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WILKIE COLLINS E IL MONDO LETTERARIO VITTORIANO RIFLESSIONI, PROVOCAZIONI,

Società editrice il Mulino, Bologna

3. WILKIE COLLINS E IL MONDO LETTERARIO VITTORIANO RIFLESSIONI, PROVOCAZIONI,

INNOVAZIONI

L’età mediovittoriana è segnata da un intensificarsi della teorizzazione sul romanzo. Avviato già nel secolo precedente, il dibattito sull’arte narrativa coinvolge, assieme a critici e recensori, anche numerosi romanzieri che, attorno agli anni Cinquanta dell’Ottocento, ambiscono a definire lo status ancora incerto del loro mezzo espressivo. Si tratta, in molti casi, di enunciazioni estemporanee, attraverso cui gli scrit- tori giustificano di volta in volta le loro scelte compositive, promuovendo le loro opere in un mercato editoriale pro- fondamente instabile e difendendole dagli attacchi spesso virulenti dei critici.

La provvisorietà di molte teorizzazioni non impedisce, tuttavia, di individuare alcune idee ricorrenti. Una questione cogente è l’affermarsi di una letteratura di massa che, mi- rando a soddisfare un pubblico eterogeneo, solleva pressanti interrogativi intorno al concetto di gusto estetico e allo status dei professionisti della penna, sempre più divisi tra mercenarismo e missione artistica. Sono diversi gli scrittori che, a partire dalla metà del secolo, si mostrano perplessi di fronte alla necessità di attrarre un numero sempre più ampio di lettori poco istruiti e raffinati. Basti pensare ai dubbi sul ruolo di «autore molto popolare» espressi da Thomas De Quincey che, nel 1848, rifiuta con snobismo la prospettiva di «degradarsi all’adulazione servile delle menti più volgari» per «scopi mercenari», o alle riserve manifestate tre decenni dopo da Anthony Trollope, il quale definisce l’imperante moda sensazionale «un peccato imperdonabile di ruffianeria da parte dello scrittore» [Perosa 1983, 239-240, 272].

Un’altra questione centrale è la valorizzazione del rea- lismo come modalità narrativa che, in Inghilterra, tende a svilupparsi in forme naturalizzate, se non addirittura in aperta polemica con la tradizione francese. Molti romanzieri

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si allontanano consapevolmente dalla tradizione del romance, che riprenderà vigore solo a fine secolo, preferendole un

novel basato sulla ricerca di verosimiglianza. È però attorno

ai modi in cui condurre tale ricerca che la posizione degli autori si differenzia. Denigrato da Edward Bulwer-Lytton come meschina imitazione della vita a cui preferire una mo- dellizzazione artistica idealizzante, il realismo è perseguito come impegno sociale da Elizabeth Gaskell, si arricchisce di venature sentimentali nella scrittura dickensiana, diventa indagine psicosociale nell’opera di George Eliot che, in parte sotto l’influsso del positivismo, connota eticamente la rappresentazione fedele del quotidiano.

Sono due, in particolare, i nodi concettuali intorno ai quali si articola il confronto vittoriano sul realismo: la funzione morale della letteratura, che a tanti appare minacciata da una raffigurazione cruda del vizio alla fran-

cese, e la ricerca di effetti sensazionalistici ritenuti poco

verosimili. Affrontati con esiti diversi e con notevole vis polemica, questi due nodi restano perlopiù irrisolti durante il secolo, generando accese discussioni tra gli intellettuali. Una soluzione interessante è quella proposta da Ouida1 in

Romance and Realism (Romance e realismo, 1883), dove la

rivalutazione estetica del realismo francese si coniuga con il riconoscimento dello strano come plausibile. «I romanzi realistici francesi sono molto belli nel loro genere perché non temono di misurarsi con il vizio […]; ma il romanzo realistico inglese o di scrittori in lingua inglese non è più reale dei dagherrotipi sbiaditi delle nostre nonne», osserva la scrittrice, giustificando subito dopo l’uso letterario di coincidenze sorprendenti e misteri singolari in quanto aspetti costitutivi della «vita reale» [Perosa 1983, 283].

La posizione di Ouida dimostra il lento evolversi dei principi letterari all’interno di una comunità tendenzialmente propensa al moralismo e al rifiuto di influenze allogene. È tuttavia nell’opera della «cosiddetta scuola sensazionale» [Oliphant 1867, 258] degli anni Sessanta che vanno ricercate

1 Pseudonimo della romanziera Marie Louise de La Ramée (1839-

1908).

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le radici di un tale, innovativo approccio. L’esponente di spicco di questa «scuola», Wilkie Collins (1824-89), offre nella sua scrittura esempi significativi del fermento di idee che caratterizza il mondo letterario mediovittoriano – un mondo segnato da crescenti tensioni verso il novum a cui si oppone un conservatorismo ancora molto radicato. Oltre a compiere importanti esperimenti di ibridazione narrativa che favoriscono lo sviluppo di nuovi sottogeneri popolari (il

sensation novel e il detective novel), Collins contribuisce a

trasformare il romanzo inglese con acute riflessioni teoriche condotte in opere non finzionali, che meritano attenzione per la loro carica innovativa e spesso provocatoria. Si tratta, nella fattispecie, di considerazioni sulla forma romanzesca, sul mestiere dello scrittore e sull’identità del pubblico, che compaiono in numerose prefazioni apposte ai romanzi e in alcuni saggi composti negli anni Cinquanta. Quest’ultimo gruppo di scritti comprende quattro articoli inizialmente pubblicati sulle riviste dickensiane e poi raccolti nel volume

My Miscellanies (I miei scritti miscellanei, 1863): A Petition to the Novel-Writers (Una petizione ai romanzieri, 1856), The Unknown Public (Il pubblico sconosciuto, 1858), Dramatic Grub Street (La Grub Street teatrale, 1858) e Portrait of an Author, Painted by His Publisher (Ritratto di un autore, dipinto dall’editore, 1859).

Analizzando i due gruppi di opere (vale a dire, prefazioni e saggi), questo capitolo si propone di investigare la rilevante funzione svolta da Collins all’interno del dibattito vittoriano sul romanzo. Tale funzione è inestricabilmente connessa con la polemica suscitata dalla moda sensazionalistica di cui Col- lins fu visto come un pericoloso iniziatore. Gli anni Sessanta furono infatti segnati da un acceso dibattito sul sensation

novel tra i critici conservatori, che lo censurarono per motivi

sia estetici che etici, e i romanzieri che lo praticarono riscuo- tendo un enorme successo di pubblico. Alquanto variegati nella loro tipologia, gli attacchi al sensazionalismo apparvero in molte recensioni a firma dell’élite ortodossa che definì i best-seller dell’epoca come scandalosi, offensivi del gusto e della decenza, potenzialmente destabilizzanti dell’ordine sociale, privi di valore artistico e assimilabili alla volgarità

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del mercato manifatturiero: «A commercial atmosphere floats around works of this class, redolent of the manufactory and the shop»2. Sul piano metaletterario, inoltre, i critici non

mancarono di sottolineare i limiti di questa forma romanze- sca, rinvenuti – in modo spesso confuso e contraddittorio – nell’interesse quasi naturalistico per i dettagli più crudi dell’esistenza, nella debolezza della caratterizzazione, nella scarsità di motivi filosofici e scopi didattici, nell’impiego di strategie melodrammatiche, e nella strutturazione del plot fondata su misteri e coincidenze inverosimili.

Collins stesso fu ripetutamente accusato di indulgere a tali debolezze compositive. Ne è un esempio la ricezione critica di

Basil (1852), un suo romanzo giovanile che contiene elementi

successivamente etichettati come «sensazionali». Pubblicato dopo Antonina (1850), in cui l’autore si era cimentato con il sottogenere dello historical romance, Basil suscitò risposte violente e contrastanti nei lettori colti dell’epoca. Sebbene fosse lodato da un recensore anonimo per la sua misura, e benché lo stesso Dickens dichiarasse di apprezzarne le «many clear evidences of a very delicate discrimination of character», il testo fu denigrato da altri per l’improbabilità di alcuni eventi narrati, per la drammatizzazione di «domestic horrors» tipici del realismo francese e per la caratterizzazione di un’eroina viziosa – tutti elementi che, nella visione dei critici, impedivano a Collins di svolgere «a high and holy mission»3. Quel che

emerge da simili attacchi è la predilezione di molti recensori dell’epoca per una visione didattica dell’arte, e la loro tendenza a confondere valori estetici e morali. Profondamente radicata in Inghilterra, tale propensione spiega anche l’ampio rifiuto del realismo d’Oltremanica, associato a nozioni di eccesso, ripugnanza e volgarità4.

2 Mansel [1863, 483] («Un’atmosfera commerciale fluttua attorno

alle opere di questa classe, che odorano di fabbrica e negozio»). Ove non altrimenti indicato, le traduzioni sono mie.

3 Page [1974, 45-53] («molte chiare prove di una estrema delicatezza

nel ritrarre sfumature di personalità»; «orrori domestici»; «una elevata e santa missione»).

4 Si consideri il tono denigratorio usato da D.O. Maddy in una recen-

sione a Basil apparsa su «Athenaeum» (1852): «we warned him against

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Contro il gusto dominante, molti sensation novelists imi- tano la lezione dei francesi, giustificando la loro attenzione naturalistica per il dettaglio in termini di onestà intellettuale e promozione di valori ideali. È in questo desiderio di svi- luppare un realismo osteggiato dal loro milieu culturale che va rinvenuta la vera spinta innovativa dell’opera di Collins e altri sensazionalisti. L’importanza della loro sperimentazione è attestata da un estratto paratestuale di Basil, la «Letter of Dedication to Charles James Ward, Esq.» («Lettera di dedica all’Illustre Sig. Charles James Ward»), in cui l’au- tore dichiara: «My idea was that the more of the Actual I could garner up as a text to speak from, the more certain I might feel of the genuineness and value of the Ideal which was sure to spring out of it». Nella stessa lettera, Collins spiega che un ritratto fedele della vita umana implica ine- vitabilmente la descrizione di «scenes of misery and crime» e preannuncia una «prurient misinterpretation» del suo testo da parte dei moralisti. Degne di nota sono anche la sua osservazione sulla necessità di violare le convenzioni del romanzo sentimentale, e la difesa della componente drammatica della propria narrativa che, analogamente alla scrittura teatrale, dovrebbe stimolare «strong and deep emotions», poiché «the Novel and the Play are twin-sisters in the family of Fiction»5.

Pur nella loro provvisorietà, questi enunciati teorici formano una sorta di manifesto ante litteram del sensazio- nalismo, che impone un ripensamento del ruolo svolto da Collins e da altri rappresentanti della sensational school. Contro molti stereotipi risalenti al periodo vittoriano e ancora resistenti nel Novecento, va riconosciuto il percorso the exaggeration of the French school and “its accumulated horrors”» [Page 1974, 47] («l’abbiamo messo in guardia contro l’esagerazione della scuola francese e il “suo cumulo di orrori”»).

5 W. Collins, Basil [ed. Goldman 1990, XXXIX-XLIII] («La mia

idea era che maggiore fosse la base di Realtà che potessi garantire a un testo, più certo sarei stato della genuinità e del valore dell’Ideale che sicuramente ne sarebbe sprigionato»; «scene di squallore e crimine»; «interpretazione falsata da oscenità»; «intense e profonde emozioni»; «il Romanzo e il Dramma sono fratelli gemelli nella famiglia della Narrativa»).

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sperimentale di questi autori, il cui realismo non può essere più letto sbrigativamente come «mezzo o pretesto, più che sistema e fine» [Perosa 1983, 33]. Se è vero che Collins ap- pare inflessibile nello svelare passioni e vizi dei vittoriani, è altrettanto vero che la sua denuncia del torbido che si annida nel profondo della società non è una strategia volta a creare meri effetti melodrammatici. Facendo leva sulla plasticità del romanzo, «l’unico genere letterario in divenire e ancora incompiuto» [Bachtin 1979, 445], Collins realizza un pro- getto narrativo consapevole che mira a decostruire una serie di convenzioni ricorrenti in alcuni sottogeneri (come quello sentimentale, domestico o di formazione) che trasmettono immagini edulcorate del mondo. Il suo progetto comporta un processo di ibridazione della tradizione inglese, nel cui solido corpo vengono innestati modelli stranieri e forme native eterodosse sviluppatesi all’interno di una lowbrow

literature destinata alle classi popolari (il Newgate novel,

il penny dreadful)6. Il romanzo sensazionale che ne deriva

non è solo il prodotto di un’astuta operazione di mercato, ma è anche – e soprattutto – un contributo alla ricerca let- teraria di una tecnica realistica in grado di transcodificare tensioni etiche e l’aspirazione a un «Ideale» che, come si legge nella Lettera di dedica, è inestricabilmente connessa allo svelamento del «Reale» («Actual»).

La rilevanza della sperimentazione collinsiana trova conferma nella teoria dei generi elaborata nella seconda metà del Novecento dal formalista russo Jurij Tynjanov il quale, nel descrivere le trasformazioni letterarie, spiega che le nuove forme tendono a occupare una posizione centrale dopo essere emerse «dalle inezie della produzione letteraria, dagli angoli più nascosti, dalle pieghe» [Tynjanov 1968, 27]. Nonostante la perifericità di alcuni modelli utilizzati, la ti- pologia romanzesca sviluppata da Collins acquista in effetti dignità letteraria col passare degli anni, come testimoniano

6 Il Newgate novel (dal nome della prigione) era una forma di romanzo

criminale; il penny dreadful era una narrazione a puntate, a basso costo, incentrata su temi horror o sensazionali.

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alcune celebrazioni postume della sua opera7. In quest’ot-

tica, appare utile esaminare le teorie narrative elaborate dall’autore che, come si vedrà, delineano un percorso di sperimentazione tutt’altro che casuale.

Il primo gruppo di scritti comprende le prefazioni e altri elementi paratestuali che fanno da contorno alla narrativa collinsiana, come la Lettera sopra analizzata. Benché possano apparire come semplici anticipazioni o repliche agli attacchi dei recensori, questi documenti, nel loro complesso, offrono una sistematizzazione delle idee che Collins sviluppò in un periodo di circa quarant’anni, interrogandosi sulle potenzialità del realismo, sulle compo- nenti essenziali della fiction e sui rapporti con un pubblico in continua evoluzione. Come suggerisce Norman Page, le prefazioni collinsiane meritano attenzione poiché «nel loro insieme costituiscono un corpus di documenti molto più interessante della maggior parte di quello prodotto dai romanzieri pre-jamesiani» [Page 1974, 3]. La pertinenza del confronto con Henry James (1843-1916) è confermata dalla descrizione dell’esperimento inedito che Collins annuncia di aver condotto in The Woman in White (La donna in bian-

co). Nella Preface apposta alla prima edizione del romanzo

(1860), l’autore spiega di aver intenzionalmente strutturato la narrazione a più voci, affidandola a vari personaggi che, nel raccontare la propria esperienza dei fatti da un’angola- zione individuale, contribuiscono tutti insieme a creare la catena evenemenziale [Collins 1860, I v]. Tale esperimento segna un primo rifiuto dell’onniscienza autorale vittoriana e un’apertura verso quella «fenomenologia dell’ambiguità» che, alcuni decenni più tardi, contraddistinguerà l’esplo- razione jamesiana della coscienza attraverso il «punto di vista circoscritto» del personaggio che, «grazie alla sua sensibilità, percepisce molto, sì, ma non percepisce ogni cosa, e soprattutto percepisce in modo imperfetto» [Marroni 1999-2000, 53, corsivi dell’Autore].

7 Un anno dopo la sua scomparsa, Collins fu ricordato da Edmund

Yates come uno dei grandi romanzieri che avevano reso la metà del secolo un periodo memorabile nella storia della narrativa [Page 1974, 273].

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Assieme alla novità di questo esperimento multifocale, Collins introduce nel paratesto di The Woman in White questioni metanarrative di rilievo. La Preface alla seconda edizione del 1860 include una riflessione sulla possibilità di combinare una buona storia con un’efficace caratterizza- zione dei personaggi. Benché possa apparire semplicistica, l’affermazione «it is not possible to tell a story successfully without presenting characters: their existence, as recognizable realities, being the sole condition on which the story can be effectively told»8 costituisce una vera e propria svolta

rispetto a diffuse tassonomie che negano la plasticità del genere romanzesco. La tendenza ossificante di molti discorsi dell’epoca è evidente in The Gay Science (La gaia scienza, 1866) di E.S. Dallas, il quale differenzia nettamente il ro- manzo di caratteri da quello sensazionale, individuando nel secondo tipo un’inevitabile subordinazione dei personaggi alle esigenze dell’intreccio. In modo analogo, una recensione anonima apparsa sul «Quarterly Review» nel 1863 denigra i personaggi dei sensation novels definendoli «manichini su cui esibire il drappeggio delle vicende» [Perosa 1983, 260]. Contro una tale stereotipizzazione, Collins rivendica a più riprese la capacità di ritrarre figure dotate di profondità psicologica. Oltre ad affermare provocatoriamente l’esistenza di un nesso inscindibile tra storia e caratterizzazione, Collins fornisce indicazioni sui suoi metodi compositivi, sottoli- neando la sua attenzione programmatica per le complessità etiche e psicologiche dei personaggi. Notevoli, in tal senso, sono alcune osservazioni contenute nelle note prefatorie a tre romanzi composti dopo The Woman in White che, anticipando in parte le teorie novecentesche, rivelano una netta predilezione per personaggi chiaroscurali e a tutto tondo. Introducendo No Name (Senza nome, 1862), ad esempio, Collins spiega che questo romanzo si propone di suscitare interesse per la lotta interiore della protagonista,

8 W. Collins, The Woman in White [ed. Symons 1974, 32] («non è

possibile raccontare una buona storia senza rappresentare dei personag- gi: la loro esistenza, come realtà riconoscibili, è l’unica condizione per narrare efficacemente una storia»).

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una figura drammatica e moralmente ambigua, il cui ri- tratto è eseguito con una «resolute adherence, throughout, to the truth as it is in Nature»9. Nel porre l’accento sulla

propensione trasgressiva dell’eroina, la cui figura attirò numerosi commenti censori, l’autore non solo rivendica la propria libertà compositiva nei confronti del moralismo imperante, ma suggerisce anche il valore di un’arte mirante a rappresentare fedelmente la natura umana che, contraria- mente a quanto asserito dai conservatori, è ricca di zone d’ombra e non facilmente tipizzabile. La modernità di una tale visione emerge dal confronto con il giudizio mordace espresso da Alexander Smith che, come molti altri, deplora la condotta immorale dell’eroina di No Name, rovesciando proprio l’assunto realistico collinsiano: «Such people have no representatives in the living world»10. Prevedendo simili

obiezioni, e quasi anticipando le perplessità di un Forster sulla tipizzazione del personaggio (Aspects of the Novel, 1927 [Forster 1985, 73-81]), la prefazione collinsiana solleva invece dubbi su una caratterizzazione tradizionale che, nel proporre modelli imitabili piattamente costruiti, cancella le molte ambiguità dell’agire umano.

Con uguale convinzione, Collins insiste sull’aderenza al vero e sulla complessità etico-comportamentale dei personag- gi di The Moonstone (La pietra di luna). Nella Preface alla prima edizione (1868) dichiara: «Their course of thought and action under the circumstances which surround them, is shown to be (what it would most probably have been in real life) sometimes right, and sometimes wrong»11. La

curiosità per le incoerenze umane è ribadita, con valenza programmatica, nella Dedica a Mrs Elliot apposta a Poor

Miss Finch (Povera signorina Finch, 1872), in cui l’autore 9 W. Collins, No Name [ed. Ford 1994, XXI] («convinta aderenza,

in ogni parte, alla verità così come questa esiste in Natura»).

10 Smith [1863, 184] («Non vi sono rappresentanti di simili persone

nel mondo reale»).

11 W. Collins, The Moonstone [ed. Stewart 1966, 27] («Il corso dei

loro pensieri e delle loro azioni, nelle circostanze in cui si trovano, si rivela essere (così come sarebbe con molta probabilità accaduto nella vita reale) a volte giusto, a volte sbagliato»).

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spiega di aver voluto presentare la «human nature in its inherent inconsistencies and self-contradictions – in its intricate mixture of good and evil, of great and small – as I see it in the world about me»12. Quel che affiora da tali

asserzioni è una valorizzazione della qualità chiaroscurale del personaggio – una qualità che, come si nota nella teo- rizzazione del testo con l’ombra di Roland Barthes [1999, 98], acquista connotazioni di fecondità e produttività, garantendo una certa libertà dall’ideologia dominante. A una tipizzazione consolidata nel romanzo inglese, volta a rafforzare il conformismo della società, Collins oppone l’au- tonomia di figure ambivalenti ma non prive di fascino che, come la protagonista di No Name o il Conte Fosco in The

Woman in White, combinano in modo provocatorio pathos

e razionalità, bieco opportunismo e autentici slanci ideali. L’urgenza di revisionare la caratterizzazione tradizio- nale trova già espressione in un saggio collinsiano apparso sulla rivista «Household Words» nel 1856: A Petition to

the Novel-Writers. Alternando l’ironia con la tecnica della

preterizione, Collins lamenta qui lo stigma posto sul genere romanzesco da un gruppo di noiosi benpensanti e, nello stilare un elenco di trite formule e peculiarità sclerotizzate del personaggio, suggerisce alcune modifiche rivitalizzanti. «Although I know to be against all precedent, I want to revolutionize our favourite two sisters»13 dichiara nel saggio,

contestando la consuetudine di ritrarre coppie sororali forma- te da una bruna malinconica e un’allegra bionda civettuola. Non è un caso che, qualche anno più tardi, nel concepire le sorellastre protagoniste di The Woman in White, Collins eviti di riproporre una simile tipologia, operando invece una decostruzione e anomala ricomposizione delle caratteristiche abituali delle «due sorelle».

12 W. Collins, Poor Miss Finch [ed. Peters 1995, XXXIII] («la natura

umana nella sua innata incoerenza e contraddittorietà, nella sua intri-