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BENJAMIN ZEPHANIAH LE PERFORMANCE DI UN GRIOT CONTEMPORANEO

Società editrice il Mulino, Bologna

8. BENJAMIN ZEPHANIAH LE PERFORMANCE DI UN GRIOT CONTEMPORANEO

Benjamin Zephaniah è un poeta, scrittore e performer rasta inglese, di origine giamaicana. La sua produzione arti- stica spazia dalla musica reggae alla poesia dub, ai racconti per bambini ma, soprattutto, mette al centro della scena il potere della parola viva, recitata in performance spesso ac- compagnate dalla musica delle sue origini. Zephaniah, che sul sito web da lui gestito in prima persona si definisce «Poet, writer, lyricist, musician and naughty boy» [Zephaniah 2017], scrive e lavora per la radio, il teatro, il cinema, la televisione, ed è costantemente presente sulla scena pubblica britannica, anche grazie ai suoi numerosi incarichi istituzionali, tra cui quello di ambasciatore della letteratura inglese nel mondo per il British Council.

È in tale contesto che saranno analizzate le sue riflessioni sulla letteratura, prendendo in considerazione i contributi affi- dati a vari tipi di (para)testi – in particolare, a interviste e altre forme di comunicazione contemporanea di cui l’autore fa ampio uso – oltre che disseminati in diverse opere, poetiche e non.

La poesia performativa e la sua funzione politica

Zephaniah inizia la sua attività artistica affermandosi come DJ sulla scena locale del sound system e diventa molto popolare per la straordinaria capacità di intessere i suoi toasts con commenti sarcastici sulla situazione sociale e politica del momento1.

1 Nel contesto del reggae, da cui la poesia dub trae origine, il sound system è quel complesso di sonorizzazione che consente al DJ di mani-

polare i dischi per creare le basi musicali (dubbing) sulle quali parlare o cantare (toasting), dando libero sfogo alla propria creatività verbale.

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In un’intervista del 2006 in cui gli viene chiesto di esplorare la relazione tra performance, politica e poesia per ragazzi, Zephaniah spiega quale significato abbia avuto per lui da adolescente la poesia – qualcosa di vecchio e noioso, scritto per lo più da uomini morti e sepolti – e come sia poi riuscito a realizzare il sogno di fare nella vita qualcosa di inedito, cioè quello che davvero desiderava: «Poetry in performance, poetry on television and on the radio, poetry that was political and funny at the same time» [Saguisag 2007, 18]2. A causa delle connotazioni negative che per lui

e per i suoi amici di allora il termine poesia portava con sé, Zephaniah racconta che quando erano giovani preferi- vano utilizzare parole diverse, come ad esempio toasting o

rapping, per parlare delle loro performance, e che per loro

non esistevano semplici poeti, ma solo poeti dub, o poeti

rap, fino a quando non sono riusciti a scendere a patti con

il significato di quella parola (e di quell’arte):

There was loads of other words we used, like ‘toasting’. We also used the word ‘rapping’, although it wasn’t rap as we now know it. For years I was called a rap poet, but it wasn’t hip-hop, it was just a kind of fast talking. If we did use the word ‘poet’, it was as dub poet, reggae poet, rap poet. Or MC or mikeman or wordsmith. Anything but poet or poetry on its own, because it conjured up this image of the white dead man. Later on we kind of said, “Hey, we can’t let a few elite people colonize the word ‘poetry’ – we got to reclaim it”. So then we had the confidence to say we are poets, that’s it, full stop [ivi, 17-18]3.

2 «Poesia in performance, poesia in televisione e in radio, poesia

che fosse politica e divertente allo stesso tempo». La traduzione delle citazioni è mia, ove non altrimenti specificato.

3 «C’erano decine di altre parole che preferivamo usare, come ad

esempio ‘toasting’. E usavamo anche la parola ‘rapping’, sebbene non fosse il rap che conosciamo oggi. Mi hanno definito per anni poeta rap, ma il mio non era hip-hop, bensì un modo di parlare molto veloce. Se usavamo la parola ‘poeta’, doveva essere poeta dub, poeta reggae, poeta rap. Oppure MC [Master of Ceremonies, Maestro di cerimonie], o mago del microfono, o ancora artigiano della parola. Tutto ma non poeta o poesia, perché questi termini evocavano l’immagine dell’uomo bianco morto e sepolto. Più tardi ci siamo però detti qualcosa tipo: “Ehi, non possiamo permettere che un manipolo ristretto di persone colonizzi la

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La poesia dub è un genere nato in Giamaica agli inizi degli anni Settanta, nel periodo immediatamente successi- vo all’indipendenza dal potere coloniale britannico, e si è affermata come forma d’arte impegnata, capace di coniu- gare il linguaggio della musica popolare – in particolare il reggae – con commenti di carattere politico e sociale. L’uso delle pause, l’allungamento o l’accorciamento delle sillabe – come avviene nella musica rap o, più in generale, nei testi delle canzoni – e l’ausilio della gestualità, oltre che l’uso della voce, fanno di ogni performance di poesia dub un

unicum. Come ha sottolineato Griffin nella sua recensione

al volume di Christian Habekost Verbal Riddim: The Politics

and Aesthetics of African-Caribbean Dub Poetry [1993], che

esplora il ruolo della poesia dub nel contesto del dibattito sulla lingua postcoloniale, il genere combina «il valore della poesia, le qualità della voce in quanto strumento, e il potere del vernacolo prodotto in un contesto di resistenza politica e di rivendicazione identitaria» [Griffin 1995, 60]. Secondo la definizione di ‘Dub poetry’ riportata in The

Oxford Companion to Black British History, questa infatti

trova il suo fondamento teorico «nell’affermazione di Kamau Brathwaite in Nation Language (1984) che “l’uragano non ruggisce in pentametri”» [Dabydeen, Gilmore and Jones 2007, 134]; e la poesia performativa rappresenta «una forma artistica giamaicana che un tempo avrebbe potuto reggere tranquillamente il confronto con la poetica jazz di Eliot o di Auden e con il sonoro verso sciolto di Milton, poiché questi autori possono essere tutti letti in performance, e tutti allo stesso modo hanno dato vita a una nuova voce, in risposta a circostanze storiche specifiche» [ivi, 135]4.

parola ‘poesia’ – dobbiamo riprendercela”. E così ci siamo finalmente sentiti in diritto di dire che siamo poeti, semplicemente poeti, punto e basta».

4 La musica e la cultura delle popolazioni caraibiche sono ampiamente

trattate da Dick Hebdige in Cut ’n’ Mix. Culture, Identity and Caribbean

Music [1987]. Per un’analisi della poesia dub, e delle pratiche del toasting

e del talk over si rimanda in particolare al capitolo 10, pp. 82-89. Sulla musica giamaicana, cfr. anche G. Lapassade e P. Roussellot [2009], in particolare pp. 13-37.

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La centralità dell’elemento politico e il valore di resi- stenza espresso dalla poesia performativa sono caratteristiche fondamentali che contribuiscono a delineare quelli che per Zephaniah sono il ruolo del poeta e, di conseguenza, la fun- zione della poesia. Vale a dire, la questione della relazione con la cultura dominante. In Rapid Rapping, pubblicato nella raccolta City Psalms [Zephaniah 1992], l’autore de- scrive le intenzioni politiche della poesia orale e del rap, e sottolinea quanto sia importante per il poeta poter mettere in discussione con la propria opera la cultura dominante. Dopo aver introdotto la grande rivoluzione in atto nella poesia («Intellectuals an sociologists mus come an see / What is happening now orally, / It is really meking history bringing poetry alive / To a dub or funky reggae, to jazz music, rock an jive»)5 e aver passato in rassegna la schiera

di poeti afro-caraibici approdati in Inghilterra a partire dal secondo dopoguerra – da Linton Kwesi Johnson a Mickey Smith, da John Agard a Grace Nichols – Zephaniah riven- dica la funzione sociopolitica della tradizione orale, capace di arrivare a tutti con facilità, ma soprattutto di opporsi a qualsiasi forma di prepotenza da parte del potere:

Long time agu before de book existed Poetry was oral an not playing mystic Poetry was something dat people understood Poetry was living in every neighbourhood

Story telling was compelling listening, an entertaining Done without the ego trip an nu special training Found in many forms it was de oral tradition

When governments said quiet, poets said no submission [ivi, 39]6.

5 «Intellettuali e sociologi devono venire a vedere / Cosa sta succedendo

ora, nell’oralità, / Stiamo davvero facendo la storia perché diamo vita alla poesia / Con il dub o il funky reggae, la musica jazz, rock e jive». Nella traduzione dei versi si è cercato di rendere quanto più fedelmente possi- bile il senso del testo, tralasciando il rispetto del metro e dell’eventuale rima dell’originale.

6 «Tanto tempo fa prima che il libro esistesse / La poesia era orale e

non giocava con la mistica / La poesia era qualcosa che la gente capiva / La poesia era viva in ogni vicinato / I cantastorie si facevano ascoltare

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In più di un’occasione Zephaniah ha dichiarato che la figura a cui si ispira nel praticare la poesia è quella del griot, facendo così risalire la propria arte alla tradizione orale dei cantastorie dell’Africa occidentale che conservavano e tra- mandavano la memoria della loro comunità di appartenenza. «There’s this West African word called griot, which I think is a beautiful word» afferma nell’intervista a Lara Saguisag, spiegando poi che: «It’s a great word, because it just says, “Here’s a human being who’s artistic, and he’ll use whatever means necessary to express himself”» [Saguisag 2007, 19]7.

Che la caratteristica più importante del griot sia il ruolo da lui rivestito all’interno della società cui appartiene lo aveva già sottolineato, qualche anno prima, nella lettera A

Griot Writes inclusa nella raccolta di poesie per bambini

intitolata Wicked World! [Zephaniah 2000b]. In quell’occa- sione, dopo aver chiarito che i griot stanno ormai portando la loro tradizione in tutto il mondo, uscendo dai confini delle tribù dell’Africa occidentale da cui provengono, ne descrive il ruolo di cantastorie – dal momento che il loro compito è di mantenere vivi i racconti della tradizione, oltre che di crearne di nuovi per affrontare argomenti insoliti – e quello di poeti – poiché devono anche mantenere viva la lingua, creando giochi di parole e prestando attenzione alla bellezza e al ritmo della lingua che adoperano.

Per Zephaniah l’attività dei griot non si limita a un pe- riodo di tempo circoscritto nella storia; la loro funzione è quella di trovarsi sempre in prima linea per rivendicare la giustizia politica e sociale, visto che possono utilizzare quel «potere magico» che, secondo Walter Ong, nelle culture africane – o, più in generale, nelle culture orali – viene attribuito alla parola «necessariamente parlata, […] alle parole come suono, cioè come eventi, e dunque come do- e intrattenevano / Senza esibizionismo né studi particolari / Nelle sue varie forme era la tradizione orale / Quando i governi dicevano state buoni, i poeti rispondevano neanche a parlarne».

7 «C’è questo termine che viene usato nell’Africa occidentale, griot,

e io penso che sia una parola bellissima. È una grande parola, perché dice semplicemente: “Qui c’è un essere umano che è un artista e che adopererà qualsiasi mezzo a sua disposizione per esprimersi”».

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tate di potere» [Ong 1982; trad. it. 1986, 60-61]. E ancora, nella lettera A Griot Writes Zephaniah sottolinea le qualità che i griot condividono con i poeti della tradizione orale e accenna al loro ruolo di storici, impegnati nell’importante compito di tener viva la memoria, oltre che di continuare a dire sempre la verità al proprio pubblico, nonostante le frequenti bugie dei potenti:

You can be a griot and even sing Rock ’n’ Roll, Soul, Reggae or Jazz, as long as it is done in the right spirit and with respect to the people. Many griots mix these styles with our local African music. We are historians, keeping alive memories from the past; we are prophets, looking forward into the future; we are dancers at weddings and other great ceremonies; we are actors on the stage of reality and we are newscasters. If our rulers are not being completely honest, [...] we are the ones who tell people what is really happening in the world.

So you see, people, we griots are many things, we are not just poets, or singers, dancers, or actors, we are all-round commen- tators, who work for the good of our community and not just for money. We are the oral tradition [Zephaniah 2000a, 58-59]8.

Nel rivendicare il ruolo della «tradizione orale» che gli spetta in quanto griot, Zephaniah sottolinea l’importanza di quella «memoria incarnata», che è il frutto di una produ- zione culturale collettiva e condivisa, a cui fa riferimento Diana Taylor quando esamina la possibilità di archiviare le performance come «atti di trasmissione» [Taylor 2003, 20]. Considerando la questione nel quadro dei performance studies,

8 «Puoi essere un griot e cantare persino il rock ’n’ roll, il soul, il reggae

o il jazz, purché tu lo faccia con lo spirito giusto e mostrando rispetto per le persone. Molti griot mescolano questi stili con la nostra musica locale africana. Noi siamo storici, che mantengono viva la memoria del passato; siamo profeti, che predicono il futuro; siamo ballerini ai matrimoni e in altre grandi cerimonie; siamo attori sul palcoscenico della realtà e siamo commentatori di notizie. Se chi ci governa non è del tutto onesto, [...] noi siamo quelli che dicono alla gente cosa sta realmente accadendo nel mondo. Perciò vedete, gente, noi griot siamo molte cose, non siamo semplicemente poeti o cantanti, ballerini o attori, siamo commentatori a tutto tondo, che lavorano per il bene della comunità a cui appartengono, e non solo per denaro. Noi siamo la tradizione orale».

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Taylor suggerisce che l’opposizione binaria da considerare non sia quella tra la parola scritta e la parola pronunciata oralmente, quanto quella tra l’archivio e il repertorio, e descrive chiaramente i diversi ruoli che questi giocano nel dar forma alla conoscenza culturale. L’archivio, caratterizzato dalla sua forte relazione con oggetti e tracce materiali che perdurano nel tempo – quali mappe, testi, monumenti e resti archeologici, per citarne solo alcuni – separa «la fonte della ‘conoscenza’ da chi conosce»; al contrario il repertorio, che comprende oggetti di una «conoscenza effimera, che non può essere riprodotta» – quali performance, movimenti e canti – mette in scena una «memoria incarnata» e richiede necessariamente una presenza, dal momento che «le persone partecipano alla produzione e riproduzione della conoscenza semplicemente ‘stando lì’, essendo parte della trasmissione» [ibidem].

La poesia orale e il canone britannico

La connessione con la tradizione orale è alla base della poesia performativa di Zephaniah, che reclama la necessità di non considerare la poesia orale come un sottogenere. Questa convinzione emerge in particolare in un’intervista del 1998 con Errol Lloyd, nel corso della quale la poesia viene da lui paragonata a un grande albero dalle molte ra- mificazioni; è possibile arrampicarsi sull’albero scegliendo da quale dei suoi rami partire, ma questo non significa che il resto della pianta non rimanga disponibile per esplorazioni successive: «I came on to that tree through oral poetry» dichiara Zephaniah, «but through that I have come to love classical poetry, limericks, nonsense verse – all kinds of po- etry equally and that’s the important thing. A lot of people bring a snobbish approach and classify written poetry above the oral, forgetting that the oral came first» [Lloyd 1998]9.

9 «Sono salito su quell’albero grazie alla poesia orale, ma attraverso

quest’ultima mi sono ritrovato ad apprezzare la poesia classica, i limerick e il nonsense – tutti i generi di poesia allo stesso modo, e questa è la cosa importante. Molte persone hanno un atteggiamento snobistico e

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Christian Habekost, nel suo interessante volume sulla poesia dub afro-caraibica, sottolinea come l’idea «della parola combinata al suono della voce (e al ritmo musicale) evochi l’atto della performance, l’esigenza di pronunciare una paro- la – di farla risuonare – per renderla viva, per trasformarla in un’esperienza vitale» [Habekost 1993, 79]. Come per Zephaniah, per lui la parola scritta manca di qualcosa, di quell’incantamento che può esserle regalato solo dalla voce e dai gesti: «la parola senza suono, cioè la parola scritta, è morta, mentre la parola stregata dalla dinamica della voce, del suono e del ritmo riesce a smuovere sia il corpo che la mente di chi ascolta» [ibidem].

Zephaniah affronta questa stessa questione nella poesia, contenuta nella raccolta City Psalms [1992], Dis poetry, che potrebbe essere considerata il manifesto della sua poetica, dal momento che è qui che egli traccia la linea che mette in relazione la sua opera con quella dei performer della musica dancehall, da un lato, e, dall’altro, con quella dei poeti canonici britannici, tra cui Shakespeare, dai quali in verità più spesso tende a prendere le distanze. Dopo aver affermato, infatti, che questa poesia – la sua poesia – è fatta per essere declamata nello stile della dancehall, Zephaniah racconta che essa si insinua nei suoi dreadlock e lo accompa- gna in ogni momento della sua giornata, da quando pedala in bici a quando se ne va a dormire. E non ha nulla a che vedere con la poesia di Shakespeare:

I’ve tried Shakespeare, Respect due dere But dis is de stuff I like.

Dis poetry is not afraid of going ina book

Still dis poetry need ears fe hear an eyes fe hav a look Dis poetry is Verbal Riddim, no big words involved An if I hav a problem de riddim gets it solved,

I’ve tried to be more Romantic, it does nu good for me So I tek a Reggae Riddim an build me poetry

[ivi, 12]10.

considerano la poesia scritta di qualità superiore rispetto a quella orale, e così facendo dimenticano che la prima forma di poesia è stata orale».

10 «Ho provato con Shakespeare ma, con tutto il Rispetto / È questa

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Il rapporto con gli autori inglesi canonici, oltre che più in generale con la Gran Bretagna, si è andato però modi- ficando nel corso degli anni e lo ha portato ad affermare, in un post pubblicato sul suo blog, che il suo ideale è Shelley, perché se vivesse oggi non se ne starebbe rintanato in una torre d’avorio, ma scenderebbe in piazza per far sentire la sua voce contro, che si tratti della guerra o dello sfruttamento dei paesi del terzo mondo; e se proprio gli venisse in mente di partecipare a un festival, diserterebbe quelli letterari e se ne andrebbe piuttosto a Glastonbury. Il suo impegno politico ne fa per Zephaniah l’equivalente di un poeta dub:

I used to think of Shelley as just another one of those dead white poets who wrote difficult poetry for difficult people, but then I learnt how dedicated he was to justice and the liberation of the poor. [...] His ability to connect poetry to the concerns of everyday people was central to his poetic purpose, and those everyday people overstood that he did not simply do arts for art’s sake, this was arts that was uncompromisingly revolutionary, he wrote for the masses. No TV, no radio, no Internet, but his poetry was being quoted on the streets and chanted at demon- stration, not only did Shelley know the power of poetry, more importantly he knew the power of the people. I think of him as the ‘Dub’ poet of his time [Zephaniah 2017, corsivo mio]11. la roba che mi piace. / Questa poesia non ha paura di finire in un libro / Eppure ha bisogno di orecchie per sentire e di occhi per guardare / Questa poesia è Ritmo Verbale, non grandi parole / E se ho un problema è il ritmo che lo risolve, / Ho provato a essere più Romantico, ma non fa per me / Così prendo un Ritmo Reggae e creo la mia poesia».

11 «Io ero solito pensare a Shelley come a un altro dei tanti poeti

bianchi morti e sepolti che hanno scritto poesia difficile per un pubbli- co difficile, ma poi ho scoperto quanto si è impegnato per la giustizia