dunque, si richiameranno gli interessanti contributi di Mariana Mazzucato64, titolare del corso di Economics of Innovation presso la University of

Sussex, la quale sostiene, con documentata lucidità, come vada assolutamente approcciata con diffidenza la leggenda in base alla quale lo Stato sarebbe, sempre e comunque, un pessimo imprenditore, e secondo la quale, specialmente nel campo dell’innovazione (segnatamente tecnologica), lo Stato dovrebbe limitarsi, astenersi e ‘retrocedere’ per lasciar spazio – laissez faire – al ‘volàno’ del libero mercato.

Da un’altra parte, parimenti, si richiameranno le illuminate considerazioni del Professor Salvatore Settis65, noto archeologo e storico dell’arte italiano, a

confutazione del ‘falso mito’ secondo cui in Italia, paese che nell’intero panorama mondiale può vantare il maggior numero di opere d’arte, uno dei principali problemi di efficienza nel sistema di gestione e valorizzazione del patrimonio culturale e delle

64 In particolare, si farà riferimento alla sua opera Lo Stato innovatore, Laterza, Bari, 2014, che ha riscontrato un notevole successo.

65 Già direttore, nella seconda metà degli anni Novanta, del Getty Center for the History of Art and

the Humanities organismo del famoso Getty Museum di Los Angeles, nonché, nel primo decennio

degli anni Duemila, direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, e, tuttora, presidente del Consiglio Scientifico del museo del Louvre a Parigi. Molte delle considerazioni che verranno in questa sede commentate si ritrovano nel suo famoso pamphlet intitolato Italia S.p.A.. L’assalto al

opere d’arte sarebbe rinvenibile nel fatto che la quasi totalità delle realtà museali italiane sono ‘storicamente’ di proprietà pubblica e ‘tradizionalmente’ gestite dalla pubblica amministrazione, salvo rarissime eccezioni.

Questo aspetto, secondo una sempre crescente moltitudine di voci e di teorie, diffuse tanto fra il vasto ‘pubblico’ dei cittadini-fruitori quanto fra l’elitaria platea degli addetti ai lavori, sarebbe fortemente penalizzante per le realtà museali italiane, le quali, sempre secondo costoro, potrebbero produrre risultati assai più positivi se poste nelle ‘sapienti mani’ dell’imprenditoria privata (per definizione, assai più efficiente e virtuosa rispetto alla mano pubblica).

Si tratta, a ben guardare, di due ‘falsi miti’ che meritano di essere smentiti. Partendo dall’analisi della Mazzucato, possiamo a buon diritto sostenere che l’obiettivo delle sue indagini sia, in ultima analisi, quello di confutare, per l’appunto, l’assunto pressoché ‘dogmatico’ secondo cui lo Stato e gli apparati statali sarebbero, alla prova dei fatti, dei pessimi imprenditori, ragion per cui dovrebbero ragionevolmente lasciare spazio all’impresa privata, specialmente in ambiti assai importanti, anzi decisivi, come quello dell’innovazione tecnologica.

Secondo la Mazzucato sarebbe vero esattamente il contrario.

Alcune delle più famose innovazioni tecnologiche degli ultimi anni (il riferimento, assai spesso, è alle più recenti innovazioni introdotte da aziende multinazionali planetarie, quali Apple e Google: si pensi ai sistemi di navigazione satellitare, schermi a risposta tattile, sistemi di lettura di impronte digitali, sistemi di assistenza vocale ad intelligenza artificiale, etc.) sarebbero erroneamente attribuibili – esclusivamente – al merito di coraggiosi e visionari imprenditori solitari, bensì

dovrebbero più correttamente essere riconosciute come il naturale prodotto di massicci investimenti pubblici in ricerca e sviluppo66.

Vi sono ambiti, infatti, in cui l’imprenditore privato, per natura, tende a non investire, proprio perché tali ambiti non danno sufficienti garanzie di ritorno economico: le imprese private, o gli investitori privati, infatti, tendono fortemente ad investire ‘sul sicuro’, e sono disposti a rischiare solamente allorché la remunerazione dell’investimento appaia ragionevolmente certa, ed altresì ragionevolmente vicina nel tempo67.

66 “…in quasi tutti i paesi del mondo stiamo assistendo ad un imponente arretramento dello Stato,

giustificato con la necessità di ridurre il debito e (forse in modo più sistematico) con l’esigenza di rendere l’economia più «dinamica», «competitiva» e «innovativa». L’impresa privata è considerata da tutti come una forza innovativa, mentre lo Stato è bollato come una forza inerziale, indispensabile per le cose «basilari», ma troppo grosso e pesante per fungere da motore dinamico. … La ragione per cui definisco «imprenditoriale» lo Stato…è che l’imprenditorialità – quella che oggi, apparentemente, tutti i politici e tutti gli alti funzionari sono desiderosi di incoraggiare – non è (solo) una questione di start-up, venture capitals e geni individuali che inventano prodotti rivoluzionari nel garage di casa. È una questione di volontà e capacità degli operatori economici di accollarsi il peso dei rischi e di una reale incertezza di Knight, cioè quello che è effettivamente sconosciuto. [L’«incertezza di Knight» si riferisce al rischio «incommensurabile», cioè un rischio impossibile da calcolare. È un concetto economico che prende il nome da Frank Knight (1885-1992), economista dell’Università di Chicago che elaborò teoria sul rischio e l’incertezza, e sulle differenze fra i due concetti dal punto di vista economico] I tentativi di innovazione di solito si risolvono in un fallimento, altrimenti non si chiamerebbe «innovazione». È per questo che bisogna essere un po’ «matti» per impegnarsi nell’innovazione: perché spesso costa di più di quello che frutta, e quindi, se ci si basasse sulla tradizionale analisi costi-benefici, neanche si comincerebbe. Ma quando Steve Jobs, nella sua celeberrima lectio magistralis del 2005 a Stanford invitava gli innovatori a rimanere hungry e foolish, cioè a non perdere la «fame» di cose nuove e l’«avventatezza» per perseguirle, pochi hanno sottolineato che la foolishness di cui parlava il patron della Apple aveva cavalcato, in buona parte, l’onda delle innovazioni finanziate e dirette dallo Stato. Ma come, direte, lo Stato che sviluppa innovazioni avventate? Sì, in quasi tutte le innovazioni più radicali e rivoluzionarie che hanno alimentato il dinamismo dell’economia capitalista, dalle ferrovie alla Rete fino alle nanotecnologie e alla farmaceutica dei nostri giorni, gli investimenti «imprenditoriali» più coraggiosi, precoci e costosi sono riconducibili allo Stato. …tutte le tecnologie che hanno reso così smart l’iPhone di Steve Jobs sono state finanziate dallo Stato (internet, il GPS, lo schermo tattile e il recente assistente vocale Siri). Investimenti tanto radicali che comportavano un elevatissimo livello di incertezza, non sono avvenuti grazie a venture

capitalists o inventori da garage. È stata la mano visibile dello Stato che ha dato corpo a queste

innovazioni. Innovazioni che oggi non ci sarebbero se avessimo dovuto aspettare che ci pensassero il «mercato e le imprese, o se lo Stato si fosse limitato a starsene in disparte preoccupandosi solo di garantire le cose basilari.”: così, M. Mazzucato, Lo Stato innovatore, Laterza, Bari, 2014, pp. 5-7.

67 Si pensi, ad esempio, al celebre ‘caso Kodak’, nota società statunitense che, fra gli anni Settanta ed Ottanta del secolo scorso era la società leader indiscussa nel mercato mondiale delle macchine fotografiche e delle pellicole fotografiche. È noto come la stessa Kodak, in quegli anni si trovò ad avere la possibilità di investire, per prima, nella tecnologia della fotografia digitale, avendone a disposizione i primi, allora costosissimi, prototipi. Il board della società era ‘diviso’ fra alcuni

Due parametri che, al contrario, l’imprenditore pubblico può permettersi il lusso di trascurare, essendo per questi possibile finanziare progetti ad alto rischio ed a lungo termine: senza questo approccio all’investimento si può facilmente immaginare quanto sarebbe più problematico ottenere grandi risultati nell’ambito della ricerca e dell’innovazione, se questa fosse lasciata integralmente nelle mani dell’impresa privata.

Sulla scia dell’esempio statunitense (si pensi al celebre mito della Silicon

Valley californiana, straordinario distretto industriale della tecnologia, a ben guardare

– come sottolinea la stessa Mazzucato – frutto, oltre che della genialità e della capacità imprenditoriale dei privati, anche – e forse soprattutto – di ben precise politiche di investimento pubblico68), sono oggi molti gli Stati, specialmente le

cosiddette ‘nuove economie’ dei cosiddetti ‘nuovi giganti’ emergenti, ad aver

amministratori, che potremmo definire ‘innovatori’, i quali sostenevano fortemente l’opportunità di investire nella tecnologia digitale, ed altri amministratori, che potremmo definire ‘conservatori’, i quali, al contrario, rifiutavano nettamente tale prospettiva imprenditoriale, ritenendola troppo onerosa dal punto di vista degli investimenti economici e persino lesiva e controproducente rispetto alla propria supremazia nel campo delle pellicole fotografiche. Ebbe la meglio quest’ultima posizione, ed è ben noto come, negli anni a venire, la tecnologia digitale sia stata in fine sposata dalle principali concorrenti giapponesi e divenuta, nel giro di un paio di decenni, la tecnologia ‘standard’ delle macchine fotografiche. Per la Kodak iniziarono anni di enorme crisi: da leader indiscussa del mercato e sinonimo di avanguardia tecnologica, la società statunitense fu nel giro di pochi lustri costretta a cedere e liquidare a compagnie straniere molti rami della propria azienda, interrompere la produzione di macchine fotografiche (concedendo a terzi la licenza per l’utilizzo del marchio), sino a ritrovarsi sostanzialmente fallita nel 2011-2012.

68 A questo proposito, illuminanti sono le parole della Mazzucato: “La Silicon Valley e

l’affermazione dell’industria delle biotecnologie di regola vengono attribuite alla genialità dei singoli individui che fondano piccole società tecnologiche come Facebook o la pletora di piccole aziende biotech a Boston o a Cambridge. Il «ritardo» dell’Europa rispetto agli Stati Uniti è spesso attribuito alla debolezza del settore dell’industria del venture capital nel vecchio continente. Gli esempi presi da questi settori tecnologicamente avanzati negli Stati Uniti spesso sono citati come prova del fatto che in Europa c’è bisogno di meno Stato e più mercato: se spostasse l’ago della bilancia in favore di quest’ultimo, anche il vecchio continente potrebbe avere i suoi «Google». Ma quante persone sanno che l’algoritmo alla base del successo di Google è stato finanziato da un organismo pubblico, la Nsf (Fondazione nazionale per la scienza)? O che gli anticorpi molecolari, che sono alla base delle biotecnologie, sono stati scoperti nei laboratori pubblici dell’Mrc (Consiglio per la ricerca medica), in Gran Bretagna, quando ancora i venture capitalists si tenevano alla larga dal settore? Quante persone sono consapevoli del fatto che molte delle aziende giovani innovative degli Stati Uniti sono state finanziate da capitali di rischio non privati ma

pubblici, come quelli erogati dal programma Sbir?”, così M. Mazzucato, Lo Stato innovatore, Laterza, Bari, 2014, pp. 32-33.

adottato una serissima pianificazione di investimenti pubblici nel settore dell’innovazione (tecnologica), con risultati per molti versi eccellenti69.

Da questo punto di vista, e di fronte a questi emblematici esempi di strategie vincenti poste in essere da numerosi (ed importantissimi) Stati ‘emergenti’ – Brasile, Cina, ad esempio – e basate su (ingentissimi) investimenti di lungo termine in tecnologia ed innovazione, Mariana Mazzucato giunge a stigmatizzare nettamente le recenti politiche economiche poste in essere nell’Unione Europea dalla crisi del 2007 ai giorni nostri.

La posizione dell’economista è quanto mai chiara: la sua proposta è quella, per usare una locuzione assai cara a Mattei, Reviglio e Rodotà, di ‘invertire (radicalmente) la rotta’, abbandonando qualsivoglia politica lato sensu favorevole alla c.d. austerity, ed abbracciando decisamente una nuova strategia di pianificazione pubblica degli investimenti in innovazione e ricerca che impegni risorse

69 “Anche se molti degli esempi citati nel libro riguardano gli Stati Uniti (lo scopo è dimostrare

come il paese che spesso viene portato ad esempio dei benefici del «sistema del libero mercato» abbia uno dei governi più interventisti del mondo quando si parla di innovazione), per quanto concerne gli ultimi anni gli esempi più convincenti vengono dai paesi «emergenti». Oggi gli investimenti visionari sono effettuati in paesi come Brasile e Cina da banche di investimenti pubbliche con una visione molto ambiziosa, che non si limitano ad erogare credito in funzione anticiclica, ma indirizzano questo credito verso settori nuovi e incerti, dove le banche private e i

venture capitalists esitano ad avventurarsi. … Come al solito c’è chi lancia l’allarme sull’effetto di crowding out (detto anche «effetto di spiazzamento») a danno del credito privato, ma la verità è che

queste banche operano in settori, e in aree specifiche all’interno di questi settori, in cui le banche private esitano ad avventurarsi. Lo Stato in questi casi agisce come una forza di innovazione e progresso, senza limitarsi a «sollevare» dal rischio (de-risking) operatori privati troppo timorosi, ma indicando la strada da seguire con audacia e una visione chiara e coraggiosa: l’esatto contrario dell’immagine dello Stato che ci viene propinata solitamente”: così, M. Mazzucato, Lo Stato innovatore, Laterza, Bari, 2014, pp. 9-11. Ed ancora: “…la rivoluzione verde [che] oggi è guidata dallo Stato, proprio come fu guidata dallo Stato la rivoluzione informatica. Nel 2012 la Cina ha annunciato di voler arrivare a produrre 1000 Gw di energia eolica entro il 2050, un obiettivo che equivarrebbe più o meno a sostituire l’intera infrastruttura elettrica esistente degli Stati Uniti con turbine eoliche. Gli Stati Uniti e l’Europa sono ancora in grado di sognare così in grande? Apparentemente no. In molti paesi si chiede allo Stato di restarsene in disparte, limitandosi a sovvenzionare o incentivare gli investimenti del settore privato: così sarà impossibile costruire visioni del futuro analoghe a quelle che vent’anni fa produssero come risultato la diffusione di massa di internet”, ivi, pp.19-20.

enormemente maggiori rispetto al passato quanto alla ‘quantità’ dell’investimento e decisamente rivolta al perseguimento di una nuova ‘qualità’ dell’investimento70.

In altre parole, quello che la Mazzucato propone è l’esatto contrario della teoria del c.d. self-restraint dello Stato in materia di politica economica degli investimenti, un netto rifiuto delle tesi secondo cui, nel campo degli investimenti in innovazione, il potere pubblico dovrebbe optare per un ampio e fiducioso lassez faire in favore dell’imprenditoria privata71.

70 “All’interno dell’Eurozona, i paesi più colpiti, quelli che la Goldman Sachs ha etichettato con

l’infamante appellativo di Pigs (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna), sono anche quelli, senza ombra di dubbio, che hanno meno investito in R&S (fattore che gli economisti, sia quelli specializzati in macroeconomia che quelli specializzati in microeconomia, considerano importante per la crescita). Uno dei miti più grossi, tra quelli messi in circolazione durante la crisi dell’Eurozona, è che i paesi della «periferia», come la Grecia e l’Italia, sono stati troppo «spendaccioni», mentre i più responsabili paesi del «centro» sapevano bene quando e come era il caso di «stringere la cinghia». … Tutta questa insistenza sulla «dissipatezza» dei paesi della periferia non tiene conto del fatto che in molti dei paesi più deboli i disavanzi di bilancio erano molto limitati. In Italia, per esempio, fino al 2007 il deficit si attestava su un modesto 4 per cento, ma poiché il tasso di crescita era molto più basso degli interessi sul debito, il rapporto debito/Pil era cresciuto fino al 105 per cento nel 2007, per arrivare poi fino al 120 per cento nel 2011. E la missione dell’odierno programma di austerity in Italia è semplicemente riportare questo rapporto ai livelli del 2007, quando non si può certo dire che le cose andassero bene. Le politiche di austerità che predominano a livello mondiale si stanno dimostrando controproducenti nei loro sforzi per ridurre il rapporto debito/Pil, perché penalizzano la domanda di consumi (a causa del calo dei salari e del decadimento dei servizi pubblici) e al tempo stesso erodono la fiducia delle